Cherubini, Celestini, Checco Zalone: la canzone la sa lunga

Una campagna stampa per il nuovo album travestita da lettura critica, recensioni entusiastiche, fino alla consacrazione nei libri scolastici: davvero nei testi di Lorenzo Cherubini/Jovanotti «c’è più eccitante saggezza che in tutta la cultura accademica»? L’indicazione esegetica più puntuale ci viene da una parodia di Checco Zalone, che con la presa in giro ne restituisce il livello di pacificazione pop dei conflitti. Diversa l’austerità della denuncia sociale di Ascanio Celestini: l’impegno incarnato nelle figure di precari, partigiani, matti non lascia spazio ai pensosi vagheggiamenti personali.
 
Mia figlia Cecilia – seconda media – deve studiare a memoria una poesia. Mentre la cerchiamo insieme sull’antologia (Il quadrato magico, 2007), tra un sonetto di Saba e una novella di Verga mi blocco: ma questo signore a pagina 438 è nientemeno che Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti. A rappresentare la sua opera un passo da Il grande Boh!, uscito qualche anno fa da Feltrinelli. Immagino che la curatrice lo abbia inserito per aggiornare la proposta didattica, per avvicinarla ai gusti dei giovani.
«Hai visto, Ceci?» dico «Nel tuo libro c’è anche Jovanotti!» Mia figlia mi guarda perplessa. «E chi è?» «Ma come? Non lo conosci?» «Perché? Dovrei conoscerlo?»
A dire il vero, neanch’io lo conosco tanto bene. In questi giorni, però, le mie lacune stanno per essere colmate, grazie a un diffuso sistema educativo che va ben oltre le antologie scolastiche. Sul «Venerdì di Repubblica» (18/1/2008) Luca Valtorta firma una recensione a cinque stelle dell’ultimo disco, Safari, dalla quale apprendo che ultimamente è mancato il fratello dell’autore. Che dire? Mi dispiace. Lorenzo – mi informa Valtorta – è fortificato dal lutto. Anche suo padre è malato. E io non ne sapevo niente.
Sulla vasta copertina di un altro supplemento di «la Repubblica», «XL», ecco di nuovo il Cherubini in un disegno a colori: barbuto, aria serissima da eroe solitario, un machete in mano; accanto a lui, una tigre. È (lo scoprirò più tardi) una riproduzione integrale, versione extra large, della copertina del disco. All’interno si annuncia «un diario molto intimo» in cui l’autore di Safari racconta – con parole e disegni – «come è diventato adulto tra viaggi, una figlia e il dolore di una perdita». Qualcuno potrebbe chiedersi in che senso faccia notizia l’approdo di un uomo di quarantadue anni all’età adulta; il fatto è che Lorenzo, avendo sfondato a quattordici come alfiere di una gioventù spensierata e «paninara», ancora oggi fatica a scrollarsi di dosso quell’immagine. Eccolo infatti, meditabondo, sulla copertina di «I viaggi di Repubblica» (21/2/2008), davanti a un mare livido. A cosa starà pensando? L’intervista ha per argomento i viaggi che, a quanto pare, hanno ispirato Safari. Qual è il frutto delle pensose peregrinazioni del Cherubini?
«Mi sono immerso in luoghi che hanno influito molto nel [sic] mio ritmo», racconta il cantautore a Ernesto Assante. «Viaggiare è come creare. […] Senza esagerare potrei dire che è una maniera di comporre canzoni attraverso i piedi…»
Mentre ancora rifletto su questa estrosa immagine, giorni dopo, la grinta cheguevaresca del maturo teenager torna a fissarmi da ogni edicola. Stavolta è sulla luccicante copertina di «GQ» («Gentlemen’s Quarterly»). Nelle pagine interne: Jovanotti intervista Vasco e Bono, Jovanotti infangato versione enduro con Valentino Rossi, Jovanotti in bicicletta (abito di Calvin Klein), Jovanotti di profilo e di scorcio, Jovanotti in guardia a pugni nudi, Jovanotti casual con giacca di lamé, e così via.
La poliedricità del personaggio un po’ mi disarma. Che cosa fa veramente, Jovanotti? Il motociclista? L’indossatore? Il guerrigliero? Il globetrotter?
Finalmente, ancora da un supplemento di «la Repubblica», «TuttoMilano» (7-13/2/08, sezione «Cultura», p. 61), Franco Bolelli mi apre gli occhi, Jovanotti canta la saggezza, decreta il titolo di un suo fervente trafiletto dedicato a Safari. In questa «nuova appassionante opera», garantisce Bolelli, «c’è più eccitante saggezza che in tutta la cultura accademica». Il giudizio è corroborato da lampi del Jovanotti-pensiero. Eccone uno: «La vita è molto più vasta di una definizione». Devo ammetterlo: nella cultura accademica è raro incontrare intuizioni tanto ardite.
A questo punto, la mia propedeusi è completa. Prima che Safari venga recensito anche nella rubrica gastronomica del femminile di «la Repubblica», devo procurarmi la nuova appassionante opera. La trovo alla Libreria Feltrinelli sotto casa, con lo sconto del 20% (in mancanza di sussidi pubblici, il mio aggiornamento culturale può giovarsi di quelli privati). La prima cosa che mi cattura, all’ascolto, è il ritornello di Fango, che solo ora mi rendo conto di avere già sentito mille volte senza volere (o, diciamo, senza averlo richiesto) alla stazione, al bar, in taxi: «Io lo fo che non fono folo / anche quando fono folo». Salto qua e là, di traccia in traccia, alla ricerca del Jovanotti «impegnato», dei viaggi di esplorazione critica del mondo globalizzato di cui ho sentito parlare; mi imbatto in una canzone intitolata A te: «A te che non ti piaci mai e sei una meraviglia […] / A te che sei, semplicemente sei, sostanza dei giorni miei». Mentre insisto nello zapping, mi si affacciano alle orecchie le più svariate reminiscenze: da De Gregori (In orbita) a Gino Paoli (Innamorato), da Battiato (Antidolorificomagnifico) a Claudio Baglioni (Come musica). Dolcissime serenate dedicate a una dolcissima ragazza. Qua e là spunta un «filo spinato», la città è «un film straniero senza sottotitoli, un cartello di sei metri dice è tutto intorno a te / ma ti guardi intorno e invece non c’è niente». Il libretto allegato al cd mi presenta l’autore mentre urla, mentre ruggisce (grrr), ma di tutta questa rabbia, nei testi, non trovo traccia. Qualche pagina più avanti, un Jovanotti in tenuta da aborigeno, con tanto di zagaglia a tracolla e collana di zanne, si domanda: «Riuscirò a fare un disco che assomiglia a questo vulcano che sento nella pancia?». Non so quale vulcano ribolla nella pancia del selvaggio Cherubini; a me il magma che ne è uscito, più che pietra infuocata, sembra gelato alla fragola. L’«eccitante saggezza» magnificata da Bolelli, con tutta la buona volontà, non sono riuscito a reperirla. Ci dev’essere qualcosa che mi sfugge. Forse sono troppo anziano per capire le sottigliezze di questo pop-filosofo.
Di lì a pochi giorni, un soccorso mi arriva; non dalla critica, ma da un collega di Jovanotti, Luca Medici, in arte Checco Zalone, il «cantante neomelodico» reso popolare in tv da Zelig. Nel suo nuovo disco (Se ce l’o’ fatta io… ce la puoi farcela anche tu) un pezzo composto e interpretato in perfetto stile Cherubini, Fiducia nel prossimo, offre una mirabile sintesi del Jovanotti-pensiero: «Io penfo che nel mondo ci fia un filo conduttore / che va da Che Guevara fino a Flavio Briatore / e lì dallo Fri Lanka giù alle valli del Congo / paffa in Cafa Bianca fino a Monfignor Milingo / unisce tutti quanti in una torre di Babele / Carlo Azeglio Ciampi con Vittorio Emanuele / Lo dico apertamente fenza tanti fronzoli / viva quefta gente, viva padre Cionfoli!».
Nella migliore tradizione dell’avanspettacolo, Checco-Cherubini punta su una rima oscena evitata: «Quando non ti fenti vivo e non penfi pofitivo / quando guardi la tua moto e c’hai un fenfo di vuoto […] / Quando un raggio di fole fa crescere l’ortica / quando hai perfo le parole e ogni gefto è una fatica / Basta un po’ di fi… / ducia nel proffimo / perché se c’è la fi… / ducia nel proffimo / si aggiunge altra fi…/ ducia nel proffimo».
Potenza del comico, che in pochi tratti riesce a illuminarti, a mostrarti ciò che tu solo confusamente riuscivi a formulare. Di Jovanotti, del pop-pensiero e in genere della canzone italiana il disco di Checco Zalone rivela molto più di quanto riescano a fare mille saggi e mille articoli di giornale. Le sue irresistibili parodie di Carmen Consoli (Stitica/Zio Santuzzo), Vasco Rossi (Va be’), Eros Ramazzotti (Grandissima storia), Simone Cristicchi (Mi piace quella cosa) sono esilaranti studi critici, analisi lievi e penetranti che si spingono – come nessuno scritto potrebbe – fino al cuore della canzone, alla voce, al corpo del cantante, e dell’idolo ci esibiscono l’ineffabile, l’impensato, l’impresentabile.
Ascoltato dopo i ricchi arrangiamenti del Safari di Jovanotti e delle parodie di Checco Zalone, il nuovo disco di Ascanio Celestini, Parole sante, suona ancora più asciutto, addirittura austero: ci si riconosce la lezione della canzone politica degli anni d’oro, da Paolo Pietrangeli a Giovanna Marini, con forti echi anche di Gianni Rodari e Sergio Liberovici. All’«impegno», qui, non si gira intorno: tutto il disco è all’insegna della protesta, della denuncia sociale, della rabbia. Si parla di padroni, di precari, di partigiani, di matti. La barba fratesco-mefistofelica dell’artista, in copertina, è agli antipodi dello stile neo-hemingway di Cherubini. Attore prima ancora che cantautore, Celestini costruisce le sue canzoni a partire da un personalissimo recitar cantando, senza farsi ingabbiare dai limiti e dalle convenzioni; invece di scorrere buoni buoni nei binari della melodia, i versi spesso s’impennano e si sgranano a raffica, d’un fiato, come scioglilingua: «Vistoeconsideratochenonnepotevanopiùdellaloromalasorte / incominciaronoaaggirarsicomesiaggiròquelfamosospettroperl’Europa» (La rivoluzione). Ai pezzi cantati si alternano variazioni sul tema «Il popolo è un bambino», parlate, che fanno pensare a un Gaber meno ironico, meno ammiccante, più decisamente didascalico: «Il popolo è un bambino. Vuole sempre avere ragione. Allora chi governa il popolo gli deve dire che gli altri c’hanno sempre torto. Gli altri sono atei miscredenti, pervertiti omosessuali, zozzi meridionali, negri puzzolenti…». Il messaggio sembra chiaro, l’informazione esauriente. Alla fine, però, rimane più di una lacuna. E sposato, Celestini? E divorziato? Ha figli? E maturato, ultimamente? Dove ha passato le vacanze? Quale stilista ha firmato la sua maglietta? E la sua famiglia, come sta?
Un amico insiste perché io legga i versi di un poeta «davvero fuori dal comune», di cui non vuole rivelarmi il nome «per non condizionarmi». Il titolo della raccolta è Di sogni e d’amore. Cerco una scusa per esimermi dalla corvée, ma non c’è niente da fare: l’amico sta già accusandomi dei più torvi pregiudizi. Cedo al ricatto, sfoglio qua e là. Ecco gli inevitabili versicoli ungarettiani: «Dentro / non ho niente / da dire / […] / provo lontanamente / poca voglia / di vivere». Passo oltre: «Quando la penombra è spezzata / e il giglio / ha preso il colore / del mirto / e il mirto / del girasole / ed altre / altre finestre / ha acceso / Edison / in pigiama / non è il caso / di prendersela / da morire». Santo cielo. Che cosa ho fatto di male perché mi si costringa a pensare qualcosa di questa roba? E c’è persino l’autocommento storicizzante: «La quinta stagione è uno stato d’incontentabilità, o – per essere più precisi – di delusione. Il determinismo di ogni specie, cristiano, laico, naturalistico, viene ripudiato». Presentando una poesia dedicata alla madre, l’autore la definisce «una composizione che ritengo un gioiello» e subito precisa: «Sono molto restio di solito a giudicare gioielli le mie poesie, e chi mi ha seguito fin qui se ne sarà accorto». In alcune fasi della propria opera riscontra «un menefreghismo nei riguardi della perfezione. Criticamente più che di incomunicabilità (cara sacra vecchia parola) in bottiglie è di scena pienamente il contingentismo qua e là affiorato in Fossili d’aria…».
A questo punto, mi sembra di aver fatto ben più del mio dovere. Pretendo che mi si riveli l’identità del poeta. Il mio amico mi porta il volume, edito da Frassinelli: Di sogni e d’amore. Poesie 1960-1964. In copertina, il popolarissimo sogghigno del professor Roberto Vecchioni.