Ibridare finzione e realtà

La non-fiction italiana sembra avviata a un consolidamento nel nostro sistema letterario: per rilievo quantitativo della produzione, qualità di risultati, crescita di considerazione critica. G8 di Lucarelli, Gorgo di Lettin e Patria 1978-2008 di Deaglio costituiscono tre testi esemplari delle diverse declinazioni del genere: la ricostruzione di eventi di straordinarietà pubblica, il racconto della normalità quotidiana squarciata dalla violenza, fino alla proposta di un annalismo moderno che ripercorre il cammino del destino nazionale. Chi racconta tiene saldamente in mano le fila della narrazione, ma sceglie di non comparire direttamente, dando piuttosto la parola ai documenti, ai testimoni, qualche volta alla riflessione sociologica, politica, morale.
 
Intervistato da Ranieri Polese all’uscita del nuovo romanzo scritto a quattro mani con Mimmo Rafele, La forma della paura, Giancarlo De Cataldo illustra la strategia di ibridazione massiccia di finzione e realtà che ha guidato la creazione del libro: «ci siamo presi tutta la libertà che concede lo scrivere un romanzo. Un po’ come fanno gli scrittori americani. In Italia nessun processo, nessun tribunale dai tempi di Portella della Ginestra è mai riuscito a provare le trame, a condannare i colpevoli. Ci sono stati tanti processi su tutte le stragi che hanno segnato la nostra storia recente, ma la ricerca della verità è sempre stata impedita: prove inquinate, informazioni negate, testimoni fatti sparire. Piazza Fontana è una strage senza colpevoli. E invece, senza l’onere della prova, la fiction può ricostruire lo scenario, collegare i fatti, creare un quadro generale che aiuti a riflettere, a capire». A questa dichiarazione se ne potrebbero aggiungere parecchie altre che testimoniano come, in questa fase tardo moderna di appannamento e declino del postmodernismo ironico-citazionista, vada prendendo piede una nuova fiducia nella scrittura, nella sua capacità di toccare i lettori e di incidere sul reale.
Sono due i versanti in cui si manifesta questa idea forte della parola: la scrittura d’invenzione e quella di resoconto e reportage. Sul terreno delle storie finte con «scenari assolutamente vicini a cose realmente accadute» (uso ancora De Cataldo) il lavoro letterario assume i modi di una reinvenzione e manipolazione disvelante del dato. Una formula, credo, che possa tenere insieme sia il lavoro a partire dalle strutture del giallo compiuto da vari scrittori (da Carlotto a Lucarelli), sia quelle esperienze che si collocano – prendo a prestito una definizione di Alberto Casadei –
«nel sottile discrimine tra non-fiction e autofiction. un tipo di letteratura […] praticato da autori di notevole abilità e valore, da Walter Siti a Eraldo Affinati e Antonio Franchini», dove verosimile vero immaginato si intrecciano, sfumano, stridono all’interno di uno spazio scritto che dichiara radici di autenticità e insieme la propria emancipazione da vincoli «documentaristici». E infatti una caratteristica chiave di molte esperienze odierne di riuso narrativo dei materiali di cronaca – eventi, figure, luoghi dell’attualità o del passato recente – quella di accompagnare alla fiducia nella parola un senso costante dello scarto che non può comunque non dividerla dalle cose. Sta a dimostrarlo la non rara presenza di meccanismi testuali che esibiscono lo spessore della finzione, la natura verbale e costruita del discorso narrativo. Da un lato accade con modi più oltranzistici e spiazzanti nell’ambito di quelle opere che muovono verso i lettori a partire dalla cornice del discorso di finzione (penso alle dichiarazioni di Scurati sull’impiego in Il bambino che sognava la fine del mondo di lacerti di cronaca contro il «cronachismo» e «presentismo» della nostra cultura e società), dall’altro in modi più misurati laddove la cornice è quella dell’impegno a un rispetto sostanziale del nucleo di realtà degli avvenimenti riportati. Qui la fiducia verso la parola è fiducia in una capacità di restituire in maniera persuasivamente fedele un accaduto. La preoccupazione prima è restituire alla visibilità quelle tracce del reale (voci, scritti pubblici e privati, atti giudiziari, resoconti giornalistici, riflessioni saggistiche) che consentono di delineare l’essenziale dei casi raccontati. E qui i segnali di non coincidenza piena fra discorso e realtà sono l’indice di un ragionevole – direi necessario – senso dei limiti della ricostruzione (di base documentaria, di spiegazioni). Il proposito di questi narratori, diffidenti verso le Scritture con la maiuscola, è arrivare a iscrivere gli eventi di cui parlano nella memoria collettiva. Le loro esplorazioni narrative del presente non vogliono farci ripercorrere il brivido del suo scorrere veloce, puntano al contrario a restituirlo nei modi di una cronaca meditata, che rumina e rielabora il tempo: «Non mi piacciono gli instant book» ha detto Corrado Stajano «i fatti devono maturare come le emozioni. E necessario capire nel profondo se resistono alle prove della mente».
In questi anni la non-fiction italiana sembra avviata a un consolidamento deciso nel nostro sistema letterario: per rilievo quantitativo della produzione, qualità di vari risultati, crescita di considerazione critica e presa di coscienza di una sua carsica – ma più rilevante di quanto si è a lungo pensato – presenza nella letteratura del secolo scorso. Lo confermano i tre libri di cui voglio parlare: G8 di Carlo Lucarelli (2009), Gorgo. In fondo alla paura di Gianfranco Bettin (2009) e Patria 1978-2008 di Enrico Deaglio (2009). Sono rispettivamente: la Cronaca di una battaglia, come recita il sottotitolo; un’indagine narrativa su un delitto del profondo Nord, così si legge sulla copertina; e una piccola storia nazionale di impianto annalistico, lo segnalano gli anni portati a titolo.
La precisazione di sottogenere subito dichiarata ci ricorda che quello delle storie non inventate è un territorio parecchio differenziato e, a dire il vero, in questa sua pluralità assai poco scandagliato. Lo ribadiscono gli oggetti posti al centro delle tre narrazioni. Il grande evento planetario del G8, in cui ad agire (e subire) sono state collettività: forze di polizia, governi, organizzazioni e gruppi dei manifestanti. Il delitto, invece, che colpisce con ferocia una coppia di anziani custodi di villa nel Trevigiano (a Gorgo al Monticano, appunto), massacrati da due albanesi, un rumeno e un «quarto uomo» ancora ignoto, è un avvenimento defilato dalla grande scena nazionale, che travolge e irrimediabilmente sfigura un privato, cancellando parte di una famiglia e deformando il destino di chi è sopravvissuto (il figlio, che non riuscirà, non vorrà, più essere guardia giurata). Spazio e momento in cui vengono a inserirsi le violenze sono dunque in un caso quelli della straordinarietà pubblica, nell’altro della normalità quotidiana. Luoghi e tempi di Patria infine sono naturalmente molteplici: il fuoco della narrazione si sposta di continuo provando a schizzare la sagoma di un destino nazionale.
Tutt’altro che sprovvisti di consapevolezza delle strutture narrative, argomentative e retoriche, i tre autori provano però a imporsi la regola di una stilizzazione contenuta, in cui il segno della personalità dell’io-che-scrive (la sua maniera di scrivere, la sua visione del mondo) è tracciato nell’opera innanzitutto per via di selezione e collocazione dei materiali e traspare poi dai modi della presa di parola di voci narranti insofferenti verso i toni troppo gridati. Chi racconta tiene saldamente in mano le fila del racconto ma sceglie di non comparire direttamente nel mondo raffigurato o di apparirvi soltanto ai margini, per poco (mentre un altro versante della non-fiction sceglie la strategia del narratore-personaggio e di una scrittura più massiciamente emotiva; fra i libri di quest’anno penso per esempio al feltrinelliano Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro di Marco Rovelli). Avviene così in Patria dove riferimenti alla concreta partecipazione dell’io che narra gli eventi di cui stila il resoconto si colgono unicamente negli «a parte» di chiusura dell’anno-capitolo, intitolati Un ricordo di quegli anni. E avviene così in Gorgo dove in veste di personaggio il narratore si affaccia soltanto nel capitolo finale, in due brevi scambi dialogici con un anziano ciclista su una bicicletta nera, che si rivela capace di una singolare intensità di sguardo. Sia nelle poche parole con cui sintetizza l’accaduto («Tante robe gera già cambiae. Basta vardarse intorno. Xe cambia tuto. Ma questo massacro xe ’na roba fora del mondo. Ea xe de un mondo de bestie. De bestie…»), sia quando il narratore – grazie al modo in cui sente risuonare nella voce del vecchio la parola chiave del libro, Gorgo, toponimo e simbolo comprende che al gorgo delle cose si può guardare in due modi: «come una minaccia. O come una possibilità, un’energia». L’uomo della bicicletta nera conta anche per quella raccomandazione che lascia all’uomo con il block-notes («“Giornalista?” […] “Circa” gli ho detto»): «El scriva ben, mi raccomando». Ovvero con rispetto, partecipazione, serietà, misura: un «bene» insomma che tenga conto della natura di servizio collettivo per la quale in primo luogo nasce questo genere di narrazioni.
Per parlare più da vicino dei tre testi provo allora a muovere dai margini, bordi, indici (dai dispositivi paratestuali, come si dice in gergo), che segnano i confini dell’opera verso l’esterno e ne disegnano una mappa interna. Qui mi pare si apra uno spazio importante da cui emerge chiara la personalità del narratore «di resoconto» e qui prende forma il meccanismo che guida il tragitto interpretativo di chi legge.
G8 ha un indice nettamente scandito in due metà: alla «prima parte», Cronaca di una battaglia, che ricostruisce i giorni delle manifestazioni, degli scontri e delle violenze, segue una «seconda parte», Dopo le prime sentenze, che introduce ed espone gli atti giudiziari giunti a compimento all’uscita del libro: alla narrazione cronachistica subentra la presentazione dei documenti ufficiali. E ad apertura di libro il lettore è subito colpito dal volto grafico e dalla configurazione testuale della pagina: la storia del vertice degli otto grandi paesi è ripercorsa alternando – di nuovo una bipartizione – brevi lasse narrative in tondo e in corsivo, separate ogni volta da uno stacco bianco: in tondo è il racconto condotto dalla voce narrante, mentre i corsivi riportano ricordi e commenti di testimoni (e anche nella seconda parte discorso d’autore e documentazione si mantengono marcatamente divisi). Chi tesse il racconto è dunque mosso da un’esigenza di distinguere, da una ricerca di nitidezza: raccoglie, discrimina, dispone i materiali grazie ai quali si può provare a risalire fondatamente all’accaduto. Non si esibisce, piuttosto esercita una funzione di vaglio e di controllo. E pone domande. Cercando di mettere i lettori in condizione di farsi autonomamente un’idea, di condividere quelle domande e di formularne altre. Non confeziona interpretazioni esaurienti ma non finge neutralità: non sta certo con la non-polizia della Diaz, ma a fianco dei tanti cittadini sprofondati d’improvviso – con le loro voci, sensazioni, corpi – in un buco di democrazia.
La forza del libro sta altrettanto nella limpidezza dinamica della scrittura ottenuta grazie all’andamento serrato del resoconto, alla chiarezza lessicale, a certe movenze di composta colloquialità, all’opzione per la brevitas ribadita ai diversi livelli del testo (lasse, capoversi, periodi, frasi). Potenziano poi l’effetto di evidenza l’abile impiego delle figure di ripetizione e di unità di discorso dominabilissime, per la misura contenuta e lo stagliarsi sullo sfondo degli stacchi bianchi che le congiungono. Ma quella allestita da Lucarelli non è un’evidenza stentorea, ostentante certezze: in G8, infatti, il bianco ha un ruolo molteplice e decisivo. E un vuoto tipografico che crea spazio, dà risalto, scandisce, testimoniando lo sforzo verso una visione limpida. Oppure è un vuoto denso, che rallenta e intensifica, creando un alone emotivo senza eccessi d’enfasi. Oppure è un vuoto-vuoto, che sta lì a rammentarci tutto quel che non si riesce a dire e sapere, anche nella nostra civiltà della tecnologia diffusa: «di quello che è successo a Genova tra il 18 e il 22 luglio del 2001 […] esistono migliaia di fotografie, centinaia di ore di ripresa, incisioni audio. Praticamente ogni secondo significativo è stato registrato e da più angolazioni. / I fatti sono lì, su pellicola, o su file digitali. Eppure, nonostante tutto, qualche mistero ancora resta. E restano molte cose da capire».
Gorgo comincia dai latrati dei cani e dall’«occhio astrale» del GPS che, nella notte dell’«agosto strambo» in cui sta per consumarsi il delitto di Gorgo al Monticano, avvertono e seguono la presenza di quelli che qui si chiamano foresti’, un parola che «per assonanza, evocandone l’oscurità perigliosa richiama l’antica insidia ai bordi dei villaggi, la silva, la foresta». Ossia, comincia accostando natura antica e contemporanei congegni. Comincia nel segno del buio, già nella citazione zanzottiana in epigrafe («… il nero del fato / nuvola avversa o della colpa, del gorgo implosivo»), e dalla paura già nel sottotitolo -, quella vissuta dai singoli, in solitudine e in emergenza, e quella che si diffonde in forma spontanea o contraffatta nelle collettività.
A partire dal nucleo oscuro del duplice assassinio – non per intero ricostruito nella sua meccanica, né nei nodi psicosociali che hanno mosso gli omicidi ad agire come hanno agito e poi a confessare, tacere o mentire, togliersi la vita – il libro affronta una realtà di contrasti: prodotto di logiche industriali, meccanismi economici, opzioni tecniche, scelte politiche legate all’oggi e al passato recente, ma altrettanto segnata da un potente fondo elementare, primordiale, istintuale ed emotivo.
Per restituirla al lettore Bettin si vale di una voce flessibile, che alterna modalità rappresentative e registri, i primi piani della narrazione di eventi (che accosta e avvicenda effetti di tensione e attesa, secchezza cronachistica, intensità descrittiva con lirismo trattenuto o abraso, asciuttezza documentaria) e i campi lunghi, i piani sequenze, gli zoom in avanti e all’indietro della riflessione sociologica, politica, morale, in cui la scrittura si distende, procede più discorsiva, spesso in dialogo con le voci direttamente riportate di scrittori, studiosi, politici e gente comune. Il racconto di un fatto diventa meditazione su un territorio e su un ambiente, sulle acque che l’hanno da sempre modellato e reso tanto suggestivo (ne sono emblema vivente e minacciato i palù) e sulla mutazione industriale e capannonifera che l’ha colpito negli ultimi trent’anni. L’indice ben disegna la sagoma dell’opera: la successione delle tre parti (Nel tempo cupo che oscura le cose, Veneto barbaro e remissiamento, Gorgo e corrente) sottolinea il procedere per allargamento e restrizione dello sguardo e nella brevità dei trentaquattro titoli di capitolo leggiamo subito sia l’alternanza dei modi di resoconto e dei piani di ragionamento, sia la chiara opzione per uno scrivere segmentato – dove i capitoli si snodano in sequenze di tessere sovente brevi, talvolta più ampie o anche cortissime – che facilita transizioni e mutamenti di discorso.
La voce narrante proposta da Bettin mi sembra abbia i caratteri di una ragione sensibile’, consapevole dei propri limiti, della matrice naturale del nostro modo di essere e agire, attenta alla cura rappresentativa degli altri di cui racconta. Intraprende un lavoro paziente e duttile, di ricostruzione, riconnessione, giudizio, che ci invita a un ascolto delle emozioni dei singoli e dei gruppi, riconoscendone la legittimità, affrontandone l’intensità profonda, la durezza e l’annodarsi sfuggente, l’amplificarsi incontrollato. Ci richiama a una questione etico-politica decisiva, da trattare senza pratiche manipolatone altrettanto senza rimozioni.
Mi pare una scommessa impegnativa e felicemente vinta, quella giocata da Enrico Deaglio che in Patria ha provato a dar vita a un annalismo dei giorni nostri, offrendoci «una cronaca a scoppio ritardato, un sopralluogo sulla scena della nostra storia, in cui ognuno – protagonista, testimone, o quel passante che all’epoca era comparso inosservato sulla scena – fosse ricollegato al suo posto, con il suo corpo, le sue parole, i suoi progetti». Ci sarebbero tante cose da dire di questo libro, ma vorrei limitarmi a due soltanto.
I trent’anni 1978-2008, raccontati su carta come se fossero «la notizia di un telegiornale, la scena di un film mai fatto o il risultato di uno scavo archeologico», occupano 756 pagine (o meglio 939, con la sezione «Fonti, curiosità e spunti di ricerca» a cura di Andrea Gentile) e riescono a essere una lettura godibile e un incisivo ritratto della nostra comunità nazionale, in buona misura credo per due punti di forza: sul piano della progettazione architettonica e su quello della gestione della voce che racconta. Deaglio ci presenta una struttura molto segmentata: gli anni-capitoli si srotolano in tanti box narrativi di lunghezza per lo più inferiore alla pagina, fra dieci-venti righe o anche soltanto due-quattro. Ciascuno è occupato dai resoconti del narratore-cronista, davvero abile a gestire i modi sintetici del racconto-sommario e a movimentarli con le voci di protagonisti testimoni osservatori, citando scritti, inserendo battute, spezzoni di dialogo, a volte mettendoci dinnanzi una scena. Ogni box è contrassegnato da un’indicazione cronologica e da un titolo che introduce ai contenuti trattati avvicendando puntualità informativa, allusività che incuriosisce, secco giudizio; così come ogni anno è aperto da una sintesi-identikit che ne segnala gli snodi, i punti caldi. Questo brillante assetto di distribuzione e orientamento, per tessere ed etichette, facilita al lettore l’itinerario sequenziale, ma lo invita altrettanto a ritagliarsi un percorso a modo suo, cominciando e ripartendo da dove meglio crede. Deaglio ha cercato di evitare già sul piano dell’intelaiatura l’impressione di grande opera, di interpretazione chiusa d’autore: Patria – come stanno lì a dirci gli ampi apparati: gli indici e le note/notizie che segnalano fonti e insieme suggeriscono piste di lettura, ganci per la riflessione – vuol essere un attrezzo per l’uso di chi legge, un racconto, sicuro, ma anche una mappa/magazzino. L’intelligenza della dispositio e la pacatezza mobile della voce narrante (seria con levità, ironica senza perdite di consistenza) ci aiutano a orientarci nella nostra storia più prossima, mostrandocela nitida seppur densa di ombre e guazzabugli. Come a proporci un pessimismo attivo, non sconfortato.