Nei bassifondi della lingua

Piaccia o non piaccia, il realismo, cioè la possibilità di rappresentare spregiudicatamente ogni aspetto del reale, presuppone, con la caduta dei vincoli fra stili e oggetti rappresentati, l’apertura senza limiti verso ogni forma espressiva, e soprattutto verso le forme espressive andanti, colloquiali, volgari. Negli ultimi anni il crollo verticale di ogni tabù stilistico sembrerebbe però, a prima vista, avere eroso le possibilità espressive insite nell’impiego letterario dei registri bassi. Ma in realtà anche il basso stile continua a offrire innumerevoli modulazioni, come mostrano, fra gli altri, i romanzi di Walter Siti, Gaetano Cappelli, Massimo Polli, Giulia Villoresi.
 
Non è questa la sede per ripercorrere la storia del realismo in Occidente. Ma, come ci ha spiegato mirabilmente Auerbach, la possibilità stessa di rappresentare spregiudicatamente ogni aspetto del reale presuppone, con la caduta dei vincoli fra livelli stilistici e «natura» degli oggetti, un’apertura potenzialmente illimitata verso ogni forma espressiva, e soprattutto verso le forme espressive meno qualificate: medie, andanti, popolari, colloquiali, orali e, naturalmente, volgari. In questo senso, è fin troppo facile constatare che, dopo almeno un secolo e mezzo di battaglie morali-linguistiche, spesso approdate senz’altro alle aule dei tribunali, da poco più di un paio di decenni a questa parte il comune senso del pudore linguistico è slittato talmente in avanti da rendere sostanzialmente impraticabile qualsiasi tipo di tabù espressivo. C’è poco da fare, ormai si può davvero scrivere qualsiasi cosa: persino in poesia, figurarsi nella prosa narrativa. Ma ancora nel 1980 un libro comed/Zrz libertini poteva incorrere in un processo per oscenità che oggi, con quello che vediamo tutti i giorni (cioè vediamo davvero, grazie alla miniaturizzazione dei media tecnologici per la ripresa diretta), rischia persino di farci un po’ sorridere: il che non significa certo che ci siano buoni motivi per rimpiangere l’occhiuto moralismo dei censori d’antan.
D’altro canto, la legittimazione letteraria integrale, per non dire integralista, di tutte le peggio cose, cioè di tutte le peggio parole che la lingua italiana, i dialetti e persino le lingue straniere mettono a disposizione dei nostri scrittori non significa affatto che l’abbassamento stilistico e la stessa pratica sistematica del turpiloquio abbiano perso del tutto il loro mordente espressivo, né tanto meno che si siano ormai ridotti a una specie di marmellata linguistica, spalmata più o meno un po’ dovunque. Ormai, è il caso di dirlo, un «cazzo» oppure un «vaffanculo» non li si nega più a nessuno, e sono rimasti in pochi a scandalizzarsene. Da questo punto di vista, i segni dell’omologazione, se proprio non si vuole parlare di diffusa maleducazione, sono del tutto evidenti, e tutt’altro che encomiabili, sia ben chiaro. Eppure c’è modo e modo di fare uso dei registri bassi della lingua, e forse la letteratura riesce ancora a riservarsi il diritto e, quel che più conta, la possibilità di farci delle sorprese.
Nello splendido penultimo libro di Walter Siti, Il contagio (2008), per esempio, l’abbassamento linguistico fa tutt’uno con il movimento topografico e sociologico verso l’universo degradato della borgata, quasi descensus ad inferos verso una società altra, così fisicamente vicina, eppure lontanissima dall’universo borghese e piccolo-borghese conosciuto dal ceto intellettuale. Al centro della rappresentazione si colloca un condominio, come nel Fabbricone di Testori, ma di per sé spogliato sia di valenze ideologiche, sia di proiezioni simbolico-morali. D’acchito, la costante presenza della costellazione linguistica dialetto-gergo-turpiloquio appare pressoché scontata, e motivata da ragioni strettamente mimetiche. In questo senso, mancano gli stridori intenzionali della deformazione espressionistica. Tutt’al contrario, Siti sembra puntare, sul piano stilistico, essenzialmente sull’omologazione: tant’è vero che il lettore finisce per trovare una continuità persino nel costante alternarsi di romanesco da borgata e di riflessione saggistica, improntata a una discorsività tramata di sobri tecnicismi sociologici e filosofici (segnalo, fra le altre, le straordinarie pagine del capitolo intitolato «L’alibi delle borgate»). La rigorosa strategia di rimescolamento e uniformazione degli estremi stilistici dà così luogo, un po’ a sorpresa, a una limitata percettibilità del plurilinguismo, tenuto attentamente a bada e ricondotto all’interno di un sostanziale monostilismo: ben coerente, come si vedrà fra poco, con la prospettiva ideologica del libro. Non a caso, Siti cancella pressoché del tutto la congiunzione, che avremmo supposto fatale, fra abbassamento stilistico e comicità: per quanto colmo di parolacce e di basso corporeo in tutte le forme, Il contagio non fa quasi mai ridere, anzi; e pour cause, visto che, di fronte al mondo attuale, c’è proprio poco da ridere.
Al centro del romanzo (definizione di genere alquanto approssimativa), si colloca un io narrante scopertamente autobiografico, che (memore del Vittorini di Uomini e no) accosta capitoli in tondo, dedicati essenzialmente alla rappresentazione delle storie altrui, a capitoli in corsivo (molto più brevi) decisamente centrati sulla propria vicenda personale, soggettiva, e soprattutto sull’amore per il borgataro Marcello. Ma anche in questo caso la discontinuità grafica e tematica importa tutto sommato meno della continuità, energicamente e persuasivamente costruita da Siti proprio sul percorso esistenziale del suo narratore. Il contagio disegna così un dolente, sconsolato percorso di apprendimento, una Bildung molto posticipata, che si rivela soprattutto una epifania dell’elementare, cioè di una elementare, amorale e disperata vitalità: «Ho imparato, intanto, a non distinguere il bene dal male […]. Ho imparato a soddisfare i desideri più immediati e basilari (mangiare scopare comprare) e a scegliere come unico giudice l’illusione – la vita come un’orgia velleitaria e casuale, dove maschio e femmina non fanno differenza e dove conta l’immaginario (soprattutto l’immaginario proibito), non il fatto. Ho imparato a non oppormi alla corrente […]. / Più che un insegnamento, è stato un contagio: sono tornato da una spedizione etnografica e i bacilli si sono incistati nel mio sangue». Sì, soggettivamente il narratore sa che questo è avvenuto perché egli era pronto a farsi contagiare. Ma il problema, lungi dall’essere personale, chiama in causa un destino collettivo: «L’appassionata analisi di Pasolini, vecchia di oltre trent’anni, andrebbe rovesciata: non sono le borgate che si vanno imborghesendo, ma è la borghesia che si sta (se così si può dire) “imborgatando”». In parole povere: ci siamo dentro, ci siamo dentro tutti, e la borgata finisce addirittura per apparire solo come l’espressione esasperata di tratti ormai comuni all’intera società globalizzata.
Tutt’altri effetti vengono invece perseguiti da Gaetano Cappelli nel suo ultimo romanzo, dal programmatico titolo Volare basso (2009). Più romanzo picaresco che romanzo di formazione, Volare basso è raccontato da un terzetto di voci narranti, in calcolata alternanza. Hanno tutti e tre passato i trenta, ma non sanno ancora che cosa fare della propria vita, e così navigano a vista, rievocando i sogni giovanili e consolandosi col sesso. Il primo, Eugenio Granieri, diventato famoso a diciott’anni per un cortometraggio d’avanguardia, è rimasto un’eterna promessa; come se non bastasse, il ricco padre è scomparso misteriosamente in Russia, lasciandolo pieno di debiti. Decaduto e disoccupato, Eugenio si vende pezzo a pezzo i beni di famiglia, e si sente perseguitato dall’amicizia asfissiante dell’affettuoso e cafonissimo paesano ex emigrato Nichi Nardozza: che però lo salverà, convincendolo a farsi socio della creazione di un locale finto rustico supertrendy in campagna, il Mustang. Il secondo narratore è Silvio Costa, sempre alla caccia di femmine, che impazziscono per le sue erezioni di longue durée eppure a suo modo è anch’egli un fallito, con un lavoro ministeriale procurato dal suocero, un matrimonio disastroso, e naturalmente una fatale irrequietudine sessuale. Infine c’è Bruno La Padula, ex dj radiofonico, licenziato dalla Rai, dove ha lavorato anni come precario, cronicamente imbranato con le donne, afferrato e sposato a ventinove anni dall’insopportabile Carla, con cui genera il piccolo Canio.
Le diverse tranches della narrazione si configurano come altrettanti monologhi interiori dei diversi narratori, avviati al presente, ma poi aperti ai ricordi, e dunque alle rievocazioni, ai recuperi memoriali, che restituiscono progressivamente al lettore le vicende passate e i contesti. Si sa che la rappresentazione dei pensieri, almeno dall’ultimo scorcio del XIX secolo in avanti, tende irresistibilmente all’oralità, nell’equivalenza implicita fra lo stile parlato e lo stile «non-scritto» del pensiero. Di qui lo stabile collocarsi delle scelte stilistiche di Cappelli sul versante del colloquiale, lessicale e sintattico, con conseguente e coerente scialo di volgarismi e turpiloquio, ma contrappuntato da forme colte, specie nei pensieri degl’intellettuali falliti Eugenio e Bruno. Numerose e spesso assai divertenti sono le invenzioni linguistiche, dove l’abbassamento convive con l’invenzione metaforica, in una specie di barocco giocoso-disgustoso; un solo esempio: «Poi le cacciò […] l’indice e il medio nella fica, che affondano come in un vasetto di maionese appena tiepida». Con mirata malizia Cappelli esibisce peraltro nei pensieri dei protagonisti una buona dose di desiderati o sbeffeggiati luoghi comuni romantici, proprio per contrappuntarli con il frenetico avvicendarsi di rapporti sessuali, sempre esibiti in tutti i dettagli, con effetti di divertito e quasi feroce iperrealismo. Volare basso trova così una sua coerenza e una sua robusta efficacia rappresentativa nella convergenza dell’ossessione sessuale di tutti i protagonisti (di ambo i sessi) con la messa in scena scanzonata, ma certo di retrogusto amarognolo, di una cittadina meridionale (che potrebbe essere Potenza) e di una Roma non meno provinciale e degradata.
Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio (2009) di Massimo Lolli affronta invece, con encomiabile sprezzo del pericolo, un argomento tanto importante e urgente, quanto sgradevole e infatti poco gradito dagli scrittori: la disoccupazione. Poco più di dieci anni fa, con il notevole Volevo solo dormirle addosso (1998), Lolli aveva già mostrato, con coraggiosa lucidità, un’altra realtà rimossa dalla letteratura, raccontando la storia di un «tagliatore di teste», cioè di un manager incaricato di «indurre alle dimissioni» molti dipendenti della ditta in cui lavora. Anche stavolta Lolli rappresenta spregiudicatamente la realtà contemporanea per il tramite dello sguardo e della voce di un narratore protagonista, Andrea Bonin, che di mestiere fa il manager: o meglio faceva il manager, perché, disoccupato ormai da diciotto mesi, vive spedendo curricula e aspettando, per lo più vanamente, sporadici e sempre inutili colloqui di lavoro. Alla fine proverà ad andare perfino a Shangai, dove ritroverà qualche altro disperato come lui, con gli esiti che è fin troppo facile immaginare: e già l’atroce rappresentazione della realtà urbana e industriale cinese potrebbe valere la lettura del libro. Ma la linea dominante è, anche in questo caso, l’abbassamento stilistico, realizzato con una mescola linguistica fatta di registro colloquiale e inserti dialettali (in veneto), innestata su una situazione potenzialmente tragica, ma bruscamente virata verso il comico-grottesco. Bonin infatti, che vive a Vicenza, per nascondere alla gente l’onta della disoccupazione finge di lavorare a Milano, ed evita accuratamente di farsi vedere in giro. Esce così soltanto la notte, dedicandosi, forse per supportare la propria incrinata autostima più ancora che per autentico piacere, ad abbordare nei dancing donne qualche volta giovani, più spesso attempate, benché ancora attraenti per qualche motivo. Lo squallore delle giornate vane e della vana ricerca di un nuovo lavoro si alterna così alle avventure sessuali, nelle quali il protagonista e narratore, «bilingue» perché parla correntemente l’italiano e il veneto, miete discutibili successi, seguendo ferree regole di corteggiamento. Alcune scene sono poco meno che memorabili: come la seduzione, dopo minima resistenza, di Bertilla, «nonnetta piccola» (in realtà, fra i cinquanta e i sessanta), «Visetto, manine, gambette, piedini, tettone», con un’amica «addobbata come Cenerentola quando va a battere».
Starei per dire che il tragicomico di Lolli si colloca in posizione intermedia rispetto al basso stile uniformemente tragico di Siti e al «volo basso» scanzonatamente comico di Cappelli: ma non è il caso di cedere alla tentazione di schemi triadici troppo ingannevolmente simmetrici. Ma pure potrebbe essere legittimo abbozzare una qualche tipologia dell’impiego del basso stile: così da scoprire, fra le altre cose, che neanche la tensione realistico-mimetica è poi così scontata. Basti guardare l’esordio della giovanissima Giulia Villoresi (classe 1984), autrice del felice e a tratti esilarante La Panzanella (2009). Il titolo non si riferisce affatto al noto cibo toscano, e forse non è neanche un diminutivo di panzana; ma può farci pensare alla «panza» della protagonista e narratrice, Carlotta Cordelli, detta appunto Panzanella, che è grassa, o piuttosto si sente (non sempre) grassa: e le oscillazioni del suo peso costituiscono una sorta di basso continuo (è il caso di dirlo) delle vicende dell’estrosa ragazzina. Già, perché La Panzanella è per molti versi un piccolo romanzo di formazione, ma con il baricentro temporale tutto orientato all’indietro, visto che la vicenda, dopo un fulmineo romanzo familiare concentrato nelle quattro pagine del primo capitolo, va dalla prima infanzia di Carlotta al suo primo anno d’università. La Panzanella cresce con un doloroso senso di inferiorità e di esclusione, paradossalmente accompagnato dalla coscienza della propria bellezza; allo stesso modo, si pone in continuazione le domande estreme e assolute dell’esistenza, ma le riformula con un umorismo radicalmente contestatore, tanto incline al paradosso quanto intriso di irriducibile, autentico pathos. Il basso stile appare così funzionale a una vivacissima verve comica, che però non smette mai di affrontare questioni volta a volta sublimi, serissime, e persino tragiche. Come quando, per ridare fiato alla propria autostima, la dodicenne Carlotta si veste da donna vissuta, rubando alla mamma abito e accessori glamour, e si reca con i mezzi pubblici in una delle borgate più malfamate di Roma, Tor Bella Monaca, per cercare di realizzare uno dei sogni della sua vita: farsi molestare. La Panzanella finirà così per assistere alla disgustosa epifania del «Primo Pene» della sua vita, con esiti imprevedibili, che lascio alla sorpresa dei lettori. Più in generale, la narrazione procede accentuando comicamente un tratto già caratteristico della tradizione del Bildungsromarr. il non-sapere e conseguentemente il non-capire del protagonista, che via via apprende e capisce. Ma lo stile della Villoresi, già dotato di una marcata identità, vive anche del permanente cortocircuito fra l’esibita oltranza di linguaggio basso e temi bassi, da un lato, e, dall’altro, una fitta trama, volta a volta esibita spudoratamente o dissimulata, di citazioni colte; le scintille derivano così dal cozzo, più che di aulico e prosaico, di iperletterario e turpiloquio («Non me ne cale una minchia»), di spirituale e bassissimo corporeo (vomito, muco, croste, piscio, rutti e così via), e dal rimescolamento senza sosta del lirismo con le parolacce, di Dostoevskij con Rino Gaetano, forse addirittura di Omero con Elio e le Storie Tese: «Poi, infine, era apparsa Aurora dalle dita di rosa, con il suo odore di acqua ragia, aglio e piscia di gatto».