Il romanzo sociale senza morti ammazzati

Ormai pare impensabile scrivere ciò che un tempo chiamavamo romanzo sociale senza infarcire le pagine di morti e delitti. Noir o cronaca nera, tertium non datur. Eppure si affaccia qualche eccezione di notevole spessore. Per esempio Il Contagio, dove Walter Siti fa i conti col modello pasoliniano, ritraendo le borgate del XXI secolo: ma senza spostare lo sguardo sui nuovi arrivati. A illuminare il tema dell’immigrazione provvede invece il lavoro di un outsider di talento come Amara Lakhous.
 
Ahinoi! Il romanzo sociale se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato… Ma davvero non resta che celebrarne il funerale? Certo, un fatto è innegabile: poche etichette suonano altrettanto desuete, se non proprio ottocentesche. Oggi nessuno penserebbe di fregiarsene promuovendo il sintagma a sottotitolo, come fecero ai loro tempi Cletto Arrighi, Vittorio Bersezio o Carolina Invernizio. Se però la formula giace acquattata in soffitta, resta ben viva l’aspirazione a cogliere e restituire al lettore un panorama a grandangolo della realtà contemporanea, una visione d’insieme nella quale si riconoscano le correnti sociali più impetuose. Che poi ciò risulti sempre più difficile, che l’oceano temibile, screziato e profondissimo della modernità urbana costringa sulla spiaggia un’infinità di ombelichi, è un’evidenza troppo lamentata per tornarci sopra. Recipe? Baudelaire, s’intende.
L’impressione complessiva è che a raccogliere il testimone del flaneur, con quel che ne consegue in termini di fascino e sgomento, al principio del XXI secolo siano stati due generi tradizionalmente relegati alla periferia del sistema letterario. E in quei paraggi, bisogna riconoscere, che meglio si è saputo rovistare nelle braci abbandonate, ovvero seguire lo spostamento dei conflitti economici, culturali, sociali (e generazionali) da campi e officine in più occulti anfratti. A conquistare il proscenio, dunque, sono stati da una parte il noir, dall’altra il reportage di nera, debitamente narrativizzato tramite svariate ricette. In quest’ultimo caso si è anzi realizzata un’istruttiva convergenza tra giornalisti decisi a far rotta verso il romanzo, e scrittori largamente ispirati dalle cronache – insomma Saviano e Scurati, se si vuole rapprendere in qualche firma significativa il fenomeno della cosiddetta faction, ovvero la fusione di fact e fiction.
Un fenomeno, questo, che ha sfruttato a dovere la crescita della curiosità sociale presso i ceti medi, sempre più distanti (anche fisicamente) dagli scenari, dagli abiti, dalle mentalità, dai comportamenti in uso ai gradini infimi della scala economica, e insieme sempre più desiderosi di sbirciare laggiù, alternando fiere indignazioni e deliziosi frissons. Non stupisce dunque che vada infittendosi la schiera di autori ben disposti – come accadeva alla fine dell’Ottocento – a indossare lo scafandro del palombaro, pur di restituire almeno un granello catturato negli abissi delle plebi odierne. Dopodiché, si capisce, ben pochi avranno a disposizione il coraggio, le competenze e la tenacia di Saviano. Ma non è questo il punto.
Senza contare che la situazione descritta non si verifica soltanto nei territori di confine tra cronaca e letteratura. Non è l’esotismo sociale, in fin dei conti, a garantire una qualche freschezza ai meccanismi rudimentali su cui Ammaniti ha costruito Come Dio comandai Con il che ci affacciamo sul noir, l’altra categoria che ha inteso – da James Ellroy in poi, almeno – accollarsi compiti tradizionalmente riservati al romanzo sociale. Del resto era forse inevitabile, se si considerano i vantaggi offerti dal crimine, che consente di cucire tra loro ambienti agli antipodi, anche in assenza del surfing garantito dalla classica figura dell’investigatore.
L’indubbio salto di qualità compiuto nell’ultimo decennio dalla scrittura di genere italiana, tuttavia, ha riguardato spesso storie ambientate nel passato, più o meno virtuale. Prendiamo ad esempio Wu Ming. Epiche o meno, le opere del collettivo di rado si concentrano direttamente sulle congiunture odierne. La tendenza dominante è piuttosto a «contronarrare» vicende lontane decenni o secoli, lasciando che il presente baleni per speculum et in aenigmate, come in Eco. Se solo si pensa alle feroci polemiche che nel 1955, all’uscita di Metello, accompagnarono il passaggio di Pratolini dalle cronache alla storia, si comprende quanto sia inadeguata l’etichetta di neo-neorealismo, spesa ultimamente un po’ per tutti gli scrittori che intendano «sporcarsi le mani», dannandosi l’anima pur di «afferrare i contorni troppo spesso indecifrabili dell’Italia», come ha scritto Giancarlo De Cataldo. Per tracciare un nesso convincente non possono bastare generici riferimenti all’impegno, o il ricorso spregiudicato alle armi del pathos e dell’identificazione emotiva (il cui ritorno nei quartieri alti della letteratura, dopo decenni di proscrizione, meriterebbe un’attenta riflessione). Ciò che più conta, infatti, è la sostanziale mancanza di due connotati cruciali nella stagione del dopoguerra, vale a dire il populismo, che si ripresenta al limite torto in grottesco (vedi l’eroe lumpen, nazista e sfaccendato, dell’ultimo Ammaniti), e la fiducia progressista, propria di chi sperava di inculcare nelle istituzioni repubblicane gli ideali di giustizia e libertà scaturiti dalla Resistenza.
D’accordo. Rimane però irrisolta la questione di partenza: è possibile oggi il romanzo sociale senza la cronaca nera, senza il morto? Se guardiamo alle generazioni anziane, formatesi appunto al tempo del neorealismo, non è troppo difficile trovarne qualche esempio riuscito: basti pensare a La dismissione, di Ermanno Rea. Un lavoro che, come Gomorra, verte sul drammatico destino delle periferie campane. Spostare l’obiettivo sui sobborghi in effetti appare un esito inevitabile, se si vuole restare all’altezza dei tempi. Può essere significativo, tuttavia, osservare come Giorgio Falco per adeguarsi al tessuto pulviscolare dell’hinterland lombardo – abbia preferito adottare un passo differente, sciorinando in L’ubicazione del bene una serie di racconti strettamente annodati, da cui si ricava il profilo sfuggente dell’immaginaria cittadina di Cortesforza, in preda a un benessere insostenibile, trapuntato di malcontenti e disillusioni.
Prati ben falciati, villette color pastello, risparmi per comprare il camper. Indubbiamente siamo agli antipodi delle borgate romane su cui insiste Il contagio, romanzo con cui Walter Siti aggiorna e al tempo stesso ribalta il dogma pasoliniano, convinto com’è che non siano state le borgate a imborghesirsi, quanto la borghesia a «imborgatarsi» irrimediabilmente. Il lavoro di Siti merita un’analisi articolata, in quanto costituisce un’eccellente occasione per misurare lo scarto rispetto alle soluzioni di un romanzo sociale di matrice prettamente novecentesca, quale Ragazzi di vita. Intanto colpisce un dato elementare: nel Contagio i minorenni restano sullo sfondo, mentre il proscenio è occupato da persone ben oltre gli anta. Fotografia di un paese che appassisce, non più sfrenato lungo le strade della Ricostruzione ma barricato nei mediocri caseggiati che ne sortirono.
Non a caso Siti rispolvera la strategia perseguita da Georges Perec nel babelico La vita istruzioni per l’uso\ ritrae infatti le varie esistenze assiepate in un condominio sito in un’immaginaria via Vermeer, con tanto di schema degli appartamenti posto all’ingresso del volume. All’impassibile sguardo del francese si sostituisce però un’ambigua autofiction, poiché a visitare e raccontare gli inquilini è un’evidente controfigura dell’autore: un anziano docente, «buana» spinto al safari nei suburbi dalla passione per Marcello, ex culturista disposto alle marchette. Peraltro, rispetto ai lavori precedenti, il tema dell’omosessualità rimane in secondo piano, per lo più circoscritto in corsivati roventi. Al professore è riservata una funzione di osservatore, estraneo al contesto e perciò tanto più lucido e incuriosito. Le pagine grondano di virgolettati in cui le voci del quartiere paiono rivolgersi a un mansueto confidente.
La fiducia, in effetti, appare ben riposta: va a merito di Siti l’aver saputo rinunciare tanto alla facile demagogia degli slanci simpatetici (la riprova sta sul versante linguistico, dove il romanesco resta nei confini della citazione) quanto all’ironia, destinata esclusivamente alle ipocrisie degli intellettuali. Né si affaccia mai la tentazione del moralismo antiborghese, alla maniera dell’ultimo Pasolini: neppure quando viene messa a fuoco la circolazione della cocaina, che «permea la borgata come l’acqua intride la spugna». Sulla droga anzi vertono alcuni paragrafi memorabili, grazie all’abilità con cui il saggismo antropologico si con verte in vigore esemplificativo, per mostrare come le «pippate» funzionino da collante comunitario. Come i sassetti candidi siano assurti a irrinunciabile feticcio di modernità e benessere.
Con ciò siamo giunti in prossimità di un tema portante del genere in questione, sin dall’epoca di Balzac: l’ascesa sociale. Ancora una volta Siti si guarda bene dal cavarsela con sbrigative demonizzazioni o cedimenti al grottesco, magari sul collaudato modello di Carlo Verdone. Propone invece riflessioni precise, spesso incentrate sull’uso disinvolto dei corpi. Sesso e coca, in ultima analisi, appaiono all’orizzonte proletario le uniche chiavi di svolta praticabili: in quest’ottica, si affaccia anche un paradossale elogio di veline e calciatori. Nell’insieme, risalta la pressoché totale assenza di rabbia e odio di classe, sostituiti da una generica invidia, per cui l’aspirazione massima consiste nel costringere il prossimo a «rosicare». Il fatto è che sono venuti meno da un lato l’orgoglio identitario («borgatara ce sarà tu’ sorella»), dall’altro le contrapposizioni politiche, stinte in una generale deriva a destra. Davvero non sono più i tempi del Fabbricone testoriano, spaccato dall’aspra rivalità tra comunisti e dicci. Quanto ai ragazzi di vita, ne sopravvive «l’indifferenza cronica (e ironica) a tutto», il gusto di lasciare che «il peggio accada senza il minimo tentativo di evitarlo: per superba immobilità, per constatazione atavica, per autolesionismo inconscio travestito da astuzia». Per il resto sarebbe arduo riconoscere un’antropologia comune, ricavare delle invarianti significative dalle centinaia di miniracconti in prima persona. Di qui l’ammissione finale di una sconfitta, già presentita nel dilagare degli elenchi.
In fin dei conti – anche al di là delle intenzioni dell’autore – il contagio appare reciproco: uno sconfortante incontro tra villani rifatti e borghesie involgarite. Con un corollario rilevante. Diversamente dalla consueta retorica che vorrebbe le borgate chiuse, torpide e abbandonate a se stesse, si configura un universo dinamico e in continua trasformazione. La mappa della casa di via Vermeer, non per nulla, segnala sia gli inquilini iniziali, in tondo, sia quelli finali, in corsivo. Nessuno rimane dov’era: Sergetto viene rimpiazzato da Obelix, Flora sostituisce Francesca, nell’appartamento di Gianfranco e Fiorella si installa una famiglia rumena. Ed è proprio un ragazzino rumeno, in conclusione, a scacciare il vecchio professore: «ma vai a casa, va’… che ti sta cercando la morte e tu sei in giro».
Siti, in altre parole, preferisce fermarsi dinanzi a quello che dovrebbe essere l’argomento cruciale, in un romanzo sociale al passo coi tempi. Nel momento in cui il massiccio arrivo di immigrati crea nuove borgate, più simili a baraccopoli, la loro presenza rimane sullo sfondo, colta dalla prospettiva irritata degli indigeni romani, indisponibili alla mescolanza. Proprio questa situazione è stata invece gustosamente tematizzata dall’italoalgerino Amara Lakhous in Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. Il romanzo, riscritto a partire da una versione uscita in arabo, ha trovato un buon successo anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti, dove è diventato un punto di riferimento per chi intenda farsi un’idea dei cambiamenti in atto nella penisola. L’imbastitura narrativa, basata sugli abitanti di un palazzo, fa il verso al Gadda di via Merulana e anticipa molte scelte del Contagio, fatta salva l’ambientazione nel multietnico quartiere dell’Esquilino, dove una serie di personaggi è chiamata a testimoniare in prima persona sulla controversa figura di un tale Amedeo, o Ahmed. Un brav’uomo, forse straniero – o forse no. Ma chi è davvero italiano? La risposta sfugge, in una giostra di prospettive, pregiudizi e malintesi, sul filo di una sorridente satira di costume. Qui però il delitto c’è, come di prammatica, e non potrebbe essere più esemplare. A morire infatti è Lorenzo Manfredini, detto il Gladiatore, odiato a causa dell’inveterata abitudine di scompisciare l’ascensore.