Il borghesuccio che c’è in noi. Seduzione e crisi del detective vendicatore

Valori forti presiedono all’operato dei recenti (ma non solo) detective all’italiana, il cui cuore piccolo borghese rispecchia passivamente tanti mali nazionali. Negli anni novanta, il nuovo noir sembrava però promettere altro. Vero è che certi personaggi consolatorii, in sintonia con i lettori del tempo di Crisi, potrebbero essere spazzati via da meccanismi criminali sempre più impersonali, privi di movente. E da un sistema di valori curiosamente rovesciato.
 
Che Lisbeth Salander sia il personaggio noir più memorabile degli ultimi anni, sembra piuttosto probabile; e certo bisognerebbe svolgere una lunga trattazione per spiegare come l’eroina della trilogia Millennium di Stieg Larsson abbia saputo affascinare così profondamente i lettori dell’universo globalizzato. Forse, la sua natura in senso lato ossimorica (un genio dalle apparenze autistiche, androgina, scontrosa ma dolce, fragile eppure capace di picchiare, ecc.) appare omologa al bisogno di rivincita che da sempre affligge ogni piccola borghesia, e forse ancor di più, si direbbe, quella mondializzata in piena sofferenza da Crisi. Del resto, nessun «forse» può essere messo in campo davanti alla collusione del pubblico con le vendette che la giovane hacker svedese compie fin dalla tenerissima età, e su corpi maschili: ne sanno qualcosa il volto e le membra strinate dello spregevolissimo padre e la pancia tatuata del tutore legale Nils Bjurman.
A ben vedere, la (ri)nascita del giallo-noir italiano era venuta proprio da qualcosa del genere, da affetti di quel tipo: e se pensiamo a Venere privata di Scerbanenco (anno 1966, ricordo), in particolare alla sua conclusione, constatiamo che la detection non solo si presenta alla stregua di un destino (Duca Lamberti indaga sostanzialmente per caso e senza un vero tornaconto personale), ma soprattutto si risolve in un’azione vendicativa, di poco precedente l’entrata in scena della giustizia istituzionale. E, a questo esatto proposito, di un «supereroe della volontà vendicatrice» aveva parlato Bruno Pischedda in tirature ’07. Sarebbe del resto interessante svolgere nel tempo il filo di questa constatazione, andando alla ricerca delle tante scorrettezze, delle tante carenze di garantismo giuridico che ancora – e magari soprattutto – oggi attraversano le declinazioni italiane del genere poliziesco. Ci si colloca, a me sembra, entro uno spettro di possibilità assai allargato ed eterogeneo. A un estremo, le storie dell’Alligatore di Massimo Carlotto, cui la dimensione privatizzata della giustizia appartiene quasi naturaliter, e in modo un po’ disturbante perché un certo moralismo fa spesso a pugni con la natura ribelle del protagonista e dei suoi compagni (un esempio fra i molti: nel Maestro di nodi, 2002, la lotta contro un’accolita di sadici, sullo sfondo delle manifestazioni no global di Genova 2001, si svolge come l’indispensabile cancellazione dalla scena del crimine di qualcosa come un male assoluto, che non per caso – proprio come in Scerbanenco – passa attraverso la perversione del sesso). All’estremo opposto, ci fa sorridere e turba assai meno assistere a un Salvo Montalbano che nell’Odore della notte (2001) si comporta come un teppistello qualunque e realizza la sua «giusta» vendetta, completa di effrazione e danneggiamento, nei confronti di una villetta abusiva e delle sculture disneyane che l’adornano («Tempo una decina di minuti e di Biancaneve, Mammolo, Eolo, Pisolo, Brontolo, Cucciolo, Ventolo, Mignolo, o come minchia si chiamavano, non rimasero altro che minuscoli frammenti colorati»); tutto ciò – integrato da giovanilistiche scritte deturpanti («STRONZO») – per punire lo sradicamento dell’«ulivo saraceno» tanto amato dal protagonista.
Inutile dire che questa propensione viene da molto lontano, e molto ha a che fare anche con un certo cinema. Avete presente cosa fa Philip Marlowe alla fine del Lungo addio di Altman (1973), modificando in modo decisivo il plot chandleriano? E che dire dell’amore condiviso, suppongo, da molti miti intellettuali (quorum ego) per i mezzi usati dal timido cervellone protagonista di Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah per venire a capo di offese famigliati e personali decisamente insostenibili? Va però fatta una precisazione: se in un certo tipo di noir filmico l’esplosione vendicativa è una fiammata assoluta e assurda, appunto priva di un prima e di un dopo, e non cerca altre giustificazioni che nella sua irrelata emergenza, l’impressione è che una certa vendetta all’italiana si nutra sin troppo di ideologia e autogiustificazioni (di grana moralistica, dicevo). Ne è sintomo la declinazione «supereroica» di alcuni protagonisti, in qualche modo condannati a una doppia vita, alla pratica di un’identità segreta. Il fatto è simpaticamente esplicito nelle storie del Gorilla di Sandrone Dazieri (vedi almeno Attenti al gorilla, 1998), un ex leoncavallino diviso tra un sé irresoluto e quasi-borghese, addirittura sentimentale, e uno – diciamo – pragmatico, capace persino di venire a patti con i cultori della violenza elevata a fascistoide sport illegale. Il sostanziale buonismo di sinistra che ne discende – non a caso reso bene al cinema da un Claudio Bisio che, come intelligente camaleonte intermediale, è forse omologo a una simile sindrome – usa il pattern fumettistico per evocare e insieme esorcizzare la necessità di mettere le mani addosso al cattivo, rovinandogli i connotati prima che polizia e magistratura abbiano modo di cominciare il loro lavoro. D’altronde, assai più imbarazzante, per non dire irritante (ma chissà quanti non saranno d’accordo con me!), è il borghesuccio avvocato Guido Guerrieri di Gianrico Carofiglio, che al suo esordio in testimone inconsapevole (2002) non solo esibisce una straordinaria efficacia legale scagionando il suo assistito con un’arringa superlativa, ma riempie di botte i malavitosi che lo minacciano, grazie al suo passato di pugilatore, e, non contento di essersi rifatto una vita sentimentale, è anche capace di «ritornare amico» dell’ex moglie. Se c’è un moderno superuomo di massa dalle nostre parti (cui, se del caso, chiedere consigli affidabili su un’infinità di argomenti, a partire dalla storia della musica rock), propongo di cominciare a cercarlo in quel di Bari, al Palazzo di giustizia.
Convergono a definire questo quadro, probabilmente, due fattori che plasmano la relazione lettore-personaggio favorendo forme virtuose di identificazione. Il primo, il più evidente, è la tradizione in senso lato umanistica, ma al ribasso e perciò tanto più rassicurante, che taluni investigatori interpretano. Il paradigma, che peraltro agisce anche in Carofiglio, è certo Salvo Montalbano: un tipico prodotto del liceo classico, assiduo rilettore di libri canonici e perciò detentore della giusta memoria letteraria; ostile sia a ogni forma di tecnologia (viceversa, e a riprova, il minus habens Catarella è un mago dell’informatica) sia persino alle indagini della Scientifica; epidermicamente scandalizzato dalla barbarie dei tempi (con cadute di tono ormai sconcertanti, se è vero che ora, nella Danza del gabbiano, 2009, depreca anche i ritardi dei treni: «C’era ’na cosa che fusse ’na cosa che in Italia partiva o arrivava nell’orario stabilito?»); sicuro solo di se stesso e delle proprie estemporanee intuizioni che lo rendono un inguaribile individualista; e – in questo non molto diverso da un impiegato di banca milanese – goloso di una cucina «di pesce» assurdamente monotona e provinciale (ma avete presente il cosmopolitismo gastronomico di Pepe Carvalho, vero eroe glocal di un catalano saper mangiare nel mondo?). La prova del nove di queste attitudini è una certa tendenza a esorcizzare il male, a vederlo sempre da lontano, solo attraverso il danno che provoca. Il moralista Montalbano lotta e vince, puntualmente, ma il suo confronto diretto con i colpevoli, il contatto fisico con il nemico è brevissimo, ed è escluso (quasi trascurabili le eccezioni) che un malavitoso possa assurgere al ruolo di vero personaggio. Siamo noi che vediamo il male, e lo sguardo dell’avversario non può scalfire le nostre umanistiche – appunto – certezze.
Il secondo fattore riguarda il reducismo di molti investigatori. Abbiamo visto l’ex leoncavallino Sandrone-Gorilla (con un massimo di autobiografismo e riferimenti appena deformati alla realtà milanese coeva – chessò: Daniele Farina del Leoncavallo ribattezzato Daniele Zucchero, ecc.) insieme con l’ex militante rivoluzionario (ed ex carcerato) Alligatore. Alla stessa couche appartiene l’ispettore Andrea Vannini e lo scassato detective-narratore anonimo di Girolamo De Michele (mi riferisco soprattutto al notevole Tre uomini paradossali del 2004). Sono peraltro solo esteriori le relazioni di parentela fra questi personaggi e, poniamo, il Rosas che fa da contraltare movimentista alle indagini di Sarti Antonio di Loriano Macchiavelli. La lotta politica, nel primo decennio del 2000, è una faccenda solo del passato. Tale sfondo storico da un lato può in effetti costituire un fatto di colore vagamente nostalgico e consolatorio (alla maniera, tipicamente, di Gabriele Salvatores e della sua scuola: chi scrive rabbrividisce al ricordo della sequenza del già ricordato film La cura del gorilla, 2006, in cui Bisio-Dazieri si fa una canna con Bebo Storti-poliziotto e con un Gigio Alberti nelle vesti di un hacker da centro sociale), dall’altro rappresenta una sorta di legittimazione, di giustificazione ideologica per i clinamina morali che accompagnano l’operato del detective. Vabbè, politicamente le abbiamo prese, ma come bastoniamo noi la malavita, neanche il vecchio Dalla Chiesa!
La mia sensazione però è che una simile attitudine abbia poco a che fare con i personaggi che avevano dato nuova spinta al noir italiano più innovativo. Dalle storie di Macchiavelli e da quelle dei detective lucarelliani, emergeva una galleria di uomini mediocri e sostanzialmente perdenti, soprattutto nella vita privata, capaci di risolvere sì qualche indagine ma quasi sempre nel momento sbagliato, traendone pochissimo beneficio personale e nessuna gloria. Sarti Antonio insegna, e il maresciallo-travet di Macaroni, a firma Guccini-Macchiavelli (1997) aveva poi ripreso quella consuetudine. E come dimenticare che l’avvio della serie di Grazia Negro di Lucarelli era avvenuto con un romanzo come Lupo mannaro (1994) il cui protagonista è un commissario di polizia, Romeo, destinato a perdere senno e lavoro, uscendo per sempre di scena dopo avere in effetti individuato il colpevole eccellente di una serie di omicidi? Del resto, una delle molte invenzioni riuscite di Romanzo criminale di De Cataldo (2002), poi sostanzialmente – a mio avviso – smarrita in LI elle mani giuste (2007) era proprio la capacità di presentare il poliziotto Nicola Scialoja come pienamente coinvolto in una trama di illegalità. Nel mondo in cui il bene pubblico è gestito da servizi segreti che complottano a stretto contatto con il terrorismo e la malavita organizzata, anche la detection implica una compromissione cinica, non nobilitata da alcuna patente ideale e anzi persino degradata dalla passione erotica (l’amore di Scialoja per Patrizia, puttana d’alto bordo).
A parte queste eccezioni – pur notevoli -, l’abbassamento più cospicuo a cui si può arrivare oggi va in due opposte direzioni, tutto sommato poco realistiche, poco tipiche-, l’incolore Guido Lopez di certi thriller di Giuseppe Genna (ad esempio Grande madre rossa, 2004), che peraltro è subordinato a una logica da Complotto Globale suscettibile di triturare qualsivoglia personaggio; e il fin troppo chiacchierone e invadente Michele Ferraro di Gianni Biondillo (vedi ora Il giovane sbirro, 2007) che vira le sue indagini al comico di parola ed esibisce una dimensione domestica e famigliare il rapporto con l’ex moglie, ma anche con il suo quartiere – tendente all’elegia (come accade nel romanzo, solo apparentemente non «di genere», Per sempre giovane, 2006). Dal personaggio che fa da comparsa entro trame troppo complesse e confuse a un ispettore pronto per le tavole di Zelig, si spalanca una voragine. Solo gli ex disillusi di cui sopra sembrano poterla riempire con una piena coscienza del proprio ruolo.
Appunto. Ma quale ruolo? E poi: quale delitto? Già alcuni anni fa, nel 2004, uno dei maestri del genre all’italiana, Valerio Evangelisti, aveva parlato di «estinzione del movente», di un sistema di pratiche delittuose gratuite, prive di motivazioni personali evidenti e frutto di una malattia sociale non più riconducibile alla volontà di un soggetto, di un vero sé agente. Per l’interessantissima collana «Verdenero» (Edizioni Ambiente), Wu Ming ha dato alle stampe nel 2008 l’incalzante Previsioni del tempo, quasi l’allegoria di uno dei plot malavitosi più importanti nella società italiana contemporanea: il traffico di rifiuti. E più un thriller che un noir, forse, e la detection è ormai appannaggio esclusivo d’una voce narrante oggettuale capace anche di focalizzazioni interne (il narratore è insomma un reporter privo di opinioni, se non proprio un meganarratore filmico cui manchi la telecamera). E alla fine del 2008, Massimo Carlotto, insieme al collettivo di scrittori chiamato Marna Sabot, con Perdas de Fogu traduce in romanzo la
«storia vera» dei maneggi criminali che circondano il poligono militare di Salto di Quirra in Sardegna. La quarta di copertina ne definisce protagonista Pierre Nazzari, variamente implicato anche come collaboratore di giustizia in vicende spionistiche dalle quali esce – a ben vedere – vieppiù infangato, senza avere veramente agito nella storia e anzi avendola subita. Anche qui, il detective è il narratore, né vi è una vera ricerca ma solo lo scorrere di fatti ineluttabili’, la desolazione dell’intreccio è poi aumentata dal fatto che l’unica figura positiva del romanzo, una ricercatrice veterinaria, è la principale vittima e muore poco prima dello scioglimento. Certo: siamo di fronte a forme di realismo documentario, che si avvicinano virtuosamente alla condizione di UNO (la definizione è di Wu Ming 1), cioè di oggetti narrativi non identificati, alla maniera di Gomorra.
La cosa può però essere vista in un’altra prospettiva. Il romanzo italiano del 2009 che più spesso parla di valori e di etica, al punto che il suo titolo è solo parzialmente ironico, è Educazione siberiana del giovane Nicolai Lilin, proveniente dalla Transnistria, una regione tra la Moldavia e l’Ucraina dove il regime sovietico aveva deportato una comunità siberiana da sempre dedita a comportamenti criminali laboriosamente ritualizzati. Da forme di tatuaggio stilizzate in maniera complessa al culto «larico» delle armi nell’alveo della famiglia, il libro di Lilin è l’esposizione di un antico codice, quello della malavita, che la modernità anche putiniana mette in crisi e forse distrugge con la corruzione della sua polizia. Siamo tornati ai Beati Paoli, a ben vedere, alla società segreta (in definitiva, la mafia) che, sola, ci salverà. Non troppo diversamente, il simil-feuilleton di Massimo Lugli, L’istinto del lupo (2009, inatteso finalista allo Strega), idealizza la vita della vecchia criminalità marsigliese e dei clochards.
A un protagonista-zero in grado solo di registrare – o patire – il male, si oppone insomma il romanzo di formazione del perfetto criminale, vale a dire del perfetto virtuoso. Certi sociologi ne trarrebbero facili conseguenze quanto all’assenza di ogni speranza nel futuro che attanaglia l’italiano medio all’epoca di Berlusconi.
Del resto, il più bel romanzo stampato in Italia nel 2009 (in originale era però uscito circa tre anni prima), proveniente dalla patria di un premier un po’ diverso dal nostro, cioè l’immenso in tutti i sensi Contro il giorno di Thomas Pynchon, è anche la parabola di una vendetta sì, ma incompiuta. I fratelli maschi Frank, Kit e Reef Traverse non tanto rinunciano a vendicare il padre Webb, minatore bombarolo eliminato da killer padronali, quanto riescono a vivere vite che sono così piene di senso da allontanarli dalla paranoica cogenza dell’offesa. Quando la Storia suggerisce – come può fare il mitico spato d’Islanda, in Pynchon – percorsi tangenti a quelli ufficiali (la cosa che una volta chiamavamo utopia), il risentimento può tornare a disciogliersi in una quest non regressiva. E dietro il detective torna a far capolino il cavaliere, se non proprio il rivoluzionario.