Viaggio australe nel tempo

Mentre crescono la varietà, il peso editoriale e la riconoscibilità della letteratura di viaggio, una delle novità più interessanti è una narrazione romanzesca che restituisce voci e tempi diversi di un’unica geografia. Orizzonte mobile di Daniele Del Giudice enfatizza l’ampiezza immobile del Polo Sud con una dominante descrittiva fondata sull’uniformità di mare-cielo-ghiaccio, ma la movimenta intrecciando gli itinerari di tre viaggiatori, di tre diverse spedizioni di scoperta che si snodano nel corso di tre secoli. E mentre il viaggio procede verso il Polo, fiction e non fiction trascolorano l’una nell’altra, verso lo spazio senza tempo dove tutte le storie – e la Storia, che è poi una suprema forma di scrittura – hanno origine.
 
Per rendersi conto del crescente successo della letteratura di viaggio non occorre recarsi alla White Star di Milano – come recita il pieghevole offerto ai visitatori «il primo spazio interamente dedicato ai viaggi e all’avventura» (tre piani, centinaia di metri quadrati, migliaia di volumi, abbigliamento tecnico, cucina etnica, agenzia turistica) -, ma basta entrare in una grande libreria, la cui organizzazione prevede ormai un intero settore dedicato all’odeporica, una produzione oggi emancipata sia dalla guidistica sia dai libri illustrati di viaggio, generi fino a ieri dominanti fra le letture del traveller. A riprova, si moltiplicano i premi (La Spezia, Premio Chatwin; Gaeta, Premio Letterario Internazionale Letteratura di viaggio e d’avventura; Roma, Premio Viaggio in Italia) e i festival a tema (ultima iniziativa, la kermesse della capitale dedicata al genere), né manca una fiera di settore, il Salone del libro di viaggio, a Catania. Esistono editori specializzati, collane specifiche ma, a conferma della pervasività del genere, molti libri di viaggio sono accolti anche in collezioni generaliste: basti dire che il longseller In Patagonia di Chatwin è uscito prima nella «Biblioteca Adelphi» (XIX edizione nel 2002) e poi nell’economica «Gli Adelphi» (x edizione). Persino il marchio extralusso Louis Vuitton si è cimentato nell’impresa (associato alla «Quinzaine Littéraire»): l’esclusiva collana «Viaggiare con…» ha proposto testi dedicati a riflessioni sul tema firmati da Benjamin, Lawrence, Conrad, Proust e – quasi una provocazione – da Karl Marx.
Non sorprende allora la quantità delle pubblicazioni dell’ultimo anno, numerosissime anche limitandosi ai viaggiatori italiani lungo lo Stivale. Con un occhio alla varietà delle proposte e all’elasticità del genere meritano di essere ricordati almeno In viaggio con l’asino di Andrea Bocconi e Claudio Visentin, guida-saggio-resoconto di un tour in Abruzzo in compagnia dei figli degli autori e di due asini; Ricino, le voci del fiume (excelsior 1881, collezione «Letteratura da viaggio», il corsivo sottolinea la praticabilità del racconto) di Giuseppe Cederna e Carlo Cerchioli, itinerario dalla sorgente alla confluenza con il Po (la tipologia è quella del libro misto di parole e immagini, come già per Mi sono perso a Genova di Maurizio Maggiani); Viaggio al centro della provincia di Franco Marcoaldi, reportage – questa volta una formula di derivazione giornalistica – nato dalla suggestione del Viaggio in Italia (1957) di Piovene – «quel libro l’ho portato con me come un viatico» (p. Vii). E poi Montagne ribelli di Paola Lugo, una Guida ai luoghi della Resistenza (2009) – così il sottotitolo – in compagnia di grandi scrittori: Meneghello, Fenoglio, Calvino, Rigoni Stern e altri.
Per l’interesse che suscita e per l’efficace riuscita dell’ambizioso progetto merita però particolare attenzione Orizzonte mobile di Daniele Del Giudice, opera insieme composita e unitaria, che rispecchia molto bene la natura tipicamente polimorfa dell’odeporica, genere a cavallo tra fiction e non-fiction (viene in mente un libro molto bello sullo stesso argomento e di analoga impostazione tradotto in Italia nel 1989, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre di Christoph Ransmayr, ora disponibile in edizione economica Feltrinelli). Del Giudice racconta due viaggi al Polo Sud; uno risale al 1990, prende avvio a Punta Arenas (Patagonia) e si sviluppa in diverse tappe, l’altro data invece 2007, ed è ambientato esclusivamente nella base Amundsen-Scott. Dopo una premessa, il primo capitolo del libro esaurisce il ricordo della missione più recente, mentre in quello successivo inizia il resoconto del tour australe del 1990, che si conclude alla fine del volume con il decollo dell’autore da Maxwell Bay. Non si tratta però di una storia continua: la ricostruzione è regolarmente intervallata (i capitoli si alternano) sia dal resoconto della spedizione del belga Adrien de Gerlache de Gomery (compiuta tra il 1897 e il 1890), sia da quello della missione italoargentina comandata da Giacomo Bove del 1882. In questo modo, il racconto contemporaneo incornicia quelli storici, la cui misura (7 capitoli) conferisce loro pari dignità rispetto al testo principale, che ne conta solo uno in più.
Costruito così, Orizzonte mobile si configura in prima istanza come un testo a carattere antologico a più mani, che restituisce al lettore tre voci diverse di differenti epoche, messe a confronto sulle medesime geografie. In linea con questo carattere didascalico, in effetti il libro è ricco di informazioni storiche (emerge un’appassionante storia delle esplorazioni antartiche), scientifiche, propriamente tecniche (climatiche, astronomiche, fisiche, naturalistiche), e manifesta un’indole spiccatamente saggistico-riflessiva, tutti caratteri che rimandano alla migliore tradizione odeporica. Ma sono fitti anche i richiami intertestuali, e non solo al genere di riferimento – la figura di Chatwin accompagna in filigrana il lettore per tutto il libro «la natura qui non è ostile o tanto meno amica, è solo indifferente» (p. 94) scrive Del Giudice, memore del Leopardi delle Operette morali.
A conferire unitarietà a un testo così composito concorrono vari espedienti molto efficaci, a partire dall’allestimento paratestuale dell’opera: la mancanza dell’indice invita a una percezione uniforme dei vari capitoli, incorniciati però da due testi d’indole diversa. Il libro si apre infatti con una premessa in seconda persona («Vorresti gridare subito la tua storia» recita l’incipit), e a questo «tu» coinvolgente segue l’«io» di Del Giudice e quindi il «noi» impiegato da entrambi gli esploratori, in una dialettica di sovrapposizione e immedesimazione di voci che contribuisce a diminuire le distanze. Ma è soprattutto il valore testimoniale della parola, sia essa proferita da Del Giudice, da Bove, oppure da de Gerlache, a funzionare da elemento coesivo. Le loro sono tutte storie vere raccontate dai protagonisti, alle quali conferisce una notevole coerenza la forte unità dello spazio tematizzato, ossessivamente lo stesso per tutti, sempre identico a prescindere dall’epoca e dalla prospettiva in cui lo si guarda. Si collega all’eccezionalità delle geografie polari la dominante descrittiva di questi testi, la costante attenzione al medesimo mare, allo stesso cielo, al ghiaccio perenne, il tentativo di rappresentare un’uniformità difficilmente concepibile attraverso minime sfumature, crepe nel terreno, sbalzi di temperatura, rara apparizione di qualche animale, subito registrata.
In Orizzonte mobile non mancano però né storie né personaggi, anzi: il filo rosso della narrazione si snoda lungo gli itinerari dei tre viaggiatori secondo un medesimo schema picaresco applicato in epoche diverse, e la finzione testimoniale conferisce alle figure l’evidenza icastica del racconto al presente. Si succede così una serie di episodi di taglio aneddotico con al centro personaggi storici «in azione» (da Darwin a Cristoforo Negri, il fondatore della Società Geografica Italiana, dal maggior scrittore fuegino, Francisco Coloane, a Reinhold Messner), eroici esploratori meno noti che affrontano la morte dopo stenti e privazioni indicibili perché «al viaggiatore la Terra del Fuoco non offre monumenti ma natura e storie, e le storie hanno una particolare follia e crudeltà» (p. 70) -, uomini e donne qualunque incontrati lungo la via. E poi ci sono gli animali, come il pinguino Imperator di Cape Crozier: avvilito, si è fatto un uovo di ghiaccio da covare perché ha perso quello vero, e se ne vergogna di fronte ai compagni. Viste da questa prospettiva, in effetti, le memorie di Bove e de Gerlache sono dei «veri grandi racconti d’avventura, il genere che Stevenson, nella sua classificazione del romanzo, definiva il più sensuale, dove gli autori furono anche personaggi e parti in commedia» (p. 138), proprio come il resoconto di Del Giudice, che non a caso si apre con una storia inventata. Nella «Nota» posta a conclusione del libro l’autore chiarisce infatti che il viaggio del 2007 ha una natura diversa dagli altri, essendo del tutto «immaginario» (p. 141), e ne rivela così la natura fittizia, appunto «romanzesca».
Anche in prospettiva tematica il libro dimostra una notevole coerenza: argomento principale e «trasversale» è il tempo, o meglio l’interazione fra tempo e spazio, evidente già nella scelta di raccontare le medesime geografie in tre secoli diversi: Ottocento, Novecento e Duemila. Il fatto è che dirigendosi verso sud la distanza tra i fusi orari è sempre meno, e a cinquecento chilometri dal Polo, per convenzione, i meridiani finiscono: «volando lungo quella circonferenza si poteva rimettere ogni dieci minuti l’orologio un’ora avanti o un’ora indietro, come vuoi, tanto è quasi sempre giorno e quasi sempre notte, e passare e ripassare il “date line”, illudersi di precedere il mondo di un paio di giorni nel calendario e aspettarlo poi da qualche parte» (p. 136). E allora il tempo si fa spazio, si materializza nel ghiaccio, nell’«eterna banchisa» (p. 104) che trattiene ogni cosa – i cadaveri dei cani essiccati di Scott e persino le singole impronte di chi vi ha camminato sopra –, e il tempo precipita in una «memoria in cristalli» (p. 107) custode della storia e della preistoria, delle ere geologiche stratificate, perché «a quattromila metri di profondità nei ghiacci, [si arriva a] cinquecentomila anni indietro nel tempo» (p. 125).
A rendere Orizzonte mobile una suggestiva opera unitaria seppur composita c’è infine la scrittura, molto curata e di qualità, di cui Del Giudice rivendica il primato. Lo conferma quanto l’autore dichiara nella «Nota» conclusiva circa il trattamento riservato ai taccuini di Bove e di de Gerlache: «ho riscritto i brani che mi sono parsi i più sintomatici costruendo una “iperspedizione” che gioca sulla diversità delle prospettive e delle voci ma anche sulla convergenza delle esperienze e dei sentimenti» (p. 141). Anche gli esploratori polari «naturalmente scrivevano» (p. 137) per lasciare memoria di sé, e l’ultima riga vergata da Robert Falcon Scott prima di lasciarsi morire assiderato colpisce: «E un peccato ma credo che non potrò scrivere più» (ibidem). D’altronde, «per sua natura, la Storia non è che scrittura in una forma diversa» (p. 4), recita la massima con cui si chiude la premessa introduttiva del libro.