Apocalittici e antimoderni

Nell’inverno del nostro scontento più problematico degli ultimi decenni, avanza un poker (anzi, un full) di neri cavalieri dell’Apocalisse: Corona si arrocca in un antimodernismo che oppone i valori della montagna all’inettitudine del cittadino; Bertante decreta come salvifico il rapporto simbiotico con la natura; con Longo prevale il profetismo moralista e l’apocalisse discende da un collasso etico, mentre Scurati tratteggia una cupissima società futura figlia di quella attuale nell’intreccio tra potere, edonismo e violenza. Avoledo e Boosta Dileo giocano sull’«apocalisse alle porte» tra asteroidi in rotta di collisione, complotti e fantasmagorie.
 
L’improvvisa fioritura di narrativa apocalittica che negli ultimi due-tre anni ha colpito la nostra produzione letteraria non ha, per proporzioni, precedenti. Certo, è un filone che qualche picco in passato l’ha manifestato, seducendo nel quindicennio tra la fine dei sessanta e i primi ottanta autori significativi come Pasolini, Morante, Morselli e Volponi, come evidenzia l’ottima analisi di Bruno Pischedda in La grande sera del mondo, ma il boom attuale manifesta una rapidità di diffusione, una popolarità e un’ampiezza di spettro decisamente maggiori.
Pischedda individuava i semi del fenomeno di allora nella congiuntura di una crisi economica – legata ai primi allarmismi sull’esaurimento del petrolio – e culturale insieme – l’avvento della società di massa, borghese e standardizzata, tanto temuta dagli intellettuali – che mostra fin troppe analogie col presente. Anche oggi le trombe della recessione squillano acute, e anzi l’Italia è uno degli epicentri dell’uragano che sta colpendo i mercati finanziari. E anche oggi è in corso un brusco mutamento del paradigma culturale di esibizionismo consumista che ha segnato gli ultimi vent’anni del paese. Ma c’è un dato in più: le arti e, ai loro confini, l’intrattenimento, hanno raggiunto la loro piena realizzazione industriale formando, se non un tessuto profondo, una crosta resistente di immaginario collettivo, su cui le merci culturali viaggiano più spedite.
E questa l’autostrada imboccata dal genere catastrofico – uno dei feticci, a volte puramente estetici, del mainstream – a bordo soprattutto di film e videogame – non c’è quasi gioco d’avventura che non adotti come scenario un pianeta devastato da una catastrofe atomica, climatica, virale o post-aliena – ma sorretto anche da una pubblicistica scientifico-allarmista che ciclicamente e istericamente contagia giornali e tv. Su queste fondamenta è poi cresciuto, negli ultimi anni, un millenarismo d’accatto, impastato di calendari maya, fantasie astrologiche, improprietà astronomiche e persino profezie cristiano-apocrife.
In questo scenario, i nostri autori non si comportano soltanto da recettori passivi dell’immaginario globale, ma lo cavalcano alla ricerca di un’esportabilità all’estero che finora solo il giallo-noir ha saputo conquistare, e lo fanno esplorando generi a volte pressoché vergini come il thriller, cui proprio il milieu apocalittico ha facilitato l’accesso. Non per nulla le atmosfere apocalittiche si possono ritrovare in opere distanti come il giallo scientifico di E energia del vuoto di Bruno Arpaia e il thriller vaticanista del Giorno del giudizio di Lucio Brunelli e Alver Metalli, le allucinazioni più o meno noir di Cinacittà di Tommaso Pincio, Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti o Muori Milano muori! di Gianni Miraglia e il fantastico a tinte fiabesche di bambini bonsai di Paolo Zanotti e dello stupefacente Altri giorni, altri alberi di Paolo Caredda.
Ma se circoscriviamo più rigorosamente il campo, limitandoci ai libri in cui la fine del mondo è esplicitamente tematizzata, a farla da padroni sono i romanzi che seguono la linea classica che da La peste scarlatta di Jack London conduce fino a La strada di Cormac McCarthy. E in questi paraggi che si collocano i testi più ambiziosi, ma anche il libro più sconcertante del lotto: La fine del mondo storto di Mauro Corona, Premio Bancarella 2011. Il discorso di Corona si arrocca intorno a un antimodernismo un po’ semplicistico, che oppone i valori della vita di montagna – rispetto per la natura, autonomia nel procacciarsi il cibo e nel costruire strumenti, comportamenti parsimoniosi – all’inettitudine dell’uomo cittadino, incapace di sostentarsi da solo e schiavo dei consumi. Corona parte dal repentino esaurimento dei carburanti fossili, considerandolo quasi un dato banale, e precipita l’umanità in un inverno che in pochi giorni la decima e ne distrugge le architetture sociali, dimenticando volutamente l’emisfero in cui il clima è estivo. Ma sono dettagli da nulla, perché l’unica cosa che importa a Corona è annullare ogni differenza di censo, potere e condizione per potersi accanire, spesso sfogando livori personali, contro lo stile di vita dell’umanità «cogliona» {sic!}. A sconcertare è la completa rinuncia a qualsiasi forma di narrazione: non c’è, letteralmente, nemmeno un personaggio all’interno del suo romanzo, che si riduce perciò a una ripetizione infinita di situazioni tutte simili che contrappongono «gente di montagna» e «gente di città», resa ancor più esasperante dall’abiura – chissà, sull’altare di un parlar semplice ritenuto più genuino – a qualsiasi, pur banale, variazione retorica.
Sul piano di un sostanziale antimodernismo si muove anche Nina dei lupi, ma Alessandro Bertante costruisce un chiaro sistema dei personaggi per rappresentare il contrasto tra i valori dell’umanità rurale e i disvalori di quella cittadina. I primi sono persone coscienti della limitatezza delle risorse del pianeta, pronte a collaborare al di là delle differenze individuali e mosse da un’istintività animale, capace di discernere il bene dal male, nata da un rapporto diretto, a tratti mistico, con la natura. I secondi, invece, di fronte all’improvvisa carenza di risorse, liberano una ferinità violenta – figlia di inettitudine, paura e vigliaccheria – che si manifesta in un crescendo di sopraffazioni e brutalità sociali e sessuali. La catastrofe, quando il romanzo inizia, è già avvenuta, e non bastano le rare analessi, tutte indeterminate, a chiarire se a provocarla siano stati fattori naturali – i cieli di Bertante sono infestati da macchie viola e rossastre, secondo uno dei topoi dell’apocalittico – oppure economici, se non addirittura un incontenibile scoppio di violenza. Solo l’isolamento – volontario – è capace di tenere a distanza il disastro. Anzi, l’isolamento estremo, perché quello degli abitanti di Piedimulo, che provano a proteggersi ostruendo la galleria che li collega alla città, si dimostra insufficiente, e solo l’eremitaggio del protagonista Alessio, condiviso poi da Nina, dà a quest’ultima la forza di resistere all’urto del male, rappresentato dall’arrivo delle bande di città, e di trasformarsi in mito, in racconto esemplare per le nuove generazioni. L’idea è che solo un compiuto rapporto simbiotico con la natura, simboleggiato dalla fratellanza con i lupi esibita da Alessio e Nina, può salvarci.
Oltre che nell’intreccio, incanalato senza scossoni sui binari più usurati del genere, la parabola di Bertante mostra il passo soprattutto in un eccesso di schematismo nella psicologia dei personaggi e in un estremo didascalismo, non solo sul piano della rappresentazione, ma anche su quello della riflessione, già ridotta per la scelta di un narratore poco propenso alla focalizzazione interna. Limiti, questi, superati da Homo verticale di Davide Longo, soprattutto grazie a un riuscito lavoro stilistico e linguistico, che offre profondità al pensiero dei personaggi e dell’ennesimo narratore esterno onnisciente – altro topos del genere. Per la verità, è soprattutto nella prima parte del libro, quando l’apocalisse è un fatto indeterminato, orecchiato attraverso notizie confuse che filtrano fino all’isolamento del protagonista – stavolta autoindotto da uno scandalo in cui è stato coinvolto – che il lavoro di Longo offre il meglio. E qui infatti che la sua lingua, costruita intorno alla continua evocazione di immagini, a piccole impennate metaforiche, spesso iperletterarie ma mai stucchevoli, asseconda alla perfezione i dubbi, i timori, le attese e gli andirivieni mentali dei protagonisti. Poi anche l’autore piemontese cede alle sirene della rappresentazione e mette in scena un trionfo di stupri, sevizie corporali e psicologiche, crudeltà e umiliazioni varie servite in uno scenario paesaggistico desolato, sconvolto da profondi mutamenti climatici. Con Longo, però, l’antimodernismo lascia il passo al profetismo moralista: l’apocalisse, al di là degli indizi superficiali, sembra più che altro provocata da un collasso etico, che porta al potere una genìa di giovani che vivono in un eterno presente senza scopo e si limitano a soddisfare i propri istinti primari – cibo, sesso, ferocia – in un perenne stato narcotico indotto dall’abuso di droghe. Anche per Longo, come già per Bertante, l’unica speranza di salvezza è nelle nuove generazioni: non per nulla sono due figli concepiti in situazioni estreme – uno da un rapporto che, secondo i parametri correnti, sarebbe pedofilo, l’altro da uno stupro – a portare una luce di speranza in chiusa ai loro romanzi. Il cui limite più netto, alla fine, resta l’epigonalità.
Di origine principalmente morale anche l’apocalisse immaginata da Antonio Scurati, che con La seconda mezzanotte percorre però strade diverse, puntando su una compiuta distopia. A Scurati non interessa tanto raccontare come, ma piuttosto perché, è avvenuta la catastrofe. La società del 2092 dentro cui ci precipita è figlia naturale di quella attuale: il potere è in mano a una corporazione politico-economica cinese, naturalmente del ramo telecomunicazioni, informazione ed entertainment, strettamente intessuti tra loro; gli individui perseguono un edonismo quasi solo meccanico; la violenza, istituzionalizzata dentro una rinata arena dei gladiatori, non viene inscenata a scopo catartico, ma solo per ricordare a chi è vivo di essere vivo, mettendolo di fronte alla morte altrui. E un’umanità ipernutrita e ipersoddisfatta, e nello stesso tempo svuotata, cui il governatore cerca di dare una scossa di vitalità puntando sull’odio razziale. Tanto impegno simbolico dovrebbe permettere a Scurati di liberare il moralismo intransigente e la vis retorica che lo caratterizzano, e forse persino fornirgli virtualmente quel trauma senza il quale – secondo quanto lamenta nella sua Letteratura dell’inesperienza – la generazione dei quarantenni ha poco da raccontare e che l’ampio ricorso alla cronaca nera nei libri precedenti non è bastato a concretizzare. L’impressione, però, è che molte delle sue energie vengano assorbite dall’edificazione della distopia e che le sue attenzioni linguistiche siano rivolte soprattutto a sostenere la costruzione epica dei due eroi ribelli. Il compito di trasmettere la prospettiva dell’autore ricade perciò quasi interamente sulle spalle, peraltro solidissime, della rappresentazione. Scurati dipinge infatti con indubbio talento visionario uno scenario che, a partire dalla potente immagine di una Venezia ridotta sotto una cupola di vetro – come un souvenir – e passando per la descrizione dei vuoti piaceri cui l’umanità si abbandona, ammanta di claustrofobia e di angoscia l’intera narrazione. Alla sostanziale immobilità dei personaggi e dell’intreccio il compito di trasmettere l’idea della vanità di qualsiasi azione individuale e di completare l’affresco a toni cupi del romanzo. In cui, non a caso, l’unica via di salvezza, che anche Scurati fa convergere su una nascita – forse inevitabilmente in una cultura radicatamente cristiana anche quando si professa laica – si trasforma invece in una pietra tombale sul futuro, perché è proprio sull’altare di una nuova vita che il protagonista decide di sacrificare ogni ideale.
Un piccolo a parte merita Un buon posto per morire, interessante thriller scritto a quattro mani da Tullio Avoledo e Davide Boosta Dileo. Qui l’apocalisse è alle porte, sotto forma di un enorme asteroide in rotta di collisione con la Terra, e scandisce il ritmo di una forsennata corsa contro il tempo. Avoledo e Dileo scelgono una scrittura secca e cinematografica, ma non per questo trascurata, e, anziché evitarli o tentare di maneggiarli con cautela, decidono di accumulare stereotipi fino al parossismo, cavalcandoli, facendoli cozzare e parodiandoli a seconda delle necessità. Ci sono le profezie maya e le quartine di Nostradamus; il delirio nazista e il complotto sionista; un turbinio di ambientazioni, reali e fantastiche, esotiche e iperlocali; spionaggio, controspionaggio e doppio gioco; personaggi storici e false genealogie; scienza e fantascienza; azione, avventura e un tocco di rosa. Ora, non si può dire che un meccanismo tanto complesso, tenuto insieme da un supercomplotto che attraversa i secoli e incentrato su un videogame iperrealistico che cela coordinate e codici per fermare la catastrofe, regga alla perfezione dall’inizio alla fine, tutt’altro, però le sorprese non mancano e il ribaltamento delle attese appare meno meccanico di quanto non avvenga negli equivalenti di matrice anglosassone. Anzi, la sostanziale riuscita del libro risiede proprio nelle sue trovate chiave, più fantasmagoriche che fantasiose e capaci di strappare una divertita ammirazione. A conferma, forse, che è questa la strada da battere, magari ad apocalisse conclusa.