Arbasino a cavallo

Ipotizziamo che Arbasino meriti una statua equestre, grazie a una carriera letteraria longeva e di primo livello. Stando in sella, disporrà una gamba lungo l’avanguardia europea e il romanzo modernista di medio Novecento; l’altra la farà scendere verso la polemistica d’impegno e la prosa documentaria. Alcuni indizi avvalorano la biforcazione: la perdita di fiducia nei confronti dei personaggi letterari, durante gli anni settanta; e il transito dal metodo sociologico a quello antropologico. Non proprio due Arbasino, ma un diverso profilo, di cui bisognerebbe aver cura accingendosi a erigere il monumento.
 
Per Alberto Arbasino è venuto il tempo degli onori, dei tomi plurimi e della rubricazione concorde tra i campioni della contemporaneità letteraria nostrana. Il tempo insomma del monumento a cavallo, eretto nei dintorni del centro cittadino, come giusto, però tanto bronzeo e levigato da occultare insieme alle scheggiature anche le fatiche e gli scarti percepibili della posa.
I due «Meridiani» curati da Raffaele Manica per Mondadori, 2009 e 2010, ci restituiscono del vogherese la narrativa energicamente espressionistica e gaddiana, neodada, già camp: dai racconti splendidi delle Piccole vacanze, vera soluzione di continuità rispetto al neorealismo morente, al giovin signore epistolografo e finto patetico che si affaccia dalle pagine dell’Anonimo lombardo’, da Fratelli d’Italia prima maniera, frutto di una prospezione sociale squisita e di uno squisito intrattenimento intorno alle poetiche d’arte, a una partitura recitabile off-Brodway come Super-Eliogabalo, dalle gesta di una neoborghese gaudente di cui dà conto La bella di Lodi, sino a riprese, parodie e pièces canzonatorie come Il principe costante, Specchio delle mie brame, Amate sponde!
Tutto considerando abbiamo vent’anni o poco meno, dal 1957 al 1974; data oltre la quale si distende l’Arbasino di pronto intervento, il viaggiatore occhiuto, il cronista dell’oggi costretto per programma e quasi per laicissima missione entro i confini di un’idea: che cioè le discipline antropologiche, quanto più attingono alle basi oscure e inalterabili di un ethnos, di un popolo, di un carattere nazionale, tanto più risultano nemiche del divenire e della Storia maiuscola (per non dire del Progresso, dello Sviluppo). Una simile pendenza compositiva, se non proprio una svolta, si avverte con chiarezza in prossimità di fantasmi italiani (1977) presto rincalzato e variamente ribadito da volumi come In questo stato, Un paese senza, Paesaggi italiani con zombi, La vita bassa e molto altro di analoga fattura, comprese talune escursioni geografiche e politico-culturali come La caduta dei tiranni, Mekong, Lettere da Londra (1990, 1994, 1997). Ben venga dunque la statua equestre, omaggio doveroso da rendere a un artista di inconsuete qualità espressive. Ma non si trascuri la disposizione biforcata del cavaliere, che con molta noncuranza cala una gamba lungo i fianchi dell’avanguardia europea e del modernismo romanzesco di medio Novecento; mentre la gamba gemella allunga verso il pamphlet e la prosa documentaria.
Con questo non s’intendono individuare due Arbasino, troppo incisiva e uniforme è la cifra stilistica di cui egli fa sfoggio da un cinquantennio in qua. Ogni elenco accatastato e cantilenante, ricco di nomenclature e di concretezze enciclopediche, ce ne rimanda la personalità inconfondibile. Una cosa va piuttosto precisata: che narri o disserti in tono semiaforistico, che si affidi al collage, al montaggio citazionale di cui è maestro; che digredisca o imposti un dialogo protratto o s’innalzi metaletterariamente al quadrato o al cubo; che riprenda, riscriva e ricontestualizzi ampliando, sempre Arbasino lascia prevalere il lemma sulla sintassi, il paradigma sul sintagma, e mentre tinteggia un suo paesaggio sociale, non di rado umoroso e selettivo, poco congegna o connette linearmente.
Ha validi motivi Manica, nella prefazione mondadoriana, quando sottolinea il gusto dell’autore per le persone, le cose, i fatti del proprio tempo; quando rimarca un peculiare saggismo eticocivico che ne intride i lavori in modo ininterrotto. Resta tuttavia, alla metà degli anni settanta, un transito esplicito dalla fiction alla non fiction, dai modi del racconto alla testimonianza veridica. Anche qui: non si sta chiedendo a uno scrittore longevo e prolifico come Arbasino, e della sua statura culturale, poi, un perfetto consuonare d’opere e di attitudini creative. Il punto semmai è la piazza e il cavallo su cui lo si vuole montato, perché talune inerzie d’interpretazione rischiano di consolidarsi giusto all’atto di predisporre il monumento. Work in progress, proliferare delle riscritture e delle varianti in obbedienza a un criterio di indefinitezza permanente sono espressioni che il vogherese ripete volentieri, secondo un ben dosato do-it-yourself a sfondo critico e celebrativo, ma che non ne esauriscono affatto le attitudini complesse.
Indizi utili all’inchiesta ci vengono in questo senso dal volumetto L’Ingegnere in blu: sei riedizioni nel solo 2008, uno dei titoli che più hanno allietato la tarda carriera del nostro. Qui, in appendice, è possibile reperire un certo articolo, I nipotini dell’ingegnere e il gatto di casa De Feo, apparso sul «Verri» di Luciano Anceschi all’alba esatta degli anni sessanta e latore di un programma innegabilmente determinato: «Da parte mia» scriveva allora Arbasino, rivendicando una predisposizione multidisciplinare «ho il diritto e la politica internazionale, un po’ di saggistica, un po’ di giornalismo; e soprattutto ho intenzione di continuare a fare delle storie, non tante, ma piuttosto lunghe, di un respiro abbastanza ampio, ambientate nell’Italia d’oggi, senza fissarmi su una regione determinata (anche perché di solito parlano di gente che si muove abbastanza), però sociologicamente giuste fino ai fili d’erba; sempre con parecchi personaggi fortemente caratterizzati». E poco oltre, quasi non bastasse tanta nettezza volitiva e fosse necessario un rinforzo: «Quello che mi interessa soprattutto è raccontarle, queste storie, e far vedere i personaggi».
In un tempo di acuto travaglio per la civiltà romanzesca nazionale, scossa da ritorni poetologici, da una modellistica ipersofisticata di provenienza scientifica o francese, Arbasino dichiara fuor di dubbio la propria insofferenza teorica e pratica dinnanzi al «racconto ben fatto», tradizionalmente architettato e comunicativo. Però tiene per fermi due capisaldi strategici, di là dai quali ogni sovversione letteraria rischierebbe di restare senza uditorio: l’affabulazione come metodo e le persone drammatizzate che ne sono oggetto, il dire secondo tecniche stranianti e l’uso di figure altamente emblematiche. A questa data, Arbasino pare frequentare insomma sia il romanzo che l’antiromanzo. Si tratta sì di sperimentare, contestare il già noto, evadere dai margini ristretti della provincia Italia, ma evitando di dissolvere nebularmente gli istituti fondamentali di una retorica immaginativa. Niente derive fenomenologiche, ipostasi dello sguardo, personaggi particella, metafore scientifiche, narrativa indiziaria, come suggerito dagli artefici del nouveau roman o da Eco in Opera aperta. Negli anni subito successivi, ciò gli consente di tenere insieme il Gruppo ’63 e i fiorentini di «Paragone» (Longhi, Banti), la Feltrinelli di Bassani e quella di Balestrini, i dioscuri del romanzo-saggio, Mann e Musil, con il funambolismo di Dossi e Gadda.
Trascorre tuttavia il ventennio che si è detto, e nel 1980, quando compare sui banchi delle librerie Un paese senza, subentra alquanta incertezza problematica: «Più interessante la lettura dei giornali? Dell’attualità? Perché?» si domanda Arbasino «Un Paese mai stato molto bravo nell’inventar trame narrative. Inoltre, momento non propizio per la creatività». Sta qui il viraggio dal racconto alla cronaca, il trapasso da una letteratura «di progetto» (l’espressione è sua) ai generi minori della memoria, del documento, della testimonianza biografica variamente rifusi e spettacolarmente predisposti. Tutto ciò suggerisce fuor di dubbio un offuscarsi delle facoltà inventive, dello slancio sociologico e drammaturgico che era alle origini, ma con alcuni alibi di ordine generale. Oggi, obietta il vogherese, un romanzo come Fratelli d’Italia rimarrebbe desolatamente senza personaggi, poiché le figure deputate a renderne la casistica contemporanea «appaiono piuttosto “caratteri” fungibili, “funzioni” intercambiabili»; una circostanza penosa, ci assicura, a cui nemmeno Dostoevskij e Balzac saprebbero porre rimedio. «Il dirigente, il deviante, il terrorista, la femminista, il poliziotto, il ministro, il coatto, il funzionario, l’esperto, il deputato, il drogato, l’insegnante, il cantante e l’amante», ossia i protagonisti più in voga del periodo, con l’avvento della civiltà mediatica sono stati defraudati di quei tratti linguistici, fisici, comportamentali che un tempo li rendevano vividi e singolarmente degni di racconto. Il clima è mutato, gli antichi entusiasmi avanguardisti hanno da misurarsi ora con il crepuscolo, se non con una oculata ripresa della tradizione; giacché, spiega ancora, vi sono «epoche in cui è fondamentale essere i primi a sperimentare nuove forme» e «altre epoche in cui sembra più importante essere gli ultimi a possedere antiche pratiche e tecniche prima che si perdano».
L’eclissi del personaggio, o meglio il suo sperdersi entro una moltitudine anonima ed esteticamente amorfa, è del resto segnale di un più oneroso riorientamento. Lungo gli anni cinquanta e sessanta, la fiducia di Arbasino nei confronti di una giovane borghesia meglio attrezzata e dinamica, in prevalenza situata al Nord, è difficile da sottovalutare. Proprio a essa si indirizzava una produzione narrativa tanto atipica; e poco conta se con anticonformismo corrosivo egli tendeva a metterne in luce utilitarismi e struggimenti, ipocrisie e riti elitari. Sia pure tra scompensi e travagli, il paese avviava trasformazioni profonde di ordine urbano e cosmopolita; lo stesso moto studentesco, almeno agli esordi, poteva essere inteso come fenomeno di effervescenza modernizzatrice. Il ricorso a una sociologia che si vuole precisa sino al «filo d’erba» non altro stava a indicare se non un desiderio di individualizzare i processi collettivi all’ordine del giorno. Le distinzioni di ceto, le parabole ascendenti, i nuovi costumi erotici e affettivi, eventualmente le velleità e le rendite di posizione, trovavano una contropartita corposa in altrettante figure immaginarie, davano spazio a tipi, emblemi convincenti. Tuttavia nel mezzo del decennio a seguire l’entusiasmo viene meno, il mondo e l’Italia in primo luogo per così dire ristagnano, perdono vigore, ed è a questo punto che affiora strapotente la predilezione per l’antropologia.
Una mossa analoga era anche del Pasolini corsaro e luterano, disposto ad abbandonare un sondaggio linguistico di tenore classista e regionalista per meglio predicare la prossima omologazione corporea di tutti i connazionali. Ma per l’appunto il credo antropologico del friulano aveva riflessi fisici, pericolosamente somatici e positivistici. Arbasino parte viceversa dalla caratteriologia settecentesca e dalla dottrina estrosamente riformulata del Vico, tesaurizza la letteratura del Grand Tour, i romanzi gotici di ambientazione italiana, la pubblicistica franco-tedesca intorno al genio dei popoli. Con atteggiamento da illuminista in lutto, deluso dai risultati volgari a cui è pervenuta la borghesità vincente, compone insomma diversi filoni d’inchiesta per trarre conclusioni non troppo dissimili: smarrirsi degli antidoti individualistici, azzeramento delle distinzioni, nei costumi e nelle culture (Claude Lévi-Strauss gli fa da nume costante, e forse più per tristi tropici che per Antropologia strutturale o Il pensiero selvaggio). Però concepisce il processo uniformante, che per Pasolini segnava l’esito catastrofico della barbarie neocapitalista, in quanto ricaduta vertiginosa all’indietro. Cioè come fase sovrastorica che non annulla affatto, anzi lascia allo scoperto i tratti recessivi di un’italianità vischiosa e manchevole.
Poco c’è da sorprendersi, invero, se nell’opera arbasiniana i moduli della perorazione sarcastica e della requisitoria inesausta prendono infine il sopravvento. A levarsi alto, e solennemente sgarbato, è il lamento di uno scrittore ipercolto che si sente tradito dalla modernità borghese in cui aveva riposto fiducia. Il «giovane promettente» degli anni cinquanta e il «venerato maestro» che ne ha coronato le premesse letterarie non godono a conti fatti di una sicura successione coesa. Sul cavallo monumentale in corso di allestimento sale oggi uno strano ibrido, per metà adepto antitradizionalissimo delle muse, sagace nemico di qualunque sclerosi espressiva, sovranamente estraneo ai gusti prevalenti; per l’altra metà moralista di vasto e disdegnoso impegno, con il dito alzato.