Giornaliste ai fornelli

Negli ultimi anni un’ondata di neocasalinghitudine ha invaso il mercato librario italiano, dove alcuni libri di cucina hanno registrato un successo tanto più sorprendente quanto meno giustificato dalla competenza in materia degli autori. I bestseller recenti di cucina non sono opera di chef o gastronomi di professione, ma di giornaliste nei panni di cuoche apprendiste, capaci di passare con disinvoltura dal programma televisivo al blog, al libro sulla scorta di un rapporto di complicità ammiccante con i lettori.
 
Negli ultimi anni le alte tirature puntano decisamente sui fornelli e i grembiuli da cucina. Di per sé il fenomeno potrebbe non risultare sorprendente. Che in Italia i libri di cucina godano da sempre di buona fortuna non è una novità. Siamo, poi, la patria dell’Artusi e di Gualtiero Marchesi, la nostra tradizione gastronomica è ricca e rinomata; in più, l’alimentazione è tema di studio e di dibattito dalla prospettiva di discipline diverse, dalla storia all’antropologia, alla salutistica, alla dietologia, alla medicina preventiva.
Eppure il successo recente di alcuni libri di cucina ha raggiunto proporzioni che vanno ben oltre l’ovvietà di tali considerazioni. Stupiscono, innanzitutto, le cifre da capogiro del fenomeno: Le ricette di casa Clerici (2010) di Antonella Clerici è stato a lungo in vetta alle classifiche dei libri più venduti; Benedetta Parodi con Cotto e mangiato (2009) e Benvenuti nella mia cucina (2011) ha venduto due milioni di copie. Insomma, viene da dire che se in Italia si consuma troppo cibo, se ne scrive e se ne legge anche di più. Si ha l’impressione che i libri di cucina vendano oggi più dei romanzi.
La sorpresa aumenta se si considera la tipologia dei testi di cucina di successo che editori come Giunti, Vallardi, Rizzoli, Ponte alle Grazie lanciano con sempre più fiducia sul mercato. Non si tratta di libri divulgativi sì, ma redatti da specialisti del settore. Certo, anche i libri di Allan Bay, da Cuochi si diventa 1 e 2 (2003-2004) a Le ricette degli altri (2005) hanno goduto di una certa popolarità, come pure i testi pubblicati nelle collana da lui diretta per le edizioni Ponte alle Grazie, «Il lettore goloso»: segnaliamo il successo dei due volumi di salutistica di Marco Bianchi, I magnifici 20 (2010) e Le ricette dei magnifici 20 (2011), un ricettario vero e proprio, quest’ultimo, che si ispira ai principi nutrizionali enunciati nel primo libro.
La salute è importante e di salutistica si legge volentieri. Eppure, i libri di cucina più letti non sono opera né di chef né di gastronomi e neppure di dietologi. Gli autori e, più spesso, le autrici appartengono al mondo dello spettacolo, dei media e della carta stampata; spicca, tra tutti, il contingente nutrito delle giornaliste, dalla Folliero, alla Clerici, alla Parodi o a Ilaria Bellantoni, che non solo non sono specialiste del settore ma spesso dichiarano, candidamente, di essere delle frane in cucina, qualche volta persino di odiarla.
Nella maggioranza dei casi le nuove autrici di ricettari di successo amano presentarsi ai lettori nei panni di cuoche apprendiste, sperimentatrici audaci e curiose, pronte a carpire ricette dalle fonti più disparate: amici, familiari, chef professionisti ma anche siti Internet, blog e social network. Ne risulta un modello di cucina che, naturalmente, non si rifà a una tradizione precisa né ad alcuna specifica scuola di pensiero: non è la cucina regionale tipica e neppure una dieta salutare. Anzi, gli scrupoli salutistici sono elusi con una certa disinvoltura: si evitano le fritture, ma panna, burro e besciamella vengono usati senza troppi scrupoli. Di slow food, poi, neanche a parlarne; viene proposta, anzi, una cucina sfiziosa e stuzzicante, veloce e, nello stesso tempo, economica.
Si punta non tanto sulla qualità dei piatti presentati quanto sugli effetti di un gioco ammiccante e abilmente orchestrato: i lettori sono sollecitati a identificarsi con la prospettiva, apparentemente dal basso, di autrici che, in cucina, sono sul loro stesso piano e li richiamano, pertanto, a una complicità maliziosa. E in cucina, nella loro cucina, si autorappresentano, disposte a esibire un privato tanto più accattivante e coinvolgente quanto più coincide con una quotidianità da tutti condivisa.
È la formula con cui queste autrici riescono a costruirsi un’autorevolezza meritata sul campo ma che non ammette repliche.
Così Antonella Clerici nel suo libro Ricette di casa Clerici si pone come garante di un vasto repertorio di ricette attinte a fonti disparate: il ricettario di famiglia, i consigli degli chef, le proposte di amici e familiari. L’autrice chiama in gioco la fitta rete di relazioni tessuta durante la lunga carriera di conduttrice del noto programma televisivo di cucina, La prova del cuoco per dar vita a un testo che imita la veste grafica del ricettario personale compilato a mano: uso dello script, inserzione di finestre a forma di post-it in corsivo o di finti bigliettini scritti a mano. La grafica corrisponde a una struttura composita, che alterna sezioni dedicate alle portate tradizionali a rubriche speciali: le «ricette dello chef», suggerite alla Clerici da cuochi professionisti, le «ricette di casa mia», che provengono dalla tradizione familiare, le «ricette del cuore», proposte da familiari, parenti, amici stretti. Vita privata e carriera professionale dell’autrice appaiono compenetrate e il ricettario si propone come sintesi autorevole di un’esperienza esistenziale. L’impatto sul lettore è efficace, corroborato da uno stile dal registro sapientemente variato: essenzialità stringata nella presentazione delle ricette ordinarie, tono lezioso e ammiccante nei cappelli introduttivi alle rubriche speciali («Marco Scarpa di Cavallino… Mi piace perché è un ragazzone buono e genuino. Sposato da poco dopo i miei pressing… i cuochi, come i calciatori, devono sposarsi giovani»). Il mondo della cucina è, nello stesso tempo, luogo della socialità mondana e sede deputata degli affetti familiari, sul cui sfondo si delinea la rappresentazione di un quadro di quieto benessere borghese.
La formula vale, a maggior ragione, per i libri di Benedetta Parodi, da Cotto e mangiato a benvenuti nella mia cucina: anche nella cucina di casa Parodi si sperimentano piatti suggeriti da fonti diverse: l’amica giornalista, la truccatrice, persino «la fitta rete di amiche di mia mamma, signore alessandrine simpatiche ed eleganti, ottime cuoche e padrone di casa impeccabili». Eppure il giudizio definitivo sulle singole ricette è pronunciato immancabilmente dal tribunale di famiglia: il marito e le tre figlie di Benedetta, che giurano e spergiurano sulla qualità e sulla riuscita dei piatti, per cui, immancabilmente «impazziscono», o che, talvolta, «adorano».
Lo stile della Parodi ha un piglio deciso, qualche volta fastidiosamente sopra le righe: superlativi ed esclamazioni si sprecano nel commento alle ricette, i giudizi di apprezzamento, pronunciati con tono perentorio, sembrano non ammettere obiezioni.
Si impone, tuttavia, una considerazione scontata a proposito dei libri della Clerici e della Parodi: è indubbio che il loro successo non prescinde dalla popolarità che le due autrici si sono guadagnate come conduttrici di noti programmi televisivi di cucina, la Prova del cuoco e Cotto e mangiato. La complementarità con la dimensione multimediale, spesso richiamata come fonte e occasione di sperimentazione delle ricette raccolte nei libri, è apertamente dichiarata. Eppure i libri di Clerici e Parodi hanno quasi più successo dei programmi che li ispirano: un successo che sembra andare oltre l’effetto prevedibile di cassa di risonanza esercitato dal mezzo televisivo.
Incredibile, ma in cucina i libri, forse perché si prestano alla consultazione oltre che alla lettura sequenziale, reggono il confronto con siti Internet, blog e programmi televisivi, dove pure le ricette sono facilmente reperibili.
Evidentemente non si tratta soltanto di raccogliere e proporre le ricette di piatti succulenti ma di suggerire un immaginario accattivante, esuberante e vitale, dominato dalla rappresentazione di una femminilità dinamica ed estroversa, capace di coniugare con disinvoltura modernità e tradizione.
Ecco il trionfo di una sorta di neocasalinghitudine, in cui la cucina può anche diventare occasione e pretesto di racconto. benvenuti nella mia cucina, per esempio, ricorre all’impianto narrativo del resoconto diaristico: la raccolta di ricette si dipana lungo il filo della storia di un anno ideale di vita familiare in casa Parodi, scandito dalle tappe stagionali prevedibili, dall’autunno all’estate.
Un filo d’olio (2011), l’ultimo libro di Simonetta Agnello Hornby, nel configurarsi come romanzo di costume, romanzo storico e insieme autobiografia dell’autrice, prende spunto, manco a dirlo, dalla suggestione del ricettario di famiglia, gelosamente custodito da Chiara Agnello, sorella della scrittrice. Il processo di formazione della protagonista coincide con la sua iniziazione progressiva alla cucina di famiglia, le cui ricette, tipiche della gastronomia siciliana, sono, poi, raccolte in appendice. Sullo sfondo, secondo la migliore tradizione siciliana, l’affresco d’epoca: la storia di una famiglia aristocratica negli anni cinquanta, tra i segni della ricostruzione del secondo dopoguerra e le prime avvisaglie del boom economico.
Il filone dei libri che raccontano storie di cucina, cuochi e fornelli può anche scartare, tuttavia, la vena elegiaca del racconto autobiografico, come pure il tono brillante e lezioso dei ricettari di successo e optare per una scrittura ironica e beffarda. Ecco i libri delle cattive ragazze, che si fanno beffe dell’alta cucina, come della routine domestica, ma, alla fine, dei fornelli non possono fare a meno.
Ilaria Bellantoni, autrice del libro Lo chef è un dio (2010), la Melissa P, della cucina, è anche lei una giornalista che non solo dichiara di non saper cucinare, ma, persino, di odiare la cucina. Nel romanzo Lo chef è un dio, racconto esilarante di un mese trascorso dalla protagonista, da poco mamma e decisa, pertanto, a imparare l’arte culinaria, nelle cucine di un noto ristorante, la Bellantoni sottopone a ironia graffiante il mondo dell’alta cucina, denunciando il cinismo e l’arroganza dei grandi chef e le condizioni di sfruttamento dei giovani cuochi loro sottoposti. Il tono dissacrante sembra riprendere lo stile dei libri di Anthony Bourdain, da Kitchen Confidential (2002) a Il viaggio di un cuoco (2004) rovesciandone, però, la prospettiva. Non più l’ottica interna al mondo di un cuoco smaliziato, ma lo sguardo sarcastico di un’intrusa nel mondo dei grandi chef. In fondo l’operazione della Bellantoni non è priva di senso. Anzi è un modo per prendersi la rivincita, attraverso le armi dell’ironia sorniona e maliziosa, contro la sottile pregiudiziale sessista che condiziona ancora il mondo della cultura gastronomica: alta cucina, scienza in cucina, salutistica specialistica restano, pur con alcune eccezioni, prerogative maschili; alle donne, se non accettano più di essere le depositarie dell’esperienza tradizionale, spetta il ruolo di cuoche dilettanti, interpreti di successo delle performance di una cucina rapida e improvvisata.
E sempre sul versante dell’ironia, c’è chi punta sull’estro creativo e sullo spirito di iniziativa: ecco l’ispirazione sbarazzina di Sigrid Verbert, divenuta la regina dei foodblogger dopo aver fondato con successo un blog di cucina assai frequentato, «Cavoletto di Bruxelles», dove la Verbert scambia ricette con gli utenti, pubblica video delle sue esibizioni in cucina e soprattutto foto di composizioni gastronomiche. Anche per lei, belga di nascita ma italiana d’adozione (ha sposato un calabrese ), il passaggio dal blog al libro è stato consequenziale: ha puntato su ricettari estrosi, corredati di foto artistiche e, soprattutto, messi in risalto da titoli spiritosi e stuzzicanti. Ne sono esempio il Libro del cavolo (2009) o Bimbi & Bimby (2011), raccolta di ricette per l’infanzia, realizzate con l’ausilio del noto elettrodomestico e pubblicata in occasione della maternità. E curioso ma il riferimento alla maternità come musa ispiratrice è una costante per le autrici dei libri di cucina, che sono prolifiche, come le eroine dei romanzi rosa. Anzi, sembra che maternità e famiglia siano un incentivo più forte dell’eros all’interesse gastronomico: il cibo come strategia di seduzione resta in secondo piano, funziona caso mai meglio come sublimazione del desiderio, vissuta senza drammi e con una sfumatura di autoironia. Le giornaliste cuoche hanno intuito che oggi i lettori preferiscono le cucine alle camere da letto. Forse perché la cucina si configura come uno spazio fluido, privato ma aperto alla socialità, facilmente condivisibile a patto che autori e lettori si mettano sullo stesso piano, capace di conciliare, al di fuori dell’ambiente stressante dei ristoranti rinomati, anche i conflitti tra i sessi. Uno spazio che le donne, escluse dal giro dell’alta cucina, possono riconquistarsi e gestire con disinvoltura, proiettandovi le tematiche di sempre della letteratura femminile: amore, maternità, matrimonio, famiglia. E, poi, la cucina sollecita un voyeurismo socialmente consentito e innocente, che si appaga dell’esuberanza vitale di chi si esibisce ai fornelli, autorizzando il pubblico a partecipare allo spettacolo. Benvenuti nella mia cucina, appunto.