Il successo della crisi

Oltre ai nostri pensieri, la crisi ha invaso gli scaffali delle librerie, dilagando nel settore della saggistica economica. A prevalere sono le invettive, scagliate contro una mandria di capri espiatori (bamboccioni, pensionati sanguisughe, statali indolenti, negozianti ladroni, ecologisti ottusi…). Latitano i ragionamenti costruttivi su cause e prospettive, mentre si moltiplicano gli appelli a rimedi prodigiosi.
 
Tra gli effetti della crisi, non poteva mancare lo sviluppo rigoglioso della saggistica sul tema. Giri nel reparto economia delle librerie e cosa trovi, accanto a ponderosi trattati accademici? Sì, promettenti manuali per arricchirsi aprendo un chiosco di piadine. D’accordo, volumetti che spiegano come mesmerizzare il capufficio per ottenere un aumento. Ma a guardare meglio, spunta altra mercanzia. Roba per una volta non destinata né agli specialisti né ai gonzi, ma (trema la mano a scriverlo) ai cittadini informati.
Un primo filone percorre la via della denuncia. Aprite gli occhi, se siamo messi così è colpa dei giovani poltroni. Dei baby pensionati. Degli statali che se la sciallano. Dei bottegai che evadono. Dei sindaci che intascano. Degli ecologisti che intralciano. Lacci laccetti lacciuoli, caste castine castette che fiaccano l’Italia. C’è solo l’imbarazzo della scelta, nell’ormai vastissimo portafoglio Chiarelettere, oppure in lavori come Il partito dei padroni, inchiesta su Confindustria firmata da Filippo Astone, e Bolle, balle & sfere di cristallo, panorama di Stefano Cingolani sull’«economia dell’inganno mondiale». Un libro, quest’ultimo, che si lascia apprezzare per le prese di posizione controcorrente, magari discutibili ma spesso in grado di seminare dubbi (davvero la Cina sarà la nuova potenza egemone? davvero il laissez-faire ha fallito dappertutto?). Cingolani è tra i pochi a evitare il «ventinovismo», ovvero la retorica dell’iperbole, straripata in un profluvio di titoli. Qualche esempio: Crac! Il tracollo economico dell’Italia, di Domenico De Simone; Un racconto apocalittico, di Giulio Sapelli; Il grande saccheggio, di Piero Bevilacqua, secondo il quale il capitalismo è entrato in un’epoca di radicale distruttività, tale da dissolvere le conquiste della democrazia. Come rane a mollo in una pentola riscaldata progressivamente, andiamo in malora senza reagire.
Si sperava che con la globalizzazione gli sweat-shops (le «fabbriche del sudore») sarebbero andati scomparendo, e ce li troviamo in casa, anzi nei retrobottega. Il lavoro, su cui si fonda la nostra repubblica, non è più la via maestra per costruirsi un futuro migliore. Deprezzato dalle conquiste tecnologiche, dallo sfruttamento degli immigrati, dalle delocalizzazioni, non riesce a garantire un tenore di vita dignitoso. E questa, riprendendo un titolo di Marco Panara, la malattia dell’Occidente, con ricadute di incalcolabile gravità sui rapporti umani (non affondano qui, nelle umilianti concorrenze al ribasso, le radici più solide della xenofobia?). Tanto peggiori gli effetti in Italia, dove la comparsa dei cosiddetti working poors esaspera l’atavica propensione al «familismo amorale», come ha osservato Marco Revelli in Poveri, noi. Torna così in primo piano la questione dell’invidia sociale, nei termini messi in luce da Tocqueville, che la riteneva un portato inevitabile della democrazia, incline a risvegliare il sentimento di uguaglianza senza poterlo mai soddisfare appieno.
Come siamo arrivati a questo punto? Qualche anno fa, in visita alla London School of Economics, lo ha candidamente chiesto anche la regina Elisabetta. Esimi signori, scusate, com’è che nessuno si è accorto di niente? Imbarazzo. Costernazione. Forse siamo davvero intrappolati su un aereo fuori controllo, come ritiene Luciano Gallino, intellettuale di formazione olivettiana, che in Finanzcapitalismo ha smontato abilmente gli ingranaggi difettosi della megamacchina speculativa dalla quale dipende ormai il nostro destino. Il «finanzcapitalismo è il maggior generatore di insicurezza socioeconomica che il mondo moderno abbia finora conosciuto». Non ha niente a che fare con la produzione di merci, è una patologia che coinvolge istituzioni, banche e imprese, in un gigantesco processo di illusionismo. Basti dire che gli attivi finanziari globali oggi superano di quattro-cinque volte il PIL mondiale, o che questo nel 2008 non equivaleva neppure a un ventesimo del volume di scambi di derivati. Gonfiate da queste bolle, le crisi si susseguono a ritmo crescente. La politica, sostiene Gallino, non è inerme ma connivente. Il neoliberismo si è fatto pensiero egemone, insieme all’idea che il mercato si regoli da sé. Come, lo abbiamo visto. Prima gli stati si svenano per salvare banche e compagnie di assicurazione, poi vengono aggrediti direttamente. È il capolavoro del finanzcapitalismo: «rappresentare il crescente debito pubblico non come l’effetto di lungo periodo delle sue proprie sregolatezze e dei suoi vizi strutturali, largamente sostenuti e incentivati dalla politica, bensì come l’effetto di condizioni di lavoro e di uno Stato sociale eccessivamente generosi».
Ora, è possibile in qualche misura incivilire questo mostruoso sistema? Difficile, almeno sino a che sarà così stretto il nodo tra finanza e politica, con la complicità di istituzioni del tutto «ademocratiche» come 1’OCSE o il FMI. Dovrebbero essere i cittadini, dal basso, a spingere con vigore per le riforme, ostacolate da architetture societarie di vertiginosa complessità, ben riparate da una selva di cavilli legali (Lehman Brothers era formata da circa tremila entità giuridiche differenti). Gran parte della popolazione mondiale peraltro è materialmente impotente, o psichicamente sottomessa al culto dei valori saliti in dominante. Famiglia, scuola, salute: tutto viene misurato sul metro dell’impresa. Eppure secondo Gallino qualcosa si può fare, partendo per esempio dal versante cruciale eppure trascurato dei fondi pensione, oggi gestiti a discrezione dei manager. Se i lavoratori, tramite i sindacati, dovessero intervenire sulle enormi cifre accantonate, esprimendo le loro priorità, l’intero apparato economico ne sarebbe scosso dalle fondamenta.
Intanto il debito totale del mondo ha superato nel 2009 i 100 trilioni di dollari, l’80% imputabile ai paesi più sviluppati. Così non dura, dura minga, non può durare. Che fare? Diceva quel tale. I reazionari, se ottimisti, si rifugiano placidamente all’ombra delle sette parole d’ordine predicate da Tremonti in La paura e la speranza (valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo). Altri preferiscono incamminarsi fiduciosi sulla strada cristiana indicata da Hans Kiing in Onestà, il capitalismo ha bisogno di forti iniezioni di etica, va tenuto al guinzaglio di una moralità forte. Lo ha sostenuto anche Edmondo Berselli nel suo ultimo libro, L’economia giusta, con tanto di citazioni dalla Rerum novarum.
In ogni caso il ritornello non cambia: dovremo abituarci a stringere la cinghia, abbracciare uno stile di vita più sobrio. E non è detto sia un male, almeno per chi presta orecchio alle teorie di Serge Latouche, convinto che la crisi offra l’opportunità di costruire un nuovo progetto di «democrazia ecologica», illustrata nei saggi raccolti in Come si esce dalla società dei consumi. Decrescita o barbarie, questa l’alternativa. Lo sviluppo sostenibile non è che un ridicolo ossimoro. Il PIL non misura la qualità della vita. Si tratta piuttosto di «decolonizzare l’immaginario» e abbandonare il socialismo modernista, imperniato sul dominio della natura. La crescita, come aveva visto Baudrillard, produce al tempo stesso beni e bisogni, ma non allo stesso ritmo. E qui sta il punto dolente, visto che l’imperativo della frugalità volontaria funzionerà bene per sazi e insoddisfatti dell’Occidente, ma lascia piuttosto indifferenti le masse che accorrono negli slums (dove campa ormai un quinto della popolazione mondiale), attratte dai miraggi dell’Avere.
Esposte con stile accattivante, le idee di Latouche hanno trovato in Italia terreno fertile e numerosi apostoli: basta sfogliare La decrescita felice, di Maurizio Pallante, o Prepariamoci, di Luca Mercalli. Senza contare il successo di movimenti «amici», come Slow Food, che dalla provincia di Cuneo ha saputo raggiungere l’Australia. Un modello straordinario, per chi crede che sarà il ritorno ai saperi locali a salvare la baracca. In quest’ottica, com’era prevedibile, non sono mancati gli appelli a ripartire valorizzando il patrimonio culturale della penisola (Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco, Italia reloaded). Certo, precondizione essenziale è sfrondare la foresta di interessi e rendite di posizione cresciuta nel tempo. Su questo punto insistono numerosi panegirici del concetto di meritocrazia, feticcio amatissimo dalle destre, che con una mano lo accarezzano mentre con l’altra bastonano il suo miglior amico: l’imposta di successione. In genere (si vedano per esempio i contributi di Roger Abravanel) il totem dell’uguaglianza è sostituito dalla mobilità sociale, da perseguire attraverso ulteriori liberalizzazioni, nell’intento di avvicinarci alle società anglosassoni, che funzionano da faro, per quanto abbiano le più alte percentuali di poveri e di crimini tra i paesi avanzati. Curioso poi che i discorsi sul merito di rado si curino di prendere in considerazione le stravaganze fiscali cristallizzate in Italia, l’unico paese in Europa dove i lavoratori dipendenti guadagnano più degli autonomi, che nel 2009 hanno dichiarato in media 18mila euro lordi, con punte di ardita comicità (14mila i ristoratori, 10mila gli antiquari…). Eppure, latitano proposte serie su questa vergogna. Nemmeno una crisi devastante come l’attuale è giunta a far percepire come necessità ineludibile un radicale riordino del sistema tributario.
Lo stesso vale per l’accesso alle professioni dei giovani. Agli altissimi tassi di disoccupazione, ormai sopra il 30%, si combina qui il dilagare di impieghi sottopagati, che sempre più spesso rendono un miraggio non solo l’acquisto di case e beni, ma anche spese sanitarie un tempo ovvie, come quelle dentistiche. Si creano così le condizioni favorevoli al ritorno di fiamma di un patriarcalismo fondato sul connubio – più volte sottolineato da Tito Boeri – tra solidarietà parentali ed egoismi pubblici. Gli allarmati articoli sulle vicissitudini dei pensionati a mille euro acquistano in effetti altro sapore se si pensa che molti nipoti non arrivano a guadagnare la medesima cifra lavorando, e senza contributi. Guardandosi dal cedere all’invettiva populista contro furbacchioni e sanguisughe (copyright Mario Giordano), andrà pur sottolineato che su questi temi si gioca la rottura del patto generazionale. Un patto d’altronde già ampiamente compromesso, a giudicare dal disinteresse dei mezzi d’informazione e delle classi dirigenti sulla questione del precariato. Ma è una cecità anche «orizzontale», che colpisce tranvieri, postini, infermieri, banconisti ecc. dinanzi ai neoassunti che svolgono il loro medesimo mestiere in condizioni contrattuali gravemente peggiori. Paura? Cinismo? Rassegnazione? Mors tua vita mea? Avvilisce inoltre constatare quanti italiani ritengano passeggero, e comunque dovuto a pigrizia o mediocrità, lo stato di «atipico», che riguarda oltre tre milioni di lavoratori, reddito medio cinque euro/ora, privi d’indennità di malattia, ferie, congedi per maternità. Come ricorda Revelli, nel giro di due anni nemmeno un terzo di loro passa a un’occupazione standard.
A fronte di questo clima, non stupisce il vivacissimo e rabbioso spontaneismo che si registra in rete, dove va cercato il vero bestseller sul tema, Schiavi moderni, una raccolta di testimonianze messa a disposizione da Beppe Grillo sul suo sito. Come sottolinea il Premio Nobel Joseph Stiglitz nella prefazione, secondo i dettami dell’economia liberista «i salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento». In realtà, vale la pena di aggiungere, anche fuori dai confini nazionali il rischio tende a scivolare sulle spalle più deboli. Persino in Germania, dove imperversano i minijobs da quattrocento euro al mese introdotti da Schroder. Forti esportazioni e bassi salari. Capitalismo renano? Pare la Cina.
Negli anni zero in effetti un’ondata di creatività, in materia di lavoro low-cost, ha sferzato l’Europa, lasciando sulle sponde enormi cataste di fascine: i focolai di indignazione esaminati da Loretta Napoleoni nel Contagio. Da noi, per esempio, si è assistito alla rapida espansione degli autonomi di seconda generazione, sui quali getta uno squarcio di luce il documentatissimo studio di Sergio Bologna e Dario Banfi, Vita da freelance. È il nuovo popolo delle partite IVA, abituato (quando non si tratti di dipendenti «mascherati») a lavorare da casa via Internet. Un modello perfetto di new workers monadici, delusi dai sindacati e fuori dall’ombrello degli ordini. A Milano, sulla scia di analoghe esperienze estere, hanno fatto da sé, fondando un’agguerrita associazione, ACTA (www.actainrete.it). Che dire? L’alternativa a una solida e influente rappresentanza è una sola: le Mutande di ghisa, che Marco Fratini e Lorenzo Marconi hanno scelto come titolo di uno spassoso manuale di sopravvivenza ai tranelli del libero mercato.