Il graphic novel sperimentale. Scisso, enigmatico, metanarrativo

Se nel fumetto lungo giapponese un tipo di racconto senza balloons ottiene effetti di onirica espressività, in Italia si preferisce manipolare trame metanarrative, forse troppo «letterarie». Fortunatamente, ci sono anche esempi in controtendenza, e un sano radicamento nelle cose tiene a freno i possibili arbìtri di un narrare rivolto a pochi intenditori.
 
Se nel fumetto lungo giapponese un tipo di racconto senza balloons ottiene effetti di onirica espressività, in Italia si preferisce manipolare trame metanarrative, forse troppo «letterarie». Fortunatamente, ci sono anche esempi in controtendenza, e un sano radicamento nelle cose tiene a freno i possibili arbìtri di un narrare rivolto a pochi intenditori.
Tre giovani giapponesi si avviano ai tornelli di un commuter train (inferiamo istintivamente la regione metropolitana di Tokyo). I loro movimenti, le linee di attraversamento dell’inquadratura sono rigidi e simmetrici; le fisionomie individuali si caratterizzano per pochi tratti invarianti che geometrizzano gli abiti e persino la corporeità. Rispettivamente: capello nero spalmato a tutta testa; sorta di berretto a strisce concentriche; ben delimitata calvizie in grigio, forse a suggerire – nel contesto del bianco e nero – capelli rossi o biondo cenere. Dal momento in cui i tre risoluti viaggiatori entrano nel treno che dovrebbe ( ! ) condurli al lavoro, comincia la vera e propria avventura, fatta di spazi che misteriosamente si aprono nel ventre del convoglio, di sguardi che si incontrano e rimbalzano, in campo e controcampo, a partire dalle interrogazioni visive gestite dai protagonisti. Viaggia il treno, insomma, e viaggiano i viaggiatori dentro il treno, mentre assistono a curiose epifanie (epifanie del quotidiano?) e il racconto non può non registrare l’interazione panoramatica fra il mezzo di trasporto che affetta città e campagna indifferentemente, dispiegando ai nostri occhi – ma anche a quelli dei tre focalizzatori – la simmetrizzazione sistematica del tutto. Sicché non appare affatto strano che i protagonisti, finalmente scesi alla loro fermata, nel giro di poche inquadrature attraversino prati e foreste per fermarsi di fronte a tre grandi scogli identici e alla potenza liquida di un mare in tempesta. Fine.
Così, in quasi duecento pagine, con impaginazione manga (il testo si legge dalla quarta di copertina a ritroso), Yuichi Yokoyama racconta Il viaggio: un suo viaggio senza parole, fatto solo di immagini, suscettibile di frastornare il lettore ma anche di galvanizzarlo, di costringerlo a fare i conti con la fluidità di esperienze e oggetti, pur in presenza di una loro irriducibile materialità. E sia detto tutto il bene possibile del gruppo redazionale di Canicola che nel 2011 ha diffuso in Italia questo bellissimo prodotto d’autore risalente al 2005.
Se ne può trarre – perlomeno ipoteticamente – un suggerimento? Anche a leggere le storie viceversa brevi contenute in «Canicola», n. 9 (2010, consacrato al centocinquantesimo dell’Unità), direi proprio di sì. E cioè che il fumetto, racconto o romanzo grafico che sia, tanto più facilmente si avvicinerà a una ricerca narrativa in senso lato sperimentale, quanto più cercherà di separare, scollare, débrayer, la parola dall’immagine, al limite facendo a meno della prima e comunque pensando la loro unione come alcunché di artificioso. Difficile non provare un brivido di approvazione di fronte allo sgranato, episodico, quasi pittorico Paesaggi urbani di Lorenzo Mattotti, oppure al sarcastico-espressionistico Culo d’oro di Gianluigi Toccafondo, e certo anche al metamorfico fin dal titolo Pruno è Hans di Stefano Ricci – tutti e tre appunto nel numero citato di «Canicola». Bisognerebbe forse parlare, utilizzando un antico concetto caro a Gillo Dorfles, di un rapporto di asincronismo fra gli elementi in gioco, che porta con sé qualcosa di asintattico, di inceppato: il suggerimento di un racconto che non si dispiega mai completamente, anche se la sua linearità, la sua progressione, apparentemente è garantita.
D’altronde, elimina quasi ogni sospetto di compiacimento astratto un rilievo in effetti decisivo: vale a dire che l’atto narrativo del graphic novel anche di «ricerca» ha bisogno di un aggancio realistico palmare su cui esercitare la propria successiva distorsione. A me sembra esemplare, da questo punto di vista, il talentuosissimo (un vero virtuoso dell’immagine) Paolo Bacilieri. Se prendiamo in considerazione il suo peraltro non recente Durasagra. Venezia uber alles, cogliamo bene un’alchimia espressiva del genere, ancora condizionata dalla carnalità trasgressiva e dalle ambizioni figurative del maestro Andrea Pazienza. I diversi piani del racconto, che intrecciano una Venezia popolare e insieme decadente con il flusso derealizzante della televisione (siamo negli anni d’oro di Beautiful), si risolvono in una specie di sublimazione quasi soltanto visiva in cui un autore-personaggio en abyme ironicamente si raccomanda alla Divinità di Tutti i Comics. La storia, costruita in modo abbastanza convenzionale, insomma, non può che regredire alla condizione di tableau, di rappresentazione mimetica (facciate di chiese, scorci di ponti, canali, calli), che tuttavia prelude a un delirio ironicamente kitsch, al nulla di una metariflessione che in fondo è una boutade ironica, tanto ostentatamente postmoderna da essere pronunciata con molte esitazioni interiettive e convenzionali («…Vorrei una vita… basata… su di un canone… gawrsch… di bellezza! Yeeaaaaagh»).
E lasciamo stare il lubrico postmoderno, o postmodernismo che dir si voglia – naturalmente. Lo scivolone rischiamolo piuttosto sul «meta», sui tanti racconti al quadrato, narrazioni sventrate da riflessioni su se stesse, a cui la migliore fumetteria d’arte – in terra d’Italia – ci ha da anni abituati. Tuttavia, se di sperimentalismo si tratta, è molto diverso dal tipo di scollamento da cui ero partito. La differenza è quella che passa tra un agire in levare e un’operatività cumulativa, attenta agli effetti, alle simmetrie strutturali, ai giochi di specchi e alle citazioni. Difficile, su questo piano, non ravvisare un piccolo capolavoro dello stile in questione nell’ambiziosissima tetralogia – completa di contenuti extra – Grotesque, di Sergio Ponchione. Non si sa neanche da che parte cominciare a svolgere la complessa matassa dell’intreccio, condizionato, e in modo non certo imprevedibile, dall’autorità di Philip K. Dick: dal mentore vale a dire di ogni mondo «cerebralizzato», presentato come prodotto di un essere pensante, proiezione di un atto psichico prima ancora che di una narrazione verbale. Basti dire che al lettore è richiesto un giudizio sul demone del Grottesco (su uno gnostico anticreatore, detto Obliquomo), che gli stili del disegno cambiano nel corso dei quattro volumi (facendosi pura maniera americana nell’albo extra), e soprattutto che l’enfasi su un saldo effetto cornice finisce per costringere il lettore a un esercizio di integrazioni esistenziali (integrazioni di mondi possibili) forse leggermente autoritario. In parole povere: l’autore implicito di Ponchione è uno che se la tira assai, e che reclama un destinatario specularmente alla sua altezza. Vero è che, come sempre è raccomandabile in questi casi, il fumettaro reale può abbandonarsi al puro piacere della fruizione brada, aperta, a un percorso di lettura non lineare.
Non è tuttavia, questo, il caso del più affabile – almeno all’apparenza – Alessandro Baronciani, il cui Le ragazze nello studio di Munari esegue la storia leggermente moralistica di un dongiovanni infine punito proprio quando si innamora sul serio. L’oggetto libro, arricchito da qualche finezza cartotecnica (lucidi che creano strati di immagini, inserimento di materiali non cartacei, la presenza di un vero biglietto ripiegato), un po’ rende fisicamente percepibile l’omaggio al design di Bruno Munari, un po’ costringe a prendere atto di un citazionismo debordante e quasi intimidatorio. Per esempio: il saccente tombeur de femmes narratore autodiegetico comunica a una fidanzata – poi puntualmente mollata – che Deserto rosso di Antonioni «è la più grande lezione sul colore del cinema moderno»; mentre l’autore reale, a uso del suo destinatario, esemplifica le virtù cromatiche del film facendo virare le pagine del graphic novel a cinque colori diversi, e riprendendo in effigie la figura di Monica Vitti (che, va da sé, è «la più grande attrice che c’è stata in Italia»). In definitiva, siamo di fronte a una sorta di ipereccitazione culturalistica, doppiamente impegnativa per il lettore poiché si applica a un mondo a ben vedere favolistico, fatto di perfetti corpi stilizzati e di un’idealizzazione della giovinezza e dei suoi tremori e languori. Dice: se certe donne bambine divorano Dostoevskij come io a quarant’anni faccio con Ammaniti, devo sul serio avere qualcosa che non va…
Un paio di osservazioni finali. Intanto, agli autori italiani così attenti a convocare tutto il citabile, con l’intento di eludere il peso del mondo fisico, è forse sufficiente ricordare l’osservazione fatta una ventina di anni fa da David Foster Wallace: il quale aveva individuato nella televisione commerciale e nella pubblicità una delle origini (forse la più autorevole) dell’ironia postmoderna. Da molti anni, ormai, il metaracconto prospera nella cultura pop.
E poi bisognerà cercare di chiarire meglio il ruolo del lettore nel fumetto sperimentale. Aveva sicuramente ragione McLuhan a vedere nei comics l’esempio forse più interessante di «medium freddo», che necessariamente mette in gioco il lavoro del pubblico, la sua capacità anche collettiva di «far parlare» il testo, di interrogarlo e integrarlo in modo molto più aperto e libero di quanto non faccia lo spettatore cinematografico o il lettore di romanzi. In questo senso, un fumetto caratterizzato da uno scioglimento sospeso ed enigmatico, un fumetto parco se non privo di parole, è una vera e propria sfida al lettore, un appello alla passione, al gusto, alla competenza. Penso al breve e a modo suo perturbante Il re dei pruppi [= polipi] di Vincenzo Filosa, contenuto nel già ricordato n. 9 di «Canicola»: l’apocalisse vista da lontano (una tempesta marina) che tanto spaventa un bambino su una normale spiaggia italiana è la stessa (perlomeno è molto simile a quella) che il bambino medesimo scatena alla fine della storia; e il lettore è invitato a valutare in modo fluido il nesso continuità-discontinuità attivo fra gli opposti momenti del racconto. Può discenderne un effetto imbarazzante: di mancata comprensione, di vaghezza tematica. Un racconto grafico narrativamente non ridondante appare spesso un rebus.
Ma è forse un rischio da correre, almeno quando ci si rivolge a un lettore partecipe, interessato allo specifico del codice in gioco. L’alternativa «meta» sembra invece una scorciatoia: una toppa sin troppo visibile, sin troppo autoritaria. Come accade in una parodia di Otello fatta molti anni fa da Paolo Bacilieri (Otello 91, nel 2004 raccolto in Barokko): la fonte funziona meglio se è molto chiara ed è rovesciata ludicamente, facendo di Jago un fallito, di Otello un uomo senza sentimenti e di Desdemona una moglie felicemente infedele. La seriosità, l’eccesso di metanarrazione – a me sembra – giovano soprattutto all’aureola che consacra l’autore, e non fanno bene né a un’adeguata approssimazione al reale né alle sorti stesse del fumetto.