Le risorse del giallo a fumetti

La legittimazione del romanzo poliziesco, riverberandosi nell’intero sistema dei media, ha favorito un estensione e un consolidamento del genere anche nel campo del racconto a fumetti. Sull’onda della voga giallistica, si danno trasposizioni a fumetti di fortunati prodotti letterari, collaborazioni tra romanzieri e fumettisti, interviene insomma un avvicinamento reciproco tra letteratura e comics. Ma un simile processo di valorizzazione dà i suoi risultati più significativi con la riscoperta e la ristampa in volume di alcune importanti opere fumettistiche comparse su rivista già più di venti o trent’anni fa.
 
Il successo e la rivalutazione toccati alla letteratura giallistica negli anni recenti sono dilagati ben al di là del mezzo romanzesco, che pure ne costituisce il motore primo.
Le varietà e le variazioni del genere hanno allargato gli orizzonti del reale che ammette di essere rappresentato attraverso il modello del racconto d’inchiesta. La plasticità del paradigma, insieme con la patente di legittimità letteraria, autorizza la sua estensione presso mezzi narrativi diversi dalla prosa di romanzo. Il fumetto, che almeno dagli anni sessanta del Novecento aveva alimentato alcuni dei prodotti più singolari dell’immaginario giallistico, in funzione di avanscoperta e anticipazione sperimentale, nel nuovo secolo non può fare a meno di recepire le suggestioni promananti dalla scrittura e dal cinema a tema criminale. Allo stesso tempo, la maturazione di nuove misure del racconto fumettistico ne determina per buona parte una ricollocazione merceologica e fruitiva: la cornice del graphic novel lo avvicina alle forme librarie e alle esperienze di lettura più rispettabili e titolate.
A segnalare la stretta parentela tra giallo romanzesco e giallo a fumetti si danno frequenti collaborazioni di romanzieri e disegnatori, che aprono nuove fortune ai personaggi già celebrati dalle opere letterarie. Si tratta talvolta di veri e propri adattamenti a fumetti, che denotano la volontà editoriale di mettere a frutto in maniera intensiva, mediante mezzi diversi e presso settori di pubblico contigui, la fortuna riscontrata dalle invenzioni romanzesche più efficaci. Il servizio reso all’arte fumettistica da molte di queste operazioni non è dei migliori, vista la funzione ancillare e di sostanziale ridondanza a essa riservata. Altre volte prevale il tentativo di dare ai personaggi letterari uno sviluppo in forma fumettata, peculiare al nuovo mezzo prescelto. Tra gli esempi meglio riusciti di simili convergenze creative, Alligatore. Dimmi che non vuoi morire’, frutto dell’intesa tra Massimo Carlotto e Igort, incontra un tale consenso di pubblico che, dopo la prima edizione Mondadori del 2007, viene rieditato da Coconino Press nel 2011. Così Igort, l’autore di uno dei noir a fumetti più ruspanti e apprezzati (5 è il numero perfetto), si presta a visualizzare le fisionomie e atmosfere consumate di Carlotto, uno degli hard-boiler di più sciolta e durevole vena. L’artificioso bozzettismo igortiano, rincalzato dalle sottigliezze bicromatiche del suo acquerello violaceo, si sposa appieno con gli stereotipi della «scuola dei duri», sapientemente adattati all’ambientazione mediterranea dal romanziere patavino-cagliaritano.
Tra le opere prettamente fumettistiche che concorrono all’arricchimento dell’immaginario poliziesco in anni recenti, se ne segnalano alcune articolate in pochi albi ad ampia cadenza. Sembra intervenire una serialità lasca, che punta senz’altro sul fascino di protagonisti ricorsivi, ma si svolge su tempi lunghi: congeniali piuttosto alle intermittenze della creatività autoriale, o agli imprevisti dell’organizzazione editoriale, che non all’affiatamento con un pubblico abitudinario. Pur rispondente a un profilo d’autore spiccato, verso una dimensione di popolarità sanguigna muove lo sceneggiatore Diego Cajelli nella serie Milano criminale, sdipanata da ultimo nei tre albi La città esige vendetta, con i disegni di Giuseppe Ferrario e i colori di Flavio Fausone. Il rifacimento a fumetti del genere poliziottesco qui si pone certo nella scia di Quentin Tarantino, ma per risalire alla sua matrice cinematografica subalterna: ai film degli anni settanta di registi come Umberto Lenzi, Enzo Castellari, Sergio Martino. La ricostruzione d’epoca è condotta con acribia certosina, e si estende nel paratesto dei singoli albi a rievocare mode, merci e iconografie coeve, dando luogo a una sorta di revival generazionale. Le strade, i cortili, i piazzali di Milano sono letteralmente ricalcati sulla documentazione fotografica del tempo, in una miscela di fotoromanzo e fumetto che approda a esiti di iperrealismo paesaggistico. Altrettanto studiate le venature pluridialettali dei dialoghi e l’impegno di verosimiglianza nella resa del tessuto storico-sociale: tra vecchia malavita, nuova immigrazione, protesta movimentista, traffici mafiosi, borghesia corrotta e intrighi dell’antistato. Vi spicca, per contrasto, la fedeltà oltranzistica alle convenzioni del genere, che si concentra nel protagonismo generoso e acrobatico degli ispettori Rosario Lorusso e Simone De Falco, uno biondo l’altro bruno, dai connotati rifatti sui volti dei divi Franco Nero e Maurizio Merli. L’impronta filmica del fumetto trae risalto dall’assoluta prevalenza di vignette rettangolari larghe quanto la pagina, incolonnate a mimare il succedersi dei fotogrammi sul grande schermo. A ciò si aggiungano effetti di sfocatura degli sfondi che esaltano la mimesi ottica e insieme l’enfasi dell’azione in primo piano. La conseguente semplicità d’impostazione della tavola accresce lo scorrimento serrato del racconto.
Tutt’altra miscela di atmosfere, tra Storia con la S maiuscola e religiosità eterodossa, si respira nelle avventure di Jonah Martini: investigatore di miracoli per conto del Vaticano nell’Italia d’anteguerra, concepito da Alex Crippa. Dall’uno all’altro dei due albi sinora apparsi sotto il suo nome per le edizioni ReNoir, In nomine patris (con disegni di Alfio Buscaglia) e Gli eletti (con disegni di Sergio Gerasi), la vena scettica dell’ex sacerdote va stemperandosi, ma non abbastanza da cedere alle montature e alle ipocrisie di coloro che pretenderebbero una consacrazione ufficiale delle proprie infamie. Nella sfera dell’irrazionalismo religioso si agitano moventi e impulsi di ben soda fondatezza, sotto il segno del provincialismo fascista in un caso, dell’eugenetica nazista nell’altro. Mediante l’ascolto sagace e la prestanza fisica, Jonah Martini riesce a smascherare il germe di corruzione che s’insidia nelle piccole comunità paesane da lui indagate. L’illusione miracolistica del paradiso, seppure non esclusa per partito preso, non trova ricetto tra le banalità del male storico.
A psicologie e dinamiche d’intreccio più sofisticate punta Luigi Bernardi in Carriera criminale di Clelia C., dove la pervasiva criminalizzazione della realtà napoletana è raccontata dall’interno, secondo la prospettiva femminile e il monologare insistito di un’orfana di camorra. La ciclicità della diffusione seriale qui è soppiantata dalla partitura di vasto respiro propria del graphic novel: l’ambizione della proposta d’autore vi acquisisce maggiore evidenza, tuttavia il racconto verte ancora su un personaggio di forte presa, dal percorso scandito in sequenze lineari consecutive. Clelia, figlia di un colletto bianco della malavita, decide di abbracciare l’eredità paterna: il suo movente primo è la vendetta, ma insieme si applica metodicamente a coltivare un impero economico fondato sul tradimento e l’antagonismo fra i clan. L’alienazione di Clelia procede a tappe forzate attraverso il sesso strumentale, gli omicidi assaporati in prima persona e la strage su commissione. L’odio che spinge il suo progetto camorristico sino a termini di ipertrofia finanziaria internazionale si rovescia con grandiosità avveniristica sulla stessa città di Napoli: Clelia è capace niente meno che di far saltare per aria il Vesuvio. La confluenza tra criminalità organizzata e capitale finanziario globale smarrisce nella sceneggiatura di Bernardi, nei volti squadrati e nei punti di vista sghembi disegnati da Grazia Lobaccaro, ogni connotato realistico, per farsi neofeuilleton apocalittico.
Per cogliere i risultati più significativi del nuovo poliziesco italiano, in realtà, occorre rivolgersi alle riscoperte e ripubblicazioni di fumetti che erano apparsi su rivista già qualche decennio fa. La loro raccolta in volume librario conferisce, insieme con l’approssimarsi ai formati e alle forme della letteratura, una visibilità e una permanenza che la stampa periodica non permetteva di raggiungere. Anche nell’universo fumettistico il genere giallo, in virtù del recente apprezzamento, ha modo di guardarsi alle spalle e ricostruire una propria genealogia. Altai & Jonson, di Tiziano Sclavi e Giorgio Cavazzano, viene pubblicato tra il 1975 e il 1985, prevalentemente sul «Corriere dei ragazzi»: nel 2006 i suoi episodi vengono raccolti in volume unico nella collana «Alta Fedeltà» di Edizioni BD. Motivi di trasgressione sottile vi appaiono mitigati sotto le parvenze della convenzionalità e serialità meglio decifrabili. Il poliziesco è aggiornato secondo tratti di derivazione filmica e telefilmica, ma è soprattutto il registro comico a riorientarne le convenzioni: verso esiti di demistificazione sorridente e giocosità metanarrativa. La coppia di detective non potrebbe essere meglio assortita: il pistolero texano Sarno Jonson, tutto baffi cappello stivali, si accompagna al ciuffo scarmigliato e ai sandali hippy di Michael Altai. Il vigore e la prontezza dell’uno tendono da principio a imporsi baldanzosamente, anche se poi sono la flemma e le inaspettate frequentazioni dell’altro a produrre qualche risultato utile. Si tratta di una coppia scalcagnata, povera di clientela ovvero ingaggiata da clientela insolvente, abilissima a incappare nel colpevole ma incapace di concludere l’indagine senza riportare danni. La città di San Francisco fornisce le pendenze vertiginose dove lanciarsi all’inseguimento a bordo di uno sferragliante Maggiolino e affrontare i malfattori in omeriche scazzottate. Nonostante lo sfoggio di pistoloni ragguardevoli, i caduti non sono frequenti: gli eccessi iperbolici dello scontro fisico e dell’intrigo truffaldino finiscono col mettere fuori gioco sia gli investigatori sia i malviventi. La stilizzazione disneyana di Cavazzano, d’altronde, tende a escludere ogni seriosità drammatica. I casi si risolvono perlopiù con la neutralizzazione dei disonesti, anche grazie all’intervento delle rivali forze dell’ordine, mentre lo scorno accompagna regolarmente i due poliziotti privati, che perlomeno sanno prenderla con filosofia. Il compenso ricavato dalle loro investigazioni è di norma così inconsistente, che finiscono col guadagnarsi fama di filantropi. L’alacrità delle trame si risolve nel giro di poche pagine, dove gli estremi dell’avventura e della dabbenaggine sono stemperati dalla reiterazione dei tormentoni caratterizzanti e dall’allusività citazionistica. Proprio qui, nello sminuirsi ludico-ironico del modello di genere, si lasciano intravedere gli sviluppi postmoderni delle creazioni di Sclavi.
Del tutto al di fuori della serialità si colloca, per contro, una trasposizione che risale agli anni dello sperimentalismo fumettistico più audace. Anch’essa anteriore a qualunque canonizzazione del romanzo poliziesco, supera di gran lunga le odierne sinergie tra romanzieri e fumettisti. Si tratta della Dalia azzurra di Filippo Scozzari, dal testo omonimo di Raymond Chandler: generata dietro sollecitazione di Oreste del Buono, pubblicata a puntate su «Frigidaire» nei primi anni ottanta e riproposta in volume dall’editore Coniglio nel 2006. Le premesse sembrerebbero quanto mai infelici, un araldo della trasgressione a fumetti abbinato al classico dei classici hard-boiled. Il risultato, nonché un’impossibile cooperazione transmediale e transgenerazionale, è un cozzo di vocazioni contrapposte: dove l’investigazione dello squallore relazionale tratteggiata da Chandler si amplifica nelle tavole malevole di Scozzari, nella sua fisiognomica volta all’espressionismo grottesco e nel suo controcanto metafumettistico di gusto pirandelliano. Le convenzioni del racconto hard-boiled, quali figurano nella loro codificazione originaria, sono assunte da Scozzari a strumento di impietosa raffigurazione morale e in pari tempo a oggetto di canzonatura e travisamento visionario.
Un altro esito tra i più notevoli della narrazione giallistica a fumetti risale di nuovo ad anni che precedono e preparano la legittimazione del genere: è il Barokko di Paolo Bacilieri, i cui racconti vengono raccolti in volume da Black Velvet nel 2004, ma erano apparsi in Francia per la prima volta su «(A Suivre)» tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta (in Italia su «Comic Art») e poi come albo presso Casterman nel 1993. Di quel periodo lo scrupolo iconografico di Bacilieri ripete e caricaturizza le tendenze di costume più dozzinali, a cominciare, letteralmente, dalla dettagliatissima galleria di look e divise metropolitane. L’investigatore privato Mario Barokko perde il lavoro poiché l’agenzia di cui è dipendente viene chiusa per condotta deontologica scorretta: prova allora a riciclarsi come ladro occasionale, guardia del corpo, fotografo, secondo le competenze già maturate nell’ambiguo lavoro precedente. Il suo ruolo è talora di catalizzatore involontario dei fatti di violenza che esplodono nella storia, talaltra di testimone marginale: il mestiere di Barokko, che partecipa volentieri della burinaggine imperante, costituisce comunque una sorta di viatico alla rappresentazione autonoma di psicologie truci e vicende efferate. La trama investigativa non è più che accennata, per lasciare campo allo spontaneo intrecciarsi di pulsioni al consumo e alla consunzione, che riguardano la più intima sfera di relazione come i più estesi legami di ordine socioeconomico. In questo senso, il ridimensionamento se non proprio l’accantonamento della cornice poliziesca, che fornisce peraltro la chiave della rappresentazione, richiama l’Alack Sinner di Munoz e Sampayo, a sua volta ex investigatore adottato come testimone congeniale all’esplorazione crudamente realistica della contemporaneità metropolitana (su di esso cfr. Tirature ’07; le sue storie sono riproposte in più albi di grande formato tra il 2007 e il 2009, da Nuages). L’attenzione sociologica di Bacilieri si riscontra ancora nella funzionalità spiazzante dei paesaggi urbani, che campeggiano entro la tavola intrecciati a sequenze sceniche di portata più ristretta: in modo che il dialogato proceda fuori campo, senza visualizzare i personaggi protagonisti, anche quando l’angolazione prospettica si allarga improvvisamente ad abbracciare intere periferie e apparizioni umane estranee agli avvenimenti principali. I ceffi inebetiti e gli atteggiamenti coatti dei personaggi, vittime e colpevoli insieme, acquistano risalto dall’ispessimento dei profili e dall’incisività del tratteggio reticolare che sfaccetta il modellato. L’attitudine di Bacilieri al poliziesco si manifesta in forme di racconto più composte e riconoscibili mediante «Napoleone», figura e serie bonelliana ideata da Carlo Ambrosini sul finire degli anni novanta. Qui il profilo dell’investigatore «dilettante», che opera a Ginevra in collaborazione con le forze di polizia ufficiali, è rimotivato non solo dalla sua attività di albergatore, ma soprattutto dalla proiezione allegorica delle sue facoltà inconsce, che vengono impersonate da tre figurine fatate e danno luogo a un secondo livello di racconto, in forma di teatralizzazione psicanalitica. Bacilieri si appropria a tal punto del personaggio e delle consuetudini popolari di casa Bonelli da comporre integralmente, sia come sceneggiatore sia come disegnatore, alcuni albi, che sono anche raccolti e ripubblicati presso Rizzoli Lizard (come Napoleone nel 2010).
Insomma, la dimensione seriale che amplifica il successo di numerosi investigatori romanzeschi, spesso in abbinamento a una sicura progettualità d’autore, è la medesima che gioca un ruolo fondativo di tanto immaginario fumettistico. E proprio nel regno disneyano della serialità, d’altronde, che si colloca una delle iniziative poliziesche di portata più dirompente, rivolta com’è a un pubblico in larga prevalenza infantile, allevato nella bambagia della consuetudine mitografica: il «Mickey Mouse Mystery Magazine», impostato dalle sceneggiature di Tito Faraci e dalle matite di Sergio Cavazzano, e pubblicato tra il 1999 e il 2001. Gli elementi di discontinuità entro la continuity topolinesca sorgono anzitutto dalla dislocazione delle avventure d’indagine nella città di Anderville: un concentrato dello spazio metropolitano americaneggiante, dove i cattivi sono più cattivi, i crimini presentano sostanziose complicazioni industriali e finanziarie, e lo stesso Topolino smarrisce una buona parte del suo candore vincente per trarsi d’impaccio in maniera più perplessa e problematica. Uno dei paladini della colonizzazione culturale statunitense incontra così una sorta di nemesi per mano dei più valenti autori italiani della Walt Disney Company Italia Spa, paradossalmente a forza di americanismo criminal-poliziesco.