L’unica forma d’arte figlia del nostro tempo

In principio era Maus: il fumetto dimostra di poter essere storia orale e riflessione antropologica; di poter affrontare argomenti gravi e gravissimi; di poter competere con romanzi e film, apparendo persino più profondo e necessario, più fortemente evocativo e riflessivo. Oggi non c’è campo del sapere con il quale il graphic novel non abbia voluto cimentarsi (fino alla rappresentazione visiva del nascosto e dell’inespresso) o genere letterario o cinematografico di cui non abbia cercato di riprendere la tradizione adattandola al suo specifico, a volte con molta maggior libertà della letteratura.
 
Uno storico della cultura la cui vista non sia appannata dallo specialismo e dalla convinzione che il suo campo di studio è quello centrale per l’interpretazione di un’epoca, dovrà necessariamente considerare il graphic novel – accettiamo di chiamarlo così perché «romanzo a fumetti» fa troppo pensare a «Grand Hotel» e ai fotoromanzi del secondo dopoguerra – come uno dei più vitali e interessanti «mezzi di comunicazione» e, soprattutto, espressioni artistiche degli ultimi decenni, almeno dalla pubblicazione di Maus di Art Spiegelman in avanti. Maus dimostrò anche ai più ottusi tra i critici che il fumetto poteva essere qualcosa di diverso da quello gradito ai bambini e agli adolescenti e amato dai nostalgici della propria infanzia e adolescenza, un fumetto sempre seriale, «a puntate», e avventuroso o umoristico secondo convenzioni narrative ereditate dalla letteratura dell’Ottocento e raramente baciate dal soffio di un’ispirazione visiva o narrativa di qualche affinità con le ricerche contemporanee delle arti dette maggiori («Krazy Kat», «Little Nemo»…). Con Maus, il fumetto poteva essere storia orale e riflessione antropologica, poteva affrontare – nei modi, propri al fumetto tradizionale, delle serie di immagini accompagnate dai balloons, appunto i «fumetti», disposte in modi regolari e conseguenti all’interno di una pagina – argomenti gravi e gravissimi, toccati di solito da saggi, romanzi e film molto ambiziosi ma solo in modi indiretti e «infantili» dal fumetto. Poteva competere, insomma, con quanto di meglio, su quel tema, avevano dato le altre forme espressive e persino apparire come un’opera più profonda e necessaria, più fortemente evocativa e riflessiva di molte tra quelle.
Maus non è stato il primo graphic novel, né il primo che rispondesse a requisiti così ambiziosi, ma fu certamente il primo a suscitare un così vasto interesse fuori del suo settore, oltre gli abituali cultori del fumetto. Uscì in volume nel 1986, in Italia nel 1989, ma già gli intenditori lo conoscevano e ne parlavano, da noi, su riviste come «Linus» o «Linea d’ombra». Ed ebbe come effetto, graduale ma rapido, in molti paesi e in particolare nel nostro, la nobilitazione di un campo della creatività artistica, il riconoscimento della sua validità, della sua diversità ma anche del suo intreccio con altre arti e forme d’espressione e con altri campi del sapere. Non solo la pittura, la grafica, il cinema, anche la letteratura e la storia, e via via la sociologia e il giornalismo, la psicologia e la psicanalisi, le scienze e la religione… non c’è campo del sapere con il quale, oggi, il graphic novel non ha voluto sposarsi, cimentandosi in imprese a volte al limite dell’impossibile, come è della rappresentazione visiva del nascosto e dell’inespresso, dell’apparentemente irrappresentabile.
Non c’è genere letterario o cinematografico classico di cui il graphic novel non abbia cercato di riprendere la tradizione adattandola al suo specifico e al presente, a volte con molta maggior libertà della letteratura, che si è limitata a inserirvi la politica nelle forme del noir – un sottofondo anche questo non nuovo, e coniugato anche nel fumetto sulla linea di un giornalismo chiassoso che si presume «disvelatore» o nei modi dell’inchiesta giudiziaria, efficaci per catturare l’attenzione dei lettori e per sembrare attuali ma raramente al giusto grado di lucidità (dopo gli anni cinquanta, poco di radicalmente nuovo è stato fatto nel noir, a parte Derek Raymond). Lo stesso giornalismo d’inchiesta o d’ambizione sociologica ha messo radici nel fumetto con risultati egregi, perseguendo un tipo di realismo che non ha però mai prodotto e forse non poteva produrre, sollevandosi sul giornalismo e sul diario, nulla di simile, mettiamo, ai reportage di un Kapuscinski o ai romanzi di spionaggio di un Greene o oggi di un le Carré. Come è stato del cinema ma non è della letteratura, il graphic novel ha dimostrato poco interesse per il melodramma, per la storia degli impedimenti politici, economici, etnici, religiosi, psicologici… – che si frappongono alla felicità individuale e di coppia, e l’amore, terreno ideale e idealizzato per esempio del fotoromanzo, non ha trovato nel fenomeno del graphic novel un riscontro significativo, piuttosto sfondo o dato secondario che non motore e guida di una vicenda. Però il romanzo più genericamente sentimentale fa parte anch’esso dei nuovi territori del graphic novel, bensì in termini di commedia, anzi di «commedia di situazione» o sit-comedy.
È talvolta difficile distinguere cosa vi è nel cinema di novità o di remake aggiornato e impoverito, devitaminizzato, di storie di formazione e di autobiografismi familiari, mentre nel fumetto questo è uno spazio nuovo e ricco di proposte, che parte da una riflessione disincantata su di sé e sul proprio contesto, che fa invece la forza del fumetto autoriflessivo nei suoi esempi migliori, che è spesso amaro e crudele oltre ogni acquisizione psicanalitica. La psicanalisi, infatti, è presente nel fumetto odierno solo genericamente, come retroterra culturale assorbito ma non determinante, nelle autoanalisi di molti artisti legati alla propria soggettività, tardo «minimalisti».
Quel che in questo filone è evidente è piuttosto la percezione di un solipsismo, di un ripiegamento su di sé, che fanno bensì parte della cultura giovanile di questi ultimi tre decenni, oltre ogni caratterizzazione in termini di cultura nazionale: dal Giappone all’Italia, attraversando le nazioni e lasciando per ora ai margini soltanto quel che conosciamo del fumetto africano. Ma ovviamente non si tratta, data la specificità del fumetto, soltanto di forme del racconto, si tratta anche di forme della visione.
Il soggetto e la sua «continuità», la sceneggiatura, contano enormemente, ma conta altrettanto – a volte di meno, a volte di più – il disegno, il modo in cui una storia (o una fantasia, un’irrealtà, un’intuizione – e una speranza o un’angoscia, una «visione del mondo») prendono corpo e colore, scansione e contrasto, luce e ombra, ritmo e pausa, flusso e movimento, velocità e apertura e chiusura. E qui il discorso prende una nuova strada, perché certi «generi» del graphic novel non sono affatto riconducibili alla tradizione letteraria e cinematografica (se non quelle iperminoritarie delle avanguardie poetiche in letteratura e del disegno animato nel cinema) e osano raccontare le loro storie con il solo apporto dell’immagine, per di più di un’immagine non antropomorfa, non realistica.
Non sono le forme più diffuse, ma certamente – dato anche il tipo di studi da cui i fumettisti che hanno studiato provengono, quello delle scuole d’arte – l’incontro tra esigenze meramente formali e bisogno di costruire comunque un racconto, una sorta di racconto, determina una sperimentazione incessante, una ricerca di originalità, e accessoriamente di coerenza dentro questa originalità, dentro questa personale scelta di campo, una propria lingua che possa rompere le convenzioni accreditate anche nel campo del «nuovo». Il graphic novel si permette cose che la letteratura e il cinema non si permettono mai o quasi mai (nei loro margini estremi) – condizionate come sono da un pubblico, da un mercato, da un sistema economico-sociale della comunicazione. Il graphic novel offre la possibilità di una libertà vastissima, anche a confronto della produzione attuale di arte offerta da gallerie e musei, condizionata da mode e da mercati molto pressanti, chiusi e aristocraticamente ottusi.
Insomma, la novità portata dal graphic novel è di due tipi:
1) rinnovamento ed esplosione di un medium che si dimostra concorrenziale con tutti gli altri e molto più libero e aperto della letteratura, del cinema, del teatro, del giornalismo, della stessa musica, al racconto del presente e secondo l’ottica – la libertà – di generazioni nuove, che ridono delle convenzioni idealistiche sulla superiorità di un genere su un altro;
2) ingresso nel campo delle arti adulte con una prepotenza e libertà di sguardo, anzitutto generazionale, da trent’anni in qua, per la capacità di reinventarsi e di inventare a confronto con la più bruciante attualità ma anche con le più ardite o amare delle filosofie del presente, e del futuro che ci si prepara. Il graphic novel è diventato in tal modo un campo di battaglia delle nostre paure e delle nostre aspirazioni. E anche, non di rado, delle nostre velleità, della nostra stupidità…
Ci sono molti artisti di una certa età e ancora di più della mezza età, tra gli autori del graphic novel. Ma la stragrande maggioranza di essi conta dai venti ai quarant’anni, è cresciuta e si è formata in una delle più radicali mutazioni della storia, all’inizio di un’era detta giustamente postmoderna, dove i condizionamenti materiali e spirituali messi in atto da un potere sempre più astratto e anonimo, la finanza, hanno agito in profondità sulle coscienze per il tramite dell’informazione e del mercato: consenso e consumo come intreccio alienante e micidiale alla conquista di ogni coscienza.
E stato ed è ben difficile per tutti liberarsi di quei condizionamenti, dichiararsene esenti. Anche nelle arti – non a caso prigioniere come non mai di una programmazione dall’alto accanita e ossessiva, di una pubblicità che ha fatto leva sul narcisismo dei singoli e sul loro (indotto, stimolato) bisogno di apparire e di possedere prima che di essere. Che ci siano stati dei giovani che hanno cercato strade nuove, modi nuovi di raccontare, raccontarsi, esplorare, inventare per sé e per tutti, a me pare quasi miracoloso. Così come mi pare miracoloso che ci siano, oggi e proprio oggi, dei giovani cresciuti dentro questo sistema che, di fronte alla sua crisi, gli si ribellano coscienti che esso ci ha proposto e propone non altro che il suicidio della specie o la morte del pianeta per il solo e temporaneo vantaggio di un drappello di manipolatori, di un superpotere da fantascienza, nel sonno della coscienza dei dominati.
Artigianale e povero nei suoi mezzi, libero nella sua possibilità di creare, il graphic novel ha saputo, almeno sinora, darci una messe di opere di grandissima varietà e libertà espressiva, esplorando probabilmente l’unica forma d’arte figlia del nostro tempo e adeguata al nostro tempo, ma nella cosciente critica e, spesso, nel rifiuto di accettare il mondo così com’è.