Chiara Gamberale e l’amore ai tempi del supermarket

Fra le cinquanta sfumature del genere rosa, che ossigenano le lettrici e i bilanci delle case editrici, figura una narrativa di Chiara Gamberale alquanto stinta. A differenza che in opere precedenti, di buona fattura e anche illuminanti sul kamasutra sentimentale, in Quattro etti d’amore, grazie la scrittrice romana delude: la facilità narrativa correlata all’autodiegesi scade in un diarismo di marca adolescenziale, piuttosto stucchevole e soprattutto difficile da reggere se protratto per buona parte del romanzo.
 
A prevalere, nel lettore avvertito che accosti l’ultimo romanzo di Chiara Gamberale, è un sentimento di sconforto. Se non già a cominciare dal titolo sinestesico e melenso (Quattro etti d’amore, grazie), o dall’immagine di copertina che ritrae una bella addormentata in un bosco, gli basta una manciata di righe per intuire che difficilmente ne trarrà un godimento estetico, morale o formale. Secondo me indovinandoci. Ma a questa lettura sconfortata, se si vuole pregiudizievolmente disapprovante, fa da contraltare quella confortevolissima e rassicurata dei lettori e più certamente delle lettrici che hanno eletto Quattro etti d’amore, grazie a libro da classifica.
Il romanzo è strutturato per contrappunti, con agili capitoletti in forma di diario alternativamente affidati alle penne delle protagoniste Erica e Tea. Le due, senza conoscersi e fingendo di ignorarsi, si sfiorano al supermercato e proprio dallo spiare le reciproche spese prendono spunto per riflettere e contrario sulle proprie scelte di vita. Erica e Tea non potrebbero guardacaso essere più diverse, tratteggiate sulla logora filigrana che contrappone la puttana e la santa. Altrettanto stereotipi sono i reticoli relazionali centrati su di loro, costruiti su giochi di specchi e di riflessi. Così per esempio i rispettivi mariti, scelti secondo il criterio del chi si somiglia si piglia, e così le rispettive madri, che invece sono l’opposto delle figlie: da un lato vi è la tetragona madre di Tea, «una che non fa brutti scherzi»; dall’altro quella di Erica, un’eccentrica e tatuata «signora da sopportare» che vive a Formentera accessoriata di toy boy. Simili simmetrie sono tutt’altro che infrequenti e riguardano anche eventi minimi, a dire delle vite parallele delle due e della telepatia che le lega. La precisione è tale che sarebbe interessante capire se tanta diligenza venga perpetrata con premeditazione oppure se rovini sulla pagina senza sforzo, lasciando correre la fantasia entro binari ultraconvenzionali. A ogni modo, gli è che questi intagli more geometrico scalfiscono la verosimiglianza della storia e le precludono l’integrità romanzesca, intesa come «la convinzione che [il romanziere] ci comunica di dire la verità» (Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé).
Erica e Tea, dicevamo, incarnano due stereotipi alternativi di donna. Alternativi, ma non antagonistici: il familismo borghesemente progettuale di Erica (nome di una pianta dalle fioriture durevoli) e la bohème individualistica di chi come Tea porta il nome di una rosa sono assimilati sotto il segno dell’insoddisfazione e dell’invidia per ciò che a loro manca e che suppongono sia posseduto dall’altra. Erica vorrebbe da Tea «un barattolo della sua stranezza, della sua eccezionalità», mentre Tea implora alla forza «calma e dolce e bionda» di Erica i quattro etti d’amore del titolo. Nessuna delle due manca di sensibilità e Gamberale – che evidentemente, oltre che per sua esplicita ammissione, ritroviamo dietro Tea – è solidale con le ragioni di entrambe, autorizzando la lettrice a identificarsi (ora) nell’una e (ora) nell’altra.
Erica è moglie, madre di due pargoli e bancaria a posto fisso. La sua vita è allietata da fugaci, semiclandestine evasioni su Facebook e da appuntamenti con la sua serie televisiva preferita, di cui è protagonista Tea, che venera. Tea dal canto suo ricambia l’ammirazione per Erica: le appare come «una fata che tutto può trasformare, tutto può inventare» e la soprannomina «Signora Cunningham», come la madre-chioccia della serie Happy Days. Erica racconta entusiasmata di piccole buone cose, ma i suoi toni sovrapartecipati, che possono apparirci fino ridicoli, sono resi senza ironie né interferenze con il punto di vista dell’io narrante. Le lettrici simili a Erica (tutte?) sono salve. Sul versante opposto sta Tea: «Una figlia di papà, egocentrica e inutilmente complicata: delle peggiori», come viene schizzata nelle parole adirate del suo migliore amico, naturalmente gay. Dopo un’adolescenza segnata dalla cleptomania e dopo alcune esperienze teatrali, Tea è finalmente sulla cresta dell’onda grazie a una serie televisiva di successo. Descritta dai rotocalchi come una mangiauomini con l’hobby di innamorarsi, Erica le invidia il naturale magnetismo e l’allure di stravagante artisticità che, per dirne una, la fa avvistare al supermercato in pigiama. Quanto il carrello della spesa di Erica è rassicurante e pieno di bene, tanto quello di Tea è desolato, lasciando immaginare diete ferree (è in effetti magrissima) o serate regolarmente mondane.
Entrambe le protagoniste sono al centro di triangoli amorosi, anche se quello di Erica lo è per modo di dire. Lei è sposata con Michele, prototipo del più solido dei mediomen. «Serio, però anche sorridente, allegro, ma senza esagerare», a Michele sono dedicati pochi didascalici cenni e non ne abbisognerebbe in aggiunta: «E comprensivo, è attento, curioso», «indistruttibile», «buono e giusto»; grande lavoratore e di bell’aspetto, con lui si fa, non troppo spesso, del sesso onesto. A interferire blandamente con il loro matrimonio è Davide, un ex compagno di classe di Erica riesumato grazie a Facebook. Qualche chattata e un’unica, amichevole uscita al cineforum bastano a Erica per catapultarla in un infernetto di tediosi rimorsi.
Il polo istituzionale del secondo triangolo è invece occupato da Riccardo, docente universitario e drammaturgo in stallo. Con prevedibile gioco di specchi, Riccardo è uomo dalle reazioni fuori misura, consapevolmente problematico, affascinante nei suoi chili di troppo e nella sua trasandatezza: un «cinquantenne scassato e, ammettiamolo pure, geniale» che aveva innamorato Tea quando era sua allieva all’università. Il rapporto fra i due è di quelli necessari, tinto di masochismo. Tea riconosce nel marito un «torturatore perverso, senza cuore» e «un depresso cronico capace solo di pensare agli affari suoi», ma a lui la lega anche un sentimento di attaccamento filiale/materno: verso un padre che sa comprenderla e verso un figlio fragile, da proteggere. Senza dubbi creatura d’amore è invece Anthony, il superfusto mezzo americano e mezzo napoletano con cui Tea tradisce Riccardo. Il ritratto di Anthony, come i precedenti, poco concede ai chiaroscuri e appare cavato a contrasto su Riccardo. Maskio con la k e dio del sesso, Anthony e il suo «pisello belisimo» (sic, autocertificazione) sono capaci di «fare venire il cuore» di Tea, che invece con Riccardo batteva la fiacca. Personal trainer che mangia sano e vive sano, ha la pelle lialescamente profumata, mentre Riccardo odora «di tabacco e male d’esistere»; e mentre Riccardo la parola amore non vuole neanche sentirla nominare, tanto da coniare bamore per riferirsi a quella cosa lì, Anthony è un allegrone «ostinatamente romantico», sennonché la sua positività risulta un po’ ottusa, illuminata al neon, stereotipicamente americana.
Come è caratteristico del rosa, la trama del romanzo è esile. Erica registra piccole vicissitudini quotidiane, interrotte solo da una rapina nella banca in cui lavora, il cui ricordo la perseguita. La vita di Tea è invece più movimentata, ma non tanto dai tradimenti, routinari, quanto dai litigi con il marito che sfociano nell’abbandono da parte di quest’ultimo. Riccardo infatti, ulcerato dai propri insuccessi e dalla sfolgorante carriera televisiva della moglie, si prende via per una signorina semplicina in grado di ristabilirlo nella sua statura. Se i due torneranno insieme, non è dato sapere: pur riconoscendosi oscuramente dipendenti l’uno dall’altra, Tea e Riccardo affidano la decisione a una monetina lanciata per aria e il romanzo si chiude prima che atterri. Il finale rimane aperto, ricapitolando così al punto di partenza e consegnandoci un senso di vaga consolazione: il ritorno allo status quo iniziale, problematico ma meno impegnativo di una scelta di vita rivoluzionaria, sgrava dal peso di una decisione. Come si ripete in tre luoghi diversi del libro, quasi un mantra, «avere un matrimonio felice è una fortuna, non un merito», e dunque alla fortuna pare ragionevole affidarsi.
Le pagine di Quattro etti d’amore, grazie vanno al rimorchio dei rovelli interiori delle protagoniste. Più che una trama vera e propria, è difatti possibile individuare alcuni temi e spunti di riflessione, benché non originalissimi e già ampiamente frequentati da Chiara Gamberale. Vi è in primo luogo la proverbiata erba del vicino, innestata in quella Zona cieca (ciò che gli altri percepiscono in noi e di cui noi siamo inconsapevoli) che nel 2008 dava il titolo a un romanzo di Gamberale e che nel 2010 apparirà ancora centrale nelle Luci nelle case degli altri. L’insoddisfazione e le perplessità sulle proprie scelte di vita hanno una matrice voyeuristica, sempre la stessa delle Luci, e nella fattispecie sono instillate dal carrello della spesa della coprotagonista spiata. Che siamo (anche) ciò che compriamo e mangiamo, non è certo intuizione nuova; piuttosto, sarebbe forse stato più significativo insistere sul momento dei conti, quando ci si può accorgere che nel carrello alcune cose sembrano esserci finite da sole. Il carrello, si parva licet, diventa il correlativo oggettivo delle nostre scelte, di quelle consapevoli ma anche di quelle inerziali: perché distratte o semplicemente più comode, oppure irriflesse perché ritenute necessarie, spesso a torto.
Un’aura necessitante pervade i romanzi di Chiara Gamberale e si traduce nel buonismo con cui tratteggia i personaggi, senza distinzione fra positivi e negativi. Impossibile imbattersi in un villain o in una strega cattiva. Nel suo universo romanzesco sono tutti innocenti, e incolpevoli anche quando sbagliano, perché non possono essere altrimenti o perché portati a determinate scelte dalle circostanze e dal proprio vissuto. L’unica via perseguibile è allora quella dell’accettazione rassegnata e della comprensione, dato che ognuno ha le proprie motivazioni e che in tutti e «dappertutto c’è del bene, dappertutto c’è del male» (Le luci nelle case degli altri). Il cambiamento e la redenzione non sono irrealizzabili, ma si rivelano prerogative femminili. In Quattro etti Tea matura quasi suo malgrado, come la Wendy della favola di Barrie, che «non lo fa apposta ma lo fa, e cresce», ed è proprio la sua crescita a determinare la rottura con Riccardo/Peter Pan, ormai attempato e inguaribile kidult. Nei romanzi di Gamberale, come cantavano, «gli uomini non cambiano»; se in qualche raro caso ci riescono, è solo grazie all’intervento maieutico, faticoso e ostinato di una donna: così Aleté che guarisce Paolo in Color lucciola e così Lidia che nella Zona cieca riesce a redimere Lorenzo (anche se lo scopriamo solo nelle Luci nelle case degli altri, dove ritroviamo i personaggi).
Come in ogni buon rosa che si rispetti, in Quattro etti d’amore, grazie i personaggi femminili sono irretiti in planimetrie sentimentali spesso solitarie, il cui accesso è precluso ai maschi. A questi ultimi pertiene invece la sfera intellettuale e artistica: Tea fa l’attrice, è vero, ma il successo l’ha trovato nella popolare televisione e comunque «il Sindaco Del Paese Degli Artisti che sognava da piccola» rimane Riccardo. Allo stesso modo, sono pressoché sistematicamente maschili le figure di scrittori e artisti che compaiono, quasi un’ossessione o un marchio di fabbrica, anche negli altri romanzi di Chiara Gamberale. Se lo scrittore inevitabilmente abdica alla vita per abbracciare l’arte (fino alla sorta di autismo che paralizza Paolo in Color lucciola), mi pare significativo che all’unico esemplare di donna scrittrice, l’Amanda dell’Amore quando c’era, non sia mai stato pubblicato un libro. I soggetti femminili sono dunque più adatti a palpitare di vita, ma le donne si riscattano occupando il centro della scena quali oggetti descritti e fungendo da voce narrante in prima persona. Tranne che in Color lucciola e in Una passione sinistra, scritti in terza persona, e nell’Amore quando cera, moderno romanzo epistolare, negli altri libri la voce narrante è stabilmente femminile, passando da Chiara stessa (Una vita sottile) ad Allegra Lunare (Arrivano i pagliacci), a Lidia (La zona cieca), Mandorla (Le luci nelle case degli altri) e da ultimo, finora, Erica e Tea (Quattro etti).
La sensibilità delle donne le rende ancora una volta, secondo un ben collaudato topos rosa, superiori agli uomini. Riposto il sogno del principe azzurro, in Quattro etti chi esce meglio è il marito di Erica (affidabile, piacente, un filo noiosetto), mentre gli altri uomini sono variamente fallati. A tacere del fratello di Erica, che sta in rehab, e del miglior amico di Tea, omosessuale, gli «amanti» Davide e Anthony sono al fondo infantili e il loro entusiamo risulta senz’anima. Riccardo invece, declinazione dell’«emarginato per troppa cultura» (Pischedda, Tirature 2000), porta un groviglio tutto intellettuale e consapevolmente narcisistico. Persino il padre di Tea (quello di Erica ha fatto perdere le sue tracce) è ritratto con un misto di ammirazione e di delusione, il che lo differenzia da altre descrizioni paterne di Gamberale, tutte autobiograficamente protese in dichiarazioni d’amore. Con questi uomini in circolazione, i tradimenti sono leciti e difatti non vi è romanzo di Chiara Gamberale in cui non ve ne siano, senza che mai l’autrice li valuti negativamente o con disapprovazione. Ci sono, sono una cosa naturale. Solo che le donne, come Tea, vi sono condotte dal comportamento dei propri compagni (perciò giustificate), gli uomini da una tara genetica (altrettanto giustificati). Per esempio, nella Zona cieca, a Lidia che chiede al compagno di spiegarle i suoi ripetuti tradimenti, lui può rispondere candido: «Che c’entra. Quelle sono fiche inesplorate, il loro fascino sta nell’esotismo della novità», e Lidia non fa un plissé.
Se a un libro di intrattenimento non può certo imputarsi la mancanza di originalità, come neppure la circolarità tematica, in Quattro etti d’amore, grazie a non tenere è soprattutto la forma. La cavità consustanziale all’espressione diaristica porta Chiara Gamberale a rovesciare sulla pagina brani disomogenei. Tra i più ricorrenti vi compaiono resoconti cronachistici, volentieri elencatori (per esempio: «Poi sono corsa da casa al lavoro, dal lavoro sono corsa all’asilo di Gu, dall’asilo di Gu sono corsa a casa, da casa sono corsa a fare la spesa») e talvolta inclini a un irrilevante riempirighismo («Il marito della mamma della migliore amica di Viola l’ha lasciata per un’altra donna, l’insegnante di pattinaggio della sorella più grande della migliore amica di Viola»). Reiterati sono inoltre i soliloqui deliranti, come la seguente allocuzione in absentia: «Dunque perché? Perché insisti a volermi tua? A volermi te? Perché mi ami così? Non basta, papà. O forse è troppo. È troppo, tutto questo bene. Troppa, questa aspettativa. E poi ti credo che arriva la voglia del portafoglio degli altri. Dell’anima di chi forse nemmeno ce l’ha. Del colore di quel maledetto retro del cielo. Di un uomo che mi dia una cosa grande, ma anche di un altro che me ne dia un’altra, grande. Di raddoppiare l’esistenza. Ti credo, che arrivano quelle voglie lì, se mi pompi tutta quest’urgenza nelle vene. Ti credo, che arriva la pazzia».
Ma si considerino soprattutto le lagne straziate dagli a capo e ammannite in modo scriteriato, pressoché ad apertura di pagina, alle quali non sarebbe guastata una decisa rigovernatura editoriale. Anche in questo caso mi limito a un brandello cavato a caso (la barra obliqua, qui e oltre, segnala l’a capo): «Sono miei. / Sì. / Viola e Gu sono proprio miei. / Anche dal sottovuoto, soprattutto dal sottovuoto, devo saperlo sempre. / Miei miei miei miei miei miei miei. / Sono miei. / Devo saperlo. / Sempre. / Perché questo sarebbe l’unico vero pericolo. / Dimenticarlo».
Pure riconducibili alla cavità del diario, ma insieme a una consuetudine rosa di ascendenza appendicistica, sono le valanghe di dialoghi, declinati anche nelle forme trasmesse della telefonata e della chat, che insieme ai ritratti didascalici dei personaggi e all’atopia del racconto fanno pensare, più che a un romanzo, a una sceneggiatura (e allora magari non sarà proprio un caso se a tre mesi dall’uscita del libro, nel marzo 2013, Quattro etti d’amore, grazie sia sbarcato a teatro). I due io narranti si esprimono con lo stesso italiano basico, senza connotazioni né sociali né geografiche, e lo stesso vale per la mimesi degli altri personaggi. Unica eccezione è Anthony, il cui improbabile impasto di napoletano e americano dovrebbe forse muovere al sorriso («Perché tu ami lui also mo’, maybe soprattutto mo’, che se n’è juto»; ma simili mostri comparivano già in Arrivano i pagliacci, in Color lucciola e, estesamente, nella Zona cieca). L’attenzione al lettorato medio-basso porta a utilizzare un lessico più che elementare: si osa solo in un paio di casi, con anamnesi e con la proustiana madeleine, che ci si affretta a chiosare. Le zone diegetiche sono linguisticamente uniformi, fatto salvo che per una lieve indulgenza di Erica verso alterati tipicamente femminili in riferimento ai figli (per esempio «Ha soltanto dieci anni: stellina») e per un tic linguistico che, se ho contato bene, la porta a ricorrere all’esclamazione Dio mio! per trentatré volte. Più netta la differenziazione negli scambi dialogici, ancorché esclusivamente ottenuta tramite il pimento del turpiloquio: appaiono infatti più disinvolti gli scambi fra Tea e Riccardo (che parlano di «merda al tofu»; «idea del cazzo»; «salvarsi il culo»; «andare a puttane» ecc.), mentre Erica al limite si spinge a «cretino, scemo», «scemo totale». Quando, spazientita dal figlio, le sfugge un «Gu, ora basta, porca puttana!», ce n’è per inchiostrare alcune pagine, di sensi di colpa.
La dominanza mimetica e le colate di piagnistei trainano una sintassi ipersemplifìcata e parainfantile, spesso poggiata sullo stile nominale; l’emotività è resa tramite la punteggiatura enfatica, fra cui spicca inverecondo il punto fermo che isola un frammento in chiusura di frase: «A quel punto se ne discuteva. Tantissimo», «Non è a suo agio. Affatto» ecc. Naturalmente vi si ritrova pressoché al completo la batteria delle segmentazioni sintattiche e non mancano alcuni tratti del parlato montanti nell’italiano neostandard, quali le ridondanze pronominali, il cosiddetto che tuttofare («Vieni qui che ti do un bacio»), l’uso di gli per a lei, la negazione con il mica e compagnia cantante. Ma tranne che per mica, piuttosto ricorrente e generalizzato anche negli altri romanzi, questi tratti risultano statisticamente minoritari. Ciò che appare davvero caratterizzante, insieme alla sintassi in singhiozzi, sono piuttosto i continui ammiccamenti a un’immediatezza affabile e «parlata». Nel cedere la penna alle sue protagoniste, l’impressione è che Gamberale passi il segno e giunga a scimmiottarle, con il risultato di una cifra stilistica che pencola fra la sciatteria e il patetismo. A oltranzistica riprova di questo effetto verità, tanto immediato quanto antiletterario, sono chiamate a raccolta pattuglie di segnali discorsivi e di fatismi: «Oddio, che brutta figura: non può avere presente quel tipo di spesa, Davide. Lui vive da solo, poveretto. Per carità, c’è Billywilder. Ma per un gatto finita l’estate non c’è bisogno di spese tappabuchi. Certo che no», con esemplificazione anche in questo caso incrementabile a piacere.
Il diarismo e l’ansia di immediatezza portano a patemizzare la pagina con figure retoriche basate sulla ripetizione. Oltre alla calpestatissima scorciatoia stilistica dell’anafora, vi sono numerose riprese con intensificazione melodrammatica («il vero pericolo è uno, uno solo»), reduplicazioni («Michele è molto, molto geloso e non capirebbe che Davide Morelli è solo un caro, carissimo amico»), polittoti («Come lui non trovo pace, non la troverò mai»). Quindi parallelismi sclerotizzati («E poi tavola, a tavola: tutti a tavola. / Hanno bisogno di parlare, di ascoltare. Ascoltano, parlano»), infallibili e immancabili terne («fissa i suoi occhi stretti, lunghi, acquamarina nei miei. Stretti, lunghi, acquamarina») e trucchetti che portano alla mente certo canzonettese («quell’ansia di dirsi, quel bisogno di darsi»; «Nel buio impossibile che c’è. / Nel male impossibile che fa»). A squalificare la pagina e a far storcere il naso non è la presenza di questi effettismi, ma la loro tremendistica frequenza e co-occorrenza. Gamberale ne impiegava anche nei romanzi precedenti, soprattutto nel più dolorante La zona cieca – da cui Quattro etti non a caso ricicla spudoratamente temi e dinamiche –, ma questi facevano capolino anche in un romanzo di più saldo impianto come Le luci nelle case degli altri (vedi «Prenditi tutto il male che ho […], riprenditi tutto il male che fa»).
Se ce n’è d’avanzo per considerare evitabile Quattro etti d’amore, grazie, ciò rende ancora più urgente interrogarsi sul suo successo. L’abracadabra di Chiara Gamberale si avvale di gran parte degli ingredienti storicamente impiegati dal genere rosa: si tratta di un prodotto cucito sul lettorato di riferimento (le adolescenti, comprese quelle a vita, e le giovani donne di media cultura), reso accessibile grazie a emozioni e descrizioni tagliate con la scure e a una spiccata fruibilità linguistica; il narratore interno è femminile, solidale con le lettrici, e donne sono le protagoniste. Oliano i meccanismi identificativi il perdonismo trasversale, l’assenza di ironia e le continue strizzatine d’occhio alle ragazze comuni, soprattutto se più intelligenti che belle. L’affabilità profusa da Gamberale risulta così ulteriormente rassicurante in tempi in cui le scrittrici femmine si accostano all’eros in modo sempre più disinvolto, talora fino infastidente, e in cui a muoversi a passo di carica verso il regno del rosa sono piuttosto gli uomini: si ricordino almeno, da ultime, le ottime tirature di Io che amo solo te di Luca Bianchini. Lo sdoganamento del genere negli anni duemila (Giovanna Rosa, Tirature ’06) ha aperto a una vera «onda rosa» (Laura Cerutti, Tirature ’13) screziata in cinquanta e più sfumature, dalle più tradizionali tinte pastello al rosso fiamme d’enfer per tutte le età. In questo mercato Gamberale difende la nicchia dei «Sentimentalisti anonimi», come recita il titolo del suo blog sul portale di «Io Donna». E la difende innescando una piccola macchina da guerra, spalleggiata da un ufficio stampa come quello di Mondadori e da una non indifferente rete di amicizie, corroborata da numerose collaborazioni giornalistiche. Il nucleo dei lettori abituali – che peraltro circondano di caloroso affetto Chiara Gamberale, di bella presenza e di modi piacevoli, autrice e conduttrice di programmi radiofonici e televisivi – è infatti rimpolpato grazie a un’accorta operazione di marketing. Oltre che sulle presentazioni capillari, animate, all’insegna della condivisione, dai lettori stessi, e sul tam-tam orizzontale organizzato in Rete, Gamberale ha potuto fidare su una serie di recensioni nei maggiori quotidiani nazionali e persino di interviste al telegiornale. All’offerta non è insomma mancata occasione per vellicare la domanda dei lettori e per muovere copie. Non che questo basti a creare un bestseller, ma di sicuro aiuta.