Quando a scrivere sono i giudici

Da Ayala a Spataro, da Ingroia a Caselli, le librerie sono invase da titoli in cui i giudici raccontano se stessi e il proprio lavoro, le battaglie, le vittorie, le sconfitte. E la politica, sempre polarizzata quando si parla di giustizia. Danti i successi e le novità, fra cui l’emergere di una nuova generazione di donne magistrato, pronta a far sentire la propria voce anche nel mondo editoriale.
 
Estate caldissima, bollente, quella del 2013 per i giudici, ancora una volta sotto i riflettori mediatici grazie alle due fasi finali – appello e cassazione – del processo che ha segnato l’inizio della fine (politica) di Silvio Berlusconi. Ma è da tempo che la categoria dei giudici è investita dalle controverse luci della ribalta, protagonista di un palcoscenico che, inesorabilmente, si è esteso fino ai banchi delle librerie.
È davvero esorbitante il numero dei libri scritti negli ultimi anni dai giudici, magistrati che operano nelle più diverse posizioni: impegnati nelle indagini, abbigliati nei panni della pubblica accusa, quando addirittura non appartengano a collegi giudicanti.
Il fenomeno ha preso consistenza nel corso di una ventina d’anni; tuttavia, è soprattutto nell’ultimo quinquennio che ha assunto dimensioni editoriali di rilievo. Inevitabile constatare lo stretto rapporto fra tale crescita esponenziale e il dibattito pubblico, soprattutto politico, di cui sono protagonisti tali professionisti del potere istituzionale, come non avviene in nessun altro paese europeo: i giudici ormai dividono l’opinione pubblica, stagliandosi nell’immaginario degli italiani con i segni più manichei del diavolo o dell’acqua santa. Detentori della Verità, vittime sacrificali della peggiore malavita organizzata, o cricca politica camuffata, il cosiddetto partito dei giudici?
Noi ci atterremo ai dati editoriali, avvertendo subito che, dato l’ingente numero delle pubblicazioni da loro firmate, il presente rendiconto non potrà essere esaustivo.
A nostro avviso, è possibile riconoscere una data di inizio dell’invasione di tanti titoli, una prima radice che affonda nel nostro passato più prossimo: il 1992, anno che vede l’intrecciarsi di due pesanti e articolate vicende di cronaca politica e criminale, vale a dire la fine della Prima Repubblica e le stragi di mafia in Sicilia. Politica e mafia: insieme alla lunga scia dei processi per terrorismo, sono prevalentemente questi gli scenari – non di rado intrecciati fra loro – che i giudici raccontano nelle loro memorie. Di solito corrispondono ai processi che hanno seguito.
È, dunque, dopo Mani pulite, ma soprattutto dopo il tritolo di Capaci e via D’Amelio, che i magistrati si mettono a scrivere, non più solo sentenze. Conviene subito constatare che la loro estrema familiarità con la scrittura, utilizzata per l’estensione degli atti, spesso li induce a qualche pagina di troppo; e che la loro generosità non sempre è esente da un qualche soverchio compiacimento. Ma la partita in gioco è importante, anche per gli editori ai quali certamente non dispiace la risacca promozionale che tali libri portano con sé grazie ai loro autori, sempre più noti.
Poco sopra si accennava alla memoria collettiva: chi non ricorda il saggio Antonino Caponnetto che, il 24 luglio 1992, ai funerali di Paolo Borsellino, scuote il capo e trattenendo la commozione, sussurra: «E finito tutto!». Per un attimo ha vinto lo scoramento: insieme a Borsellino, infatti, morto poco dopo Giovanni Falcone, rischiava di andare sepolto anche il lavoro del pool antimafia che lui stesso aveva costituito.
Quell’immagine di un giudice «buono», che sembra cedere alla più violenta delle intimidazioni, diventa il simbolo, se non della sconfitta, della fatica, del dolore e dell’impotenza che deve attraversare perfino chi amministra la giustizia.
Ma Caponnetto reagisce subito, anche se non prende personalmente la penna: al giornalista Saverio Lodato racconta i suoi Giorni a Palermo. Storie di mafia e giustizia’, dopo di che individua nelle nuove generazioni il terreno su cui è necessario impiantare il seme di una indispensabile cultura antimafia. Così, instancabilmente, prende a parlare nelle scuole italiane: vuole raccontare la mafia, le connivenze, le omertà; per dieci anni girerà la penisola, rivolgendosi agli uomini di domani.
Nel luglio del 2010 l’editore Melampo – il cui progetto editoriale è particolarmente attento ai temi della legalità e dei diritti, della lotta alla mafia, e «alla questione morale» – raccoglierà quegli scritti dedicati ai giovani (apponendogli un titolo eloquente: Io non tacerò. La lunga battaglia per la giustizia), le interviste sul valore dell’impegno, dell’amicizia, i ricordi delle tante bombe di Palermo, quelli delle donne siciliane che si ribellano ai codici d’onore; nel frattempo, però, Caponnetto è morto, nel dicembre del 2002, senza che nessun membro del governo presenziasse alle esequie. Gli italiani, e più colpevolmente le loro istituzioni, sostano a disagio nei territori della memoria.
Anche Giuseppe Ayala, pubblico ministero nel 1987 nel maxiprocesso contro Cosa nostra, ideato da Caponnetto, racconterà a caldo i suoi anni palermitani: nel 1993, insieme a Felice Cavallaro pubblica La guerra dei giusti (Mondadori), salvo tornare nel 2008 a quella collaborazione con un volume di memorie più personali, e ancora commosse: Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino (Mondadori). Nel 1992, prima delle eclatanti stragi, aveva imboccato una strada che seguiranno molti dei suoi colleghi negli anni a venire: era passato alla politica, presentandosi alle elezioni nelle file del Partito repubblicano.
Ed è con questo ingresso nel territorio della «militanza» istituzionale che si inaugura il fenomeno dei magistrati che diventano deputati o senatori. Fra gli ultimi, in ordine di tempo, della folta schiera si segnala Pietro Grasso, giudice a latere nel maxiprocesso, poi capo della Direzione nazionale antimafia, che nel 2012 si candida e viene eletto nelle file del Pd, e oggi è presidente del Senato. Negli anni, insieme ad alcuni giornalisti, Grasso ha scritto: Pizzini, veleni e cicoria. La mafia prima e dopo Provenzano’, Per non morire di mafia’, Soldi sporchi. Come le mafie riciclano miliardi e inquinano l’economia mondiale’, Liberi tutti. Lettera a un ragazzo che non vuole morire di mafia. Quest’ultimo titolo sembra strettamente connesso a un progetto di educazione alla legalità realizzato per la televisione dallo stesso Grasso che, a partire dal settembre 2012, ha condotto per Rai Storia dodici Lezioni di mafia, dedicate alle generazioni più giovani; vuole spiegare tutti i segreti di Cosa nostra e riprendere idealmente un progetto di Giovanni Falcone. Insomma: tutti i media sono buoni e indispensabili pur di educare, seminare cultura, militare nell’impegno civile.
Il nome di Falcone ci riporta nel nostro passato prossimo e a un altro filone della cronaca.
Nel 1994 Antonio Di Pietro, alla fine di un’udienza, si sveste platealmente della toga e di lì a poco fonda un proprio partito: era stato pubblico ministero di punta nel pool di Mani pulite, composto anche da Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini e Armando Spataro, coordinati da Francesco Saverio Borrelli. Negli anni a venire, dopo aver indagato socialisti, democristiani e grandi manager – con le tangenti che corrono verso tutti i territori della politica, nessuno escluso, producendo in tal modo i reati di corruzione e concussione –, alcuni di loro rivolgeranno le loro attenzioni, penali, a Silvio Berlusconi.
Uno dei volumi di memorie più recenti, e fra i più interessanti, proveniente dai lavori del tribunale di Milano – insieme a Palermo la città penalmente più attiva, ma mediaticamente ancor più strategica, per la sua prossimità con televisioni e giornali –, è di Armando Spataro, pubblicato nel 2010 da Laterza: Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e giustizia offesa, libro di estrema leggibilità – anche perché poco tecnico, narrativo, ricco di personaggi e inquietanti vicende –, autobiografia professionale di un magistrato che a lungo si è occupato soprattutto di terrorismo rosso e internazionale (il caso Abu Omar), e di servizi segreti più o meno deviati. Un volume pensato con l’intento di ripercorrere la più recente storia italiana, motivo non ultimo del suo interesse, soprattutto per quei lettori attenti, oltre che all’impegno civile, alle mille trame, oscure o eclatanti, che hanno insanguinato il nostro paese.
Trame in cui si intrecciano nodi di natura civile e incivile, per esempio, come quelle connessioni fra mafia e politica che il giudice Gian Carlo Caselli ha rilevato scrivendo l’autobiografico Un magistrato fuori legge, dopo aver già affrontato lo stesso tema, insieme ad Antonio Ingroia, in L’eredità scomoda. Da Falcone ad Andreotti sette anni a Palermo) salvo tornare in libreria nel 2011 con Assalto alla giustizia (Melampo) per difendere i magistrati dalle accuse di eccessiva e tendenziosa militanza che nel frattempo si erano levate forti e chiare, soprattutto in Parlamento. La prefazione è di Andrea Camilleri, uno dei pochi scrittori che si affacciano fra le pagine vergate dai giudici. Non sarà il luogo questo per parlare di Roberto Saviano ma, se pur di sfuggita, converrà segnalare il lavoro di Gianrico Carofiglio, già sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia e oggi senatore che, oltre ai suoi noir, ha scritto alcuni saggi di riflessione sull’utilizzo, il senso e l’usura delle parole. Da scrittore e da magistrato, difensore della Verità. Per tutti si rimanda a La manomissione delle parole.
Quanto a Giancarlo De Cataldo, giudice alla Corte d’assise di Roma, narratore, scrittore per il teatro e la televisione, noto autore del romanzo criminale della Magliana, anche lui ha voluto stendere la propria autobiografia professionale: In giustizia, pagine che ricostruiscono i casi di cronaca nera (e latamente politica) di cui si è occupato (Adriano Sofri e Marta Russo) e che prendono la temperatura al corpo assai malato della giustizia italiana.
Qualche riga sopra è già emerso il nome di Antonio Ingroia, all’epoca giovane magistrato nel pool di Falcone e Borsellino – dopo di che si è molto occupato penalmente di Marcello Dell’Utri e della trattativa Stato-mafia –, rappresentante dell’ala più intransigente dei magistrati italiani, molto sostenuta da Marco Travaglio e dall’editore Chiarelettere, marchio specializzato in titoli di inchiesta e di denuncia. Ingroia ha scritto molto, ma fra i suoi titoli si segnala soprattutto Nel labirinto degli dèi. Storie di mafia e di antimafia, titolo di narrazioni e di impegno. Chiarelettere ha stampato anche l’autobiografia di Antonio De Magistris, oggi sindaco di Napoli con voto quasi plebiscitario, Assalto al PM. Storia di un cattivo magistrato (2010), narrazione piuttosto rivendicativa, ancora ferita, fra l’altro, del suo allontanamento dai tribunali della Calabria per «incompatibilità ambientale», dopo una serie di inchieste sulle connivenze fra politici locali, criminali e colletti bianchi. Già, la ’ndrangheta, la vera novità criminale salita alla cronaca in anni più recenti.
A questo fenomeno, e a una militanza esemplare nemmeno troppo pubblicizzata, almeno finché non è arrivato Fabio Fazio che l’ha ospitato più volte nella sua trasmissione, sono dedicati i libri di Nicola Gratteri, magistrato fra i più autorevoli della Direzione distrettuale antimafia, sotto scorta dal 1989. Scritti per lo più a due mani con il giornalista Antonio Nicaso, vogliono illustrare dall’interno i meccanismi che regolano questa nuova tipologia di criminalità organizzata, più moderna, più strutturata, più invisibile. Fra i suoi molti titoli si segnalano: Fratelli di sangue e La malapianta. Lo scenario di una Calabria del tutto impermeabile alle istituzioni – la cui malavita, antica e moderna, è impensabile da estirpare, là dove davvero sembra tutto finito – viene raccontato anche da Francesco Cascini, giovane magistrato di prima nomina, in Storia di un giudice. Nel Far West della ’ndrangheta. La sua scrittura è secca, priva di alcuna nota dolente, apparentemente solo informativa. Ma molti giudici di nuova generazione vi si sono identificati.
Insieme a nuovi magistrati, dunque, compaiono stili imparentaci ai nuovi media.
Ma fra le novità emergenti avanza un altro drappello di giudici, fin qui più silenzioso. Si sarà notato, forse, che nella nostra ricerca nessuna donna compare fra gli autori dei titoli citati. Salvo sviste clamorose, ne abbiamo incontrata solo una, Paola Di Nicola, giudice del tribunale penale di Roma, autrice di La giudice. Una donna in magistratura dove si raccontano pregiudizi, fatiche, doppie identità, supponenze nemmeno troppo velate dei colleghi maschi. E si forniscono alcune cifre: «Oggi, su 8678 magistrati, le donne sono 4006, pari al 46% del totale». E ancora: «Con decreto dell’8 giugno 2012, hanno preso servizio 325 magistrati di cui 210 donne, pari al 65%. La maggior parte di queste non sa che alle loro nonne, meno di cinquant’anni fa, era vietato anche solo aspirare a diventare magistrato della Repubblica italiana».
Non a caso, quindi, il processo d’appello a Silvio Berlusconi ha visto una corte giudicante tutta femminile. Gli editori sono avvertiti.