Il dittico romanzesco di Paolo Giordano

Con il suo romanzo d’esordio, La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano ha raccolto un vastissimo consenso di critica e di pubblico. Nel 2012 è uscita la sua seconda prova, Il corpo umano, che si propone come un libro di natura assai diversa rispetto al precedente; e così è stato accolto dai recensori, che hanno per lo più messo in luce le differenze tra i due testi. Per parte loro, i lettori hanno riservato al Corpo umano un’attenzione più fredda. A ben guardare, tuttavia, le due opere si assomigliano, al punto da poter essere considerate, al di là delle difformità di superficie, i due vasti capitoli di un dittico.
 
Quella di Paolo Giordano è la parabola ideale dello scrittore esordiente. La solitudine dei numeri primi, pubblicato nel 2008, quando il suo autore aveva appena ventisei anni e nell’ambiente editoriale e letterario era pressoché uno sconosciuto, ha venduto quasi quattro milioni di copie in tutto il mondo. Sulla scia di quel trionfo Giordano ha avviato una serie di collaborazioni giornalistiche: in primo luogo con il settimanale «Gioia», dove per oltre tre anni ha tenuto regolarmente una rubrica, e in maniera più sporadica con il «Corriere della Sera» e con «Vanity Fair». Per questo magazine Giordano ha realizzato il reportage sulla guerra italiana in Afghanistan che gli ha fornito lo spunto decisivo per l’ambientazione del suo secondo romanzo, Il corpo umano, del 2012. Nonostante il successo fragoroso del primo libro, Giordano non ha ceduto alla tentazione di credere che il suo apprendistato di scrittore fosse terminato. Anzi, si direbbe che nel passaggio dalla Solitudine al Corpo abbia inteso fare i conti con alcune peculiarità della sua scrittura che, pur non avendogli affatto alienato i favori del pubblico (corroborati da un esemplare battage pubblicitario e da un sorprendente numero di recensioni favorevoli), rischiavano di rendere le sue narrazioni un po’ troppo «cerebrali», come lui stesso ha rilevato in un’intervista.
Partiamo dunque dalla Solitudine, che anche al di là della formazione scientifica dell’autore, così di frequente rimarcata dai commentatori, non sarebbe una forzatura paragonare a un teorema. Con le dimostrazioni matematiche questo romanzo condivide intenti e struttura: muove da un’ipotesi (l’esile storia di due ragazzi, Alice e Mattia) e sostiene una tesi ben precisa (il loro percorso non può che essere determinato, o meglio compromesso, dagli choc subiti nell’infanzia) attraverso una serie di dimostrazioni (i fallimenti dei protagonisti nel tentativo di condurre una vita normale). Gli stessi Alice e Mattia, più che personaggi con un corpo e un’anima, da un certo punto in poi – ossia dopo le pagine in cui Giordano si è esibito in un esercizio tanto azzeccato quanto godibile di scomposizione dell’emotività infantile e adolescenziale – sembrano un algoritmo, l’incarnazione perfetta di una parabola esistenziale senza scampo. E anche le altre personae che agiscono sulla scena, create e abortite in un breve giro di pagine, parrebbero rispondere a rigorose esigenze probatorie, non senza il rischio di scivolare nello stereotipo: è il caso di Viola, compagna di classe tanto carismatica quanto dispotica e viziata; oppure di Fabio, uomo sinceramente innamorato che offre ad Alice l’occasione di vivere finalmente un’esistenza protetta dall’affetto; e ancora di Denis, l’amico di Mattia che scopre e faticosamente impara a vivere la propria omosessualità, nonché dei genitori dei due protagonisti, graniticamente sordi alle fratture emotive dei figli. Dunque non stupisce che le descrizioni dei personaggi siano per lo più ridotte all’osso, come quelle dei luoghi, i cui nomi vengono sistematicamente taciuti (nonostante sia facile riconoscere tra le righe la fisionomia di Torino): l’inquietante teorema della Solitudine non poteva che prendere forma in un anonimo laboratorio.
Anche l’impianto del libro tende a presentarsi, dopo le prime decine di pagine, come il frutto dell’intenzione di illuminare appena quanto giova a sostenere la tesi principale, al netto di qualsivoglia incongruenza: fondato, nell’arco di un venticinquennio, su salti cronologici di tre-sette anni, finisce per assomigliare a un album fotografico sfogliato alla ricerca di specifici episodi. Se è vero che Giordano – secondo le sue stesse parole – mira in quanto scrittore a trovare «il giusto livello di trasposizione della sua storia personale», si può ben dire che nel romanzo d’esordio abbia agito per sottrazione, collegando fatti e istanti in un’asciutta linea che muove da un punto e si dirige in avanti senza incertezze e sbavature. Quel che forse si è perduto è appunto la vita e il suo corpo: viene da pensare che ci sia qualcosa di non interamente umano, e forse di non interamente romanzesco, nella scarnificata precisione, nella matematica inevitabilità con cui i protagonisti scivolano passo a passo nel loro baratro.
Nella messa a punto del secondo libro, Giordano sembrerebbe essersi confrontato con tali questioni: se nella Solitudine la riscrittura della storia personale tendeva all’astrazione e alla stilizzazione, nel Corpo pare aver scelto, fin dal titolo, la via opposta, quella della concretezza, in primo luogo nel ritrarre gli ambienti (ora chiamati in causa con scrupolosità nomenclatoria) e i personaggi (già le carrellate descrittive sui soldati in partenza per l’Afghanistan, condotte come sequenze di zoom, chiariscono il cambio di modus operandi). Nel Corpo numerosi attori hanno un proprio spazio sul palcoscenico, una propria voce, un’individualità delineata: e soprattutto hanno una vicenda personale che all’interno del flusso narrativo maggiore non costituisce un elemento meramente gregario, una semplice meteora di passaggio. Anche per questo i protagonisti – il medico Alessandro Egitto e il maresciallo René – sono ben lungi dal monopolizzare la scena: proprio il contrario di Alice e Mattia. Neppure il ruolo speciale attribuito al tenente Egitto, che in due capitoli subentra al narratore esterno assumendo la parola in prima persona per rievocare alcuni frammenti della propria storia, compromette il carattere di affresco corale del libro.
Va poi osservato che all’avvicendarsi delle voci narranti si somma l’artificio grazie al quale il romanzo prende avvio da un episodio collocato al termine dell’arco cronologico della vicenda, che si chiude così circolarmente nel punto in cui era cominciata. A tale accresciuta complessità del meccanismo narrativo si associa un arricchimento di quello che potremmo definire lo spessore romanzesco dell’opera, in contrasto con la priorità accordata nella Solitudine all’indagine introspettiva: gli avvenimenti che si dispiegano nel Corpo, dove Giordano si abbandona con più agio al puro gusto del raccontare, possiedono una robusta cornice, fondata sulla missione di un contingente di alpini italiani in una Fob (Forward Operating Base) situata nella valle del Gulistan, in Afghanistan. E il fulcro della narrazione è dato da un ampio resoconto, largamente rielaborato, di un tragico fatto di sangue effettivamente avvenuto, vale a dire la morte di quattro soldati e il ferimento grave di un quinto a causa di una mina esplosa sotto il Lince nel quale viaggiavano: episodio fondamentale, sistemato nel bel mezzo del libro, a segnare l’acme della tensione e a determinare ogni evento successivo.
Ma, oltre a tali vistose discrepanze, i due romanzi conoscono tenaci e più o meno sotterranee affinità. Si potrebbe sostenere che Giordano «gattopardescamente» – absit iniuria verbis – nel suo secondo lavoro abbia cambiato tutto (in superficie) per non cambiare nulla, o quasi nulla (in profondità). Si è detto, per esempio, dell’accresciuta concretezza che agisce sul piano – estrinseco – delle opzioni figurative e sulle situazioni e sugli oggetti stessi che vengono effigiati: fenomeno così palese e cospicuo da generare, almeno a un primo sguardo, l’impressione che nel passaggio dalla Solitudine al Corpo si possa rilevare anche al livello – essenziale – della lingua una maggiore consistenza, un ispessimento, che riguarda sia il lessico sia la sintassi. In realtà non è dato registrare una tangibile alterazione degli strumenti impiegati. Entrambe le opere sono contraddistinte da una scrittura asciutta e franta, anche se non rigorosamente minimalista, da una disciplinata medietas che non teme di invadere i territori meno estremi di una colloquialità a tratti sguaiata. Si tratta insomma della medesima tecnica espressiva – nella quale tra l’altro va riconosciuta una delle chiavi del successo di Giordano – chiamata a raggiungere scopi assai diversi: nella Solitudine è tesa a tratteggiare gli impalpabili vicoli ciechi psicologici, le smilze e solipsistiche elucubrazioni di Alice e Mattia, mentre nel Corpo restituisce sostanziose raffigurazioni delle membra esplose, e così spesso defecanti, di nerboruti soldati asserragliati in un avamposto del deserto afghano.
Una qualche convergenza tra i due romanzi si distingue inoltre nella caratterizzazione dei personaggi. Anzitutto perché anche il Corpo non è immune da stereotipi: troviamo infatti il caporalmaggiore efficientissimo ma crudele con i commilitoni e in particolare con il più maldestro e sensibile di loro, il comandante di plotone leale e affabile con i suoi uomini, l’ufficiale di grado maggiore volgare e negligente quanto nessun altro, la donna soldato pettegola e inesorabilmente inadatta al proprio ruolo (sia detto di sfuggita che proprio quest’ultimo è il più flagrante dei luoghi comuni cui Giordano accondiscende; del resto nelle sue narrazioni le donne non forniscono quasi mai buona prova di sé). A un livello più profondo, significative persistenze congiungono il Mattia della Solitudine con il tenente Egitto e il maresciallo René del Corpo, nonché con alcuni personaggi dei racconti firmati da Giordano (narrazioni in qualche caso più godibili e meglio compiute dei romanzi): segnati da un’infanzia problematica che condiziona la loro esistenza, individuano l’unica possibile salvezza nella fuga dai luoghi della gioventù, dal nucleo familiare (per Giordano l’elemento di disarmonia esistenziale per eccellenza) e infine da se stessi. E così per Mattia, che si rifugia in un’università del Nordeuropa; è così per Alessandro, che cerca riparo arruolandosi nell’esercito e arriva a chiedere il prolungamento della propria permanenza sul fronte afghano; ed è così per il protagonista del racconto intitolato Mundele, un medico volontario in Congo: «Io ero lì e basta, solo per negazione di qualcos’altro».
In questa prospettiva, si potrebbe considerare Il corpo una tacita prosecuzione della Solitudine’, il più sereno, o se non altro meno fosco, adempimento che il primo libro non aveva voluto fornire, la cronaca di una condizione di vivibilità finalmente raggiunta. Alessandro è infatti un Mattia che trova, tra forze armate, guerra e antidepressivi, una via di emancipazione dal rapporto con la famiglia: se il senso di colpa nei confronti della sfortunatissima gemella ha incastrato per sempre Mattia, Alessandro riesce in qualche modo a salvarsi dal morboso attaccamento nei confronti di Marianna, sorella dapprima geniale e tutta tesa ad assecondare i desideri dei genitori e poi fallita e ribelle contro di loro, incapaci – proprio come quelli di Alice nella Solitudine – di comprendere guai e dolori della figlia. Alessandro però non vince: accetta un equilibrio dimidiato, che sì gli permette di tenersi al riparo dalla fonte del proprio dolore, ma che nel contempo gli fa condurre una vita solitaria e scialba. Il portatore di una più proficua soluzione dobbiamo cercarlo in René, che non si propone come un eroe, e tuttavia incarna l’archetipo dell’uomo in grado di affrontare e sconfiggere i propri rovelli: trova una donna da amare (anche se è la moglie di un soldato che ha involontariamente condotto alla morte) e una famiglia della quale prendersi affettuosamente cura, mettendo da parte – come Mattia non ha saputo fare – l’autoreferenzialità e la chiusura solipsista dei propri tormenti.
Va però osservato che tutto ciò – il fulcro semantico del Corpo umano — ha poco a che vedere con l’Afghanistan e la lotta del mondo occidentale contro il cosiddetto terrorismo musulmano. Certo, bisogna riconoscere al libro il merito di aver rotto quella sorta di conventio ad tacendum che caratterizza il rapporto dei nostri scrittori con le tante guerre degli ultimi due decenni. Ma rischierebbe di restare senza una risposta chi si domandasse quale immagine, quale idea del conflitto Il corpo ci restituisca. Giordano porta il suo sguardo su un ben preciso teatro di guerra, sradicandolo dalle circostanze geopolitiche e dalle motivazioni che ne stanno alla base. A proposito dell’intervento bellico l’autore non esprime alcun giudizio esplicito, finendo tuttavia per avallarlo (in un’intervista ha dichiarato:
«Loro [i soldati] sono lì anche per tutti noi»): la sua priorità sembra infatti quella di ritrarre in modo per così dire neutro la condizione dei militari – che ha potuto conoscere direttamente visitando in due occasioni una base italiana in Afghanistan – e di suggerire come sotto le uniformi non ci siano altro che esseri umani, molto più fragili che spietati. Al contrario, i nemici, gli inafferrabili talebani, non hanno né un viso né una voce, ma solo le sembianze crudeli dei colpi di mortaio. La guerra afghana, quindi, non è altro che lo sfuggente contesto in cui hanno luogo le avventure di un drappello di giovani uomini e donne; tanto è vero che l’ambientazione in un altro fronte militare non avrebbe alterato granché i connotati del libro (proprio come uno sfondo scenico diverso da Torino non avrebbe inciso significativamente sulla Solitudine).
Se questo era un seducente teorema contraddistinto da un alto grado di astrazione intellettualistica, Il corpo a ben guardare continua la medesima dimostrazione, disegnando traiettorie individuali e relazionali per molti versi simili, pur travestendole di un più robusto mantello narrativo e di una più concreta intenzione figurativa. Resta il fatto che neanche qui il teorema, mutato solo in superficie, si risolve appieno in narrazione: «Dopo La solitudine dei numeri primi pensavo che il mondo finisse con me, con i miei ricordi, con ciò che potevo trasfigurare direttamente dalla mia storia personale. E invece con Il corpo umano ho capito che le possibilità di trasfigurazione della mia storia sono infinite». Insomma, La solitudine dei numeri primi e Il corpo umano si presentano come romanzi per tanti aspetti discordanti, ma possiamo legittimamente ritenerli due diverse trasfigurazioni di un’unica storia, e insomma due vasti capitoli unius libri. Un dittico che ha per oggetto la medesima vicenda interiore.