Massimo Gramellini, umorismo in salsa patetica

Costruzione semplice, personaggi stilizzati, lessico piano, impaginazione ariosa: queste le carte vincenti di Fai bei sogni, alla cui iniziale prospettiva ironica si sostituisce, con lo sviluppo della vicenda, un enfasi sugli aspetti patetici e sentimentali, aiutata dal rafforzamento progressivo della dimensione autobiografica.
 
Per lo straordinario successo che continua a ottenere, Fai bei sogni di Massimo Gramellini è un romanzo sorprendente, e certo la presenza televisiva da Fazio a Che tempo che fa non basta a spiegarne l’eccellente performance. Uscito nel marzo 2012 da Longanesi, solo un mese dopo festeggia le 500mila copie e oggi ha raggiunto la xix edizione, superando quota un milione. Come sempre, di fronte ai pochi casi letterari di tale portata commerciale non va sottovalutata l’abilità di autori di intrattenimento che riescono a sbaragliare la concorrenza con formule necessariamente originali e insieme quanto mai accessibili al pubblico meno attrezzato. Per raggiungere volumi di vendita così elevati occorre infatti coinvolgere anche i lettori occasionali e poco colti, tramite strategie espressive trasparenti e di facile presa.
Anzitutto, il romanzo – meno lungo di quanto sembri grazie al tipo di carta scelto e all’impaginazione – è confezionato in modo da garantire una lettura veloce e «confortevole»: i caratteri hanno una bella evidenza e la pagina margini ampi e interlinea spaziosa. Anche l’organizzazione del testo concorre a favorirne la fruizione, scandito com’è in capitoli brevi e brevissimi, articolati in paragrafi distanziati da un salto di riga, che li separa fra loro mettendoli in evidenza. Questa impostazione è funzionale alla struttura del racconto, che procede come una catena di episodi spesso conclusi all’interno di un solo paragrafo e interpretati da personaggi destinati a scomparire subito dopo il loro ingresso in scena. D’altronde, l’andamento aneddotico di una vicenda concepita in questo modo favorisce l’interruzione e la ripresa della lettura – anche frequenti – in corrispondenza dello stacco fra paragrafi, capitoli e parti (sei più l’antefatto). Analoga chiarezza modulare ed efficacia comunicativa mostra la scrittura, in prevalenza costruita con brevi frasi di uno o due periodi, coordinati e nominali, e con dialoghi veloci e ritmati fatti di battute molto rapide, il tutto sulla base di un lessico semplice e accessibile.
Lungi dal disorientare il lettore, la varietà dei personaggi assume una forte coerenza perché i ricordi sono condotti in prima persona da un narratore autobiografico che ripercorre la propria esistenza a partire dall’infanzia, rievocando oggi storie che coinvolgono anzitutto i genitori, le due figure di spicco nel romanzo. E subito chiara così la gerarchia dei soggetti: a dominare il discorso è chi racconta e argomento privilegiato dei suoi ricordi sono il padre e la madre, circondati dalle comparse. Ai vari livelli cambia la caratterizzazione, che risulta più articolata ma sempre semplice. In primo luogo, la stragrande maggioranza dei personaggi è identificata da un solo tratto distintivo, esemplificato dall’episodio che li vede protagonisti: la «signorina Prime Volte» Alessia, «altissima, bellissima, narcisissima», con cui il narratore consuma il suo primo rapporto d’amore, e la «biondastra con le gambette rapprese in un paio di calze maculate», baciata furtivamente dal padre in un albergo, sono solo alcune fra le numerose figure di analogo spessore, personaggi piatti perché subalterni all’andamento della vicenda, e non viceversa.
I genitori sono definiti in modo meno univoco tramite una serie di opposizioni binarie: la mamma è assente perché morta quando il protagonista era bambino, il padre è invece presenza costante della sua infanzia e giovinezza; e se la prima esemplifica qualità positive, il secondo al contrario interpreta un ruolo negativo fino alla fine del romanzo, quando invece le parti si rovesciano. Quanto al portaparola, la sua fisionomia è più sfaccettata, e si definisce prima di tutto per contrasto rispetto a quella di tanti personaggi piatti, che ne corroborano la funzione dominante: poiché chi racconta tiene al Torino, l’amico del piano di sopra, Riccardo, non può che tifare Juventus, e se a scuola il narratore è inappetente, il compagno Rosolino è invece «un tipo che mangiava di tutto». A differenza delle altre figure, il protagonista ha una vivace vita interiore, e la dialettica fra ragione e istinto è rappresentata con un espediente tradizionale, la personificazione della psiche: con «Belfagor» – «mostro dell’anima» – chi dice io parla, discute e litiga. Analoga elementare contrapposizione binaria mostrano molte sue azioni rispetto al sentimento che le ispira – visto un cane, «lo amai subito, dunque tentai di liberarmene» –, e non a caso il segno zodiacale di chi ricorda è la Bilancia, considerato doppio nella cultura popolare.
A confermare l’efficace semplicità di impianto di Fai bei sogni concorrono altri aspetti qualificanti: quella raccontata è una vita che si svolge in spazi generici e in un tempo definito da pochi riferimenti storici. La Torino natia è una città anonima e mai descritta, come la Milano dove il giornalista si trasferisce per un periodo, e sia la Sardegna sia l’india, rispettivamente sfondi della conquista di Emma e di una vacanza natalizia, sono luoghi privi di qualunque identità, vuote quinte interscambiabili. Non diversamente, per collocare queste storie nel calendario Gramellini usa pochi richiami ad avvenimenti epocali – «la notte del primo uomo sulla Luna», la guerra in Vietnam – e qualche indizio facilmente decifrabile da chi appartiene alla stessa generazione dell’autore: il periodo del Cagliari di Gigi Riva, l’anno della messa in onda di Belfagor ovvero il fantasma del Louvre (1966) e quello dell’Odissea televisiva introdotta da Giuseppe Ungaretti (1968). Su questo sfondo stilizzato la vicenda è scandita dai frequenti richiami al tempo soggettivo del narratore – «la fine delle elementari», il «tredicesimo compleanno», «l’anno della maturità» e «l’estate dei trentatré anni» –, con riferimenti a episodi personali di varia rilevanza: l’ultima sera che vede la madre, la consapevolezza della sua scomparsa maturata l’anno successivo, ma anche il richiamo a «due anni prima», «quando ero risorto dall’operazione alle tonsille».
Definito dall’autore «percorso iniziatico», in effetti Fai bei sogni è un romanzo di formazione regolato sul tempo dell’esistenza del protagonista, il quale racconta la sua storia, orientata all’elaborazione del lutto per la morte della madre, all’affermazione professionale – la vocazione giornalistica è evidente sin dall’inizio – e alla conquista di un rapporto adulto ed equilibrato con l’altro sesso, che culmina nel secondo, felice matrimonio con Emma, simbolo della raggiunta maturità. Si passa così dal ricordo dell’infanzia al resoconto dell’età adulta, con un punto di vista narrativo mobile: con lo scorrere delle pagine diminuisce la distanza fra io narrato e io narrante, che alla fine tendono a coincidere. Gramellini sfrutta questa differenza quando racconta il passato per ottenere effetti umoristici e divertenti, sdrammatizzando molte situazioni. Il gioco consiste nel prendere in giro il se stesso bambino e ragazzo da un’ottica adulta e dissacrante, come accade sia in parecchi passi divertenti e nell’adolescenziale lettera d’amore a Emma, intervallata fra parentesi dal commento irridente del narratore-ora, sia in rapide osservazioni che sintetizzano questo scontro prospettico: «In mancanza della mamma mi accontentai della cioccolata», «Mi sentivo felice come un deficiente». Ma lo sguardo ironico prende di mira anche gli altri: «Fra gli spirituali affiorava il mio senso dell’umorismo, una vocina petulante che mi impediva di prenderli troppo sul serio». Il fatto è che la vita è «da affrontare col sorriso sulle labbra, se si può», e il benessere è sancito dal buon umore – «Ci mettemmo a ridere che non la finivamo più» –, perché l’ironia è il modo giusto di rapportarsi con il mondo: «Scherzi o fai sul serio?» chiede papà; «Scherzo sul serio» è la risposta.
Con il procedere della vicenda la distanza ora/allora diminuisce, e la prospettiva ironica perde consistenza. «Gli altri pensano che tu sia un umorista, capace solo di vedere il lato buffo delle cose» sostiene «una collega scorbutica», e l’osservazione colpisce il protagonista, che assume un atteggiamento autocritico: se «egoismo e ironia erano gli scudi di Belfagor dietro ai quali tornavo a nascondermi per non soffrire», «non so quanto sia giusto prendere in giro il me stesso di allora. I sentimenti veri hanno una dignità che li preserva dal senso del ridicolo». Ecco dunque che alla rappresentazione ironica e autoironica si sostituisce un altro registro, quello patetico e sentimentale, all’insegna della commozione – «Mi uscirono lacrime che non sapevo di possedere» –, e il giornalista ormai affermato inaugura una «rubrica di posta del cuore», «infischiandosene di quei maschi che considerano l’educazione sentimentale una perdita di tempo e il racconto dei tormenti dell’anima un’ammissione di debolezza». All’infido Belfagor si sostituisce adesso «la parte atrofizzata del cervello che è collegata col cuore e ci consente di ascoltare quella che Jung chiama “la voce degli dei”», cogliendo «il linguaggio eterno dei sentimenti», «l’amore totale». E allora è «come se le mie parole si fossero sintonizzate con l’anima del mondo».
Si compie così, all’insegna di una Weltanschauung irrazionalistica e sentimentale, la parabola del protagonista, che si trasforma da paladino dello scetticismo ironico a entusiasta sostenitore dei buoni sentimenti – e con ciò chi legge passa da un divertimento consapevole alla sofferta commozione empatica. Ma la trasformazione non è solo questa: se all’inizio del romanzo a prevalere è la dimensione della fiction, favorita dall’antefatto in cui si allude al mistero circa la vera causa della morte della madre, svelata solo alla fine, con il procedere della lettura viene invece accreditata la dimensione autobiografica, e dunque la sovrapposizione autore/narratore. A certificarla provvede la riproduzione dell’articolo di giornale che annuncia il suicidio della signora Giuseppina Pastore, la madre di Gramellini, ritratta con in braccio il figlio piccolo nella fotografia che chiude il libro. Di fronte a una storia vera l’effetto patetico è ulteriormente rafforzato, come dimostra la reazione degli editor di Longanesi al racconto dell’autore: «Alla fine tutti avevano gli occhi lucidi». Qui, con i Ringraziamenti, si chiude Fai bei sogni, che inizia un po’ come un giallo, si sviluppa a mo’ di gradevole Bildungsroman autoironico, per concludersi fra docufiction e «romanzetto» rosa.