Al «Grand Hotel» del fotoromanzo

Nel 2016 il fotoromanzo ha compiuto settant’anni. Lontani i tempi eroici, che lo videro spopolare negli anni cinquanta e sessanta, oggi vende un sogno che comprano in pochi. Insieme ai lettori, o per meglio dire alle lettrici, il fotoromanzo ha perso la sua funzione di modello estetico e comportamentale, puntando piuttosto su meccanismi narrativi ben congegnati e permeabili alle più diverse tematiche. Che naturalmente continuano a coesistere accanto all’amore, la droga più intossicante e dunque più irrinunciabile.
 
«Ma li fanno ancora?»: questo si sente invariabilmente chiedere chi annuncia di occuparsi di fotoromanzi. E la risposta è sì, ancora li fanno, sebbene non godano più della popolarità di un tempo. Oggi nelle edicole continua a vendersi il solo «Grand Hotel», glorioso capostipite di un genere inventato in Italia nell’immediato dopoguerra, quando i fratelli Del Duca pensarono, bene, di colorare di rosa i già esistenti fumetti. Inizialmente le storie erano infatti disegnate, ma il fragoroso successo di mercato e le necessità pratiche di serializzazione consigliarono ben presto l’impiego della più veloce fotografia.
Oltre che alla letteratura sentimentale e alla narrazione seriale del fumetto, il fotoromanzo attingeva linfa e ispirazione dal romanzo d’appendice, dall’immaginario cinematografico e più nello specifico dal cineromanzo, nel quale si proponevano i riassunti dei film di maggior successo accompagnati a fotogrammi. Del feuilleton il fotoromanzo riprendeva la formula a puntate, che, a lungo la più tipica, consentiva di distendere la storia protraendone piaceri e dolori e fidelizzando il lettore settimana dopo settimana. Dal cinema e dal cineromanzo derivava invece un maggior dinamismo nelle pose e un aumento dell’effet de réel, di contro a un certo antirealismo del fumetto. Può stupire, in tempi di Internet, dvd e tv on demand, che più di recente si sia tornati a lustrare la formula del cineromanzo in fotoromanzi che riprendono soap opera e serie come Il Segreto, Una vita e Violetta: oltre a consentire di recuperare eventuali puntate perse e di prolungare il piacere anche in momenti altri rispetto alla programmazione televisiva, grazie al supporto cartaceo questi fotoromanzi possono essere portati con sé e, rispondendo a un’esigenza affettiva, conservati.
Il fotoromanzo può considerarsi più un genere che un medium, in quanto tipicamente, intrinsecamente intinto di rosa (Anna Bravo). Ne è una riprova lo scarso successo dei tentativi di declinarlo secondo ispirazioni e intendimenti disparati: il fotoromanzo ideologico e quello pedagogico-cattolico dalla metà degli anni cinquanta, quello poliziesco nei sessanta, quello di opinione nei settanta e ottanta ecc. Maggior fortuna ebbe invece il fotoromanzo che dal rosa inclinava al rosso, ovvero quello erotico o senz’altro porno fiorito nei più libertini anni settanta. A quest’epoca risale per esempio «Supersex», che raccontava, o meglio mostrava, le magnifiche avventure dell’eroe omonimo, il cui superpotere consisteva nel secernere dagli occhi un fluido ipnotico dall’infallibile carica erotica. Inutile specificare i capolinea di tali ipnosi, così come dove finivano le ricerche delle sorelle porno-investigatrici protagoniste delle «Avventure di Magika e Magika Jr.» che per qualche tempo apparirono nella stessa rivista come una sorta di b-side.
Con le sopraccennate eccezioni, oggi il fotoromanzo si presenta in forme residuali, di repechage colto o sperimentale. È stato così rivitalizzato online, per esempio nella serie Segreti d’amore, leggibile all’indirizzo www.fotoromanzoweb.it, ma è anche stato finalizzato a intendimenti satirici, come nei fotoromanzi, realizzati da Stefano Disegni, apparsi sull’inserto domenicale del «Fatto Quotidiano» (riuniti e pubblicati in un volume significativamente intitolato Roba da fotoromanzi, 2012), oppure riesumato in chiave artistoide, come è avvenuto nella raccolta Io e Calliope (sempre 2012) di Ileana Florescu, dove serve a rileggere grandi classici, dal Piccolo principe al Maestro e Margherita.
A parte questi episodi e scomparse le testate interamente occupate da fotoromanzi, come quelle della storica casa editrice Lancio (1961-2011), pare indicativo che a sopravvivere sia oggi unicamente «Grand Hotel», che fin dagli esordi – accanto ai fotoromanzi, che si configuravano e si configurano come la cifra specifica della pubblicazione – si è dotato di sezioni quanto mai varie, che vanno dall’oroscopo alla posta del cuore, dalle ricette ai servizi sui divi, dalla programmazione radiotelevisiva alle rubriche di varia utilità. Se ciò comprova l’indebolimento dello statuto autonomo del fotoromanzo, d’altra parte la spigolatura delle ultime annate di «Grand Hotel» consente alcune considerazioni sui suoi sviluppi più recenti.
La rivista, da sempre in formato rotocalco, ospita alcuni fotoromanzi con storie complete (due o tre, a seconda della loro estensione, che in genere si assesta sulle 14 pagine, ma può arrivare a 30) e una sola puntata di una storia più lunga, calibrata sullo standard delle 12 puntate. Ogni pagina presenta dai sei agli otto riquadri fotografici: rispetto ai primordi del fotoromanzo, quando la parola strabordava sull’immagine, e rispetto all’evoluzione degli anni settanta e ottanta, di risecamento della parola, più di recente le due componenti risultano ben equilibrate. Come da tradizione fotoromanzesca, le fotografie sono dominate dai personaggi, a discapito dei dettagli degli ambienti e dei panorami, peraltro poco adatti viste le piccole dimensioni dei riquadri. Per evitare la monotonia, le inquadrature vengono sempre alternate, anche solo con minime differenze; in particolare si succedono primi piani, cui si demanda l’indicazione dello stato d’animo dei personaggi, e piani americani, che li collocano nel loro ambiente sociale. Oggi come ieri, le narrazioni dei fotoromanzi si svolgono per lo più in interni, da un lato psicologicamente rassicuranti o riposanti per chi legge (non a caso, per il rosa si è chiamata in causa la perversione della claustrofilia), dall’altro portate dai limiti economici e tecnico-realizzativi del fotoromanzo, per cui le riprese in esterni e in trasferte comportano maggiori costi e problematicità rispetto a quelle in interni. Quelli oggi rappresentati nei fotoromanzi sono interni di livello medio-basso e popolare, di modo da consentire, presumibilmente, l’immedesimazione della lettrice e come un senso di familiarità fra storia e storia. Che i fotoromanzi, a differenza del rosa, abbiano rinunciato a offrire un sogno lo confermano anche gli abiti casual indossati dai personaggi, che d’altronde fanno lavori che pagano l’affitto.
Il comparto verbale è dominato dai dialoghi. Le didascalie appaiono estremamente ridotte; a loro viene in genere demandata l’esplicitazione del cambio di scena, anche se a tal fine può essere sufficiente un cambio pagina. Come è stato appurato, chi legge il fotoromanzo è d’altra parte in grado di decodificarlo attuando una «grammatica ellittica» (Evelyne Sullerot) che riempie i vuoti tra le fotografie e che permette di considerare “scena” una successione di immagini poco pregnanti. In ogni caso si tratta di un tempo lineare, poiché la forma fotoromanzo mal tollera digressioni o anacronie nella narrazione, che difatti appaiono sporadiche e al più protratte per breve, qualche vignetta al massimo.
Mentre il più breve fotoromanzo completo racconta storie che evolvono in pochi giorni, quello a puntate tende a dilatarne la durata da un paio di settimane a qualche mese, intrecciando quattro o cinque fili narrativi. Limitandosi a presentare i protagonisti nei loro ambienti, la prima puntata appare in genere piuttosto sconclusionata, ma ben presto i fili narrativi prendono a intrecciarsi. Si svelano così al lettore i meccanismi di un ingegnoso traliccio narrativo poggiante su un tradizionalissimo quanto inverosimile repertorio romanzesco di morti apparenti, parti gemellari, separazioni alla nascita, agnizioni e via dicendo. Il taglio delle puntate in punti cruciali serve a prolungare la durata del fotoromanzo e, solleticando la curiosità sul come va a finire, a consolidarne l’abitudine all’acquisto: così per esempio si chiudono la seconda e l’undicesima puntata di Naufraghi (2016): «Questa è l’ora della verità», «Scusa l’interruzione e procedi con il racconto, che mi interessa moltissimo». Poiché resta dubbio che si ricordi, di settimana in settimana, dove la storia era rimasta, vi è sempre un riassunto delle puntate precedenti.
Sia che si presenti a puntate che come storia completa, nei finali non solo si scopre che tutto si tiene, ma viene prospettata una strada aperta e in discesa. Forse per influenza delle soap opera, che oggi appaiono il medium rosa più forte, si preferisce lasciare il senso di un flusso continuo, che prosegue oltre la parola “fine”. Il moderato ottimismo, talvolta conciliato con l’esplicitazione di finalità edificanti non estranee ai generi paraletterari (cfr. «solo in questo modo, dicendo la verità, si può davvero sperare di ricominciare da zero»: Un’ultima volta ancora, 2015), esclude di massima le statiche chiuse fiabesche, che sono difatti rarissime. Nell’ultima vignetta del fotoromanzo Il paradiso c’è ancora (2015) la didascalia recita: «Si scatena l’esultanza! In un attimo si rinnovano sogni e amicizie e si realizza l’utopia del bene che vince sul male», ma l’eccezionaiità dell’avvenimento richiede in chiusa il commento metatestuale: «È proprio una favola, vero?». Specchio dei tempi, a sigillo della storia non vi è mai il matrimonio, anche se nelle fotografie finali figura spesso una coppia, a implicito e rassicurante recupero di un love world familistico. Come è ancora tipico della paraletteratura, va d’altra parte ricordata la centralità dei lettori, da accontentare. Chi sceglie di leggere un fotoromanzo sa cosa lo attende e ha fiducia nel narratore. Sa che patirà, insieme ai protagonisti, situazioni di svantaggio (privazioni affettive o economico-sociali, minacce, prove o semplicemente malintesi), ma sa altrettanto bene che la sua sofferenza verrà infine risarcita dal trionfo della giustizia.
In un reticolo narrativo tanto vincolante sono immancabili i commerci sentimentali, che però negli ultimi anni, forse proprio perché del tutto attesi o usurati, di rado guadagnano il proscenio. L’amore, naturalmente amaro, c’è, ci mancherebbe altro, ma sembra più un ingrediente necessario che predominante, mentre sono del tutto assenti i rosacei drammoni dai toni piangevoli, così come la riflessione e l’autoriflessione dei personaggi, per le quali, d’altronde, la pagina fotoromanzesca non dispone di spazio. Ad attirare l’attenzione è piuttosto il coté avventuroso e l’apertura ai temi dell’attualità, pur storicamente tutt’altro che ignoti al fotoromanzo. Sulle pagine di «Grand Hotel», nel 2016 sono per esempio apparsi i fotoromanzi Naufraghi, incentrato sui profughi iracheni e siriani, e Femminicidio. Se l’atteggiamento verso questi e altri temi – come la droga, l’immigrazione, l’omosessualità, il razzismo – è in ogni caso alieno da ripiegamenti misoneistici o quietismi retrogradi, si nota ancora una certa superficialità e un accumulo tematico secondo un criterio puramente addizionale. Nella puntata unica Fratelli minori (2015), per esempio, si narra di Fabio, uno sceneggiatore senza ispirazione, conteso fra la dolce Lara, ex del fratello morto, e la più esuberante Elsa, sorella di Lara, da poco lasciata dal marito per «Mark, uno skipper neozelandese di stanza a Berna». Elsa porta Fabio a letto, dopo averlo rassicurato di prendere la pillola anticoncezionale. Bugia, perché in realtà l’obiettivo di Elsa è quello di farsi ingravidare. Fabio, dopo aver scoperto che Elsa non prende la pillola perché salutista e vegana e che Lara è innamorata di lui, pensa bene di fuggire. La breve separazione gli serve a comprendere che ama da sempre Lara, con cui finisce per mettersi, mentre Elsa aspetta un figlio da lui. Alla fine tutto resta in famiglia.
Qualche novità presenta la delineazione dei personaggi e il loro rapporto reciproco. Anzitutto parrebbe da ridimensionare il protagonismo femminile: le donne sono semmai comprimarie, ancora come nelle soap opera, e non rispondono più all’archetipo della piccola fiammiferaia, ricettacolo di sfortune assortite e forte della sua capacità di sopportarle. Tutt’altro che masochiste e lige alla morale lialesca della rinuncia che premia la remissività e punisce i comportamenti aggressivi, le donne dei fotoromanzi lavorano, tengono testa agli uomini e il più delle volte finiscono per migliorarli. Nobilitano se stesse non attraverso la sofferenza e il martirio, ma agendo in prima persona. Prendono anche – tutte, non solo le antagoniste – l’iniziativa amorosa e sessuale, e ne parlano con libertà: «Lo sapevo che ce l’avresti fatta a portarti a letto il francesino il primo giorno!», «Niente riassunti, io voglio sapere come te lo sei fatto con tutti i dettagli porno!», spettegolano alcune studentesse universitarie in Amori implacabili (2015); mentre la dolce barista di Un’ultima volta ancora (2015) può così implorare un avventore del bar diventato suo amante: «Prendimi Cesare… prendimi… è molto tempo che non sto con un uomo».
I personaggi dei fotoromanzi appartengono di massima alla gente comune che, come tutti, lavora, ama e sbaglia. Sono piacenti, snelli, di età compresa fra i venti e i quarant’anni (la lettrice più attempata non ama vedere rappresentata e oggettivata la sua età, ma preferisce proiettarsi in una ragazza più giovane); hanno la pelle chiara e sono di nazionalità italiana: i pochissimi extracomunitari svolgono quasi sempre lavori subordinati o considerati più umili. Oltre alle titaniche contrapposizioni fra buoni e cattivi, sembra altresì perso il gusto per il fenotipo, che per esempio contrapponeva la bionda angelicata alla bruna, donna di passioni; a sopravvivere è solo il belloccio di turno, oggetto dell’ormai legittimato desiderio femminile. Non a caso sono sempre gli uomini ad apparire discinti: a torso nudo mentre si rivestono dopo una notte d’amore, quando escono dalla doccia, quando sono a letto, mentre zappano… ogni occasione è buona. Possono apparire mezzi nudi persino quando si trovano in prigione: nel fotoromanzo Testa calda (2015) una didascalia ci avverte così che «Nadia entra in cella. Fabio indossa soltanto un paio di slip, peraltro molto ridotti», e si vede.
L’annotata virata dagli alati e impudichi sentimentalismi si riflette al livello linguistico in scelte quotidiane, talvolta al limite del corrivo, comunque molto lontane da quell’italiano placcato oro che in passato ha caratterizzato la lingua del fotoromanzo. Al più, una tendenza verso l’alto si riconosce in scelte onomastiche mediamente ricercate, che mettono in scena Alberichi, Allegre, Corinne, Olghe, Sharon ecc., e più in generale nelle didascalie, dove possono depositarsi vaghi poeticismi (per esempio «sontuoso tramonto che incendia il cielo siciliano», «Pietro posa su di lei uno sguardo che stilla veleno e disprezzo», Amori implacabili) o usi che appaiono troppo scelti rispetto al medium: «Scampata al rischio d’infrangersi sul cranio dello sventurato Fabio, la bottiglia è prosciugata dai due improvvisati coinquilini, dinanzi alle ultime sequenze della soap», Fratelli minori. Simili scampoli disturbano il critico, ma viceversa possono venire considerati manifestazioni di bell’italiano dalle lettrici; in particolare, sembrerebbe, dalle lavoratrici immigrate, che apprezzerebbero il fotoromanzo anche quale ausilio all’apprendistato della lingua italiana.
Diversamente da quanto accade nei romanzi rosa, il dialogato mostra una tendenza fino eccessiva alla sintesi e alla perspicuità comunicativa, inevitabilmente perdendo in verosimiglianza. Poco praticati sono infatti le sporcature e gli stilemi tipici del parlato, come per esempio le allocuzioni e le interiezioni («Cristo santo, era tuo fratello!», Fratelli minori), la sintassi marcata («prima o poi lo becco quel verme», «Il cannone ce lo fumiamo all’uscita», Amori implacabili) o l’incardinamento nella situazione tramite deissi («ho voglia di fare l’amore con te… adesso… qui…», Due sconosciuti). In alcuni casi si assiste a una mimesi tentativa, come nel riecheggiamento della parlata siciliana di un boss ottantenne, tale zi Peppe («Parli con l’accento romano, ma sempre femmina sicula fosti, mizzica!») o nell’ipercaratterizzazione, in fin dei conti più comica che mimetica, del linguaggio giovanile («See, sciallo a oltranza, bimba! Certo che domani mi libero, non vedo l’ora… Ti voglio stilosissima, devi farmi flashare, gioia ! », Amori implacabili).
A qualificare questo italiano di base è piuttosto la preferenza per le espressioni idiomatiche («m’ha gonfiato di schiaffi», «Piantala di fare il bullo!»), soprattutto poggianti su similitudini: si veda «se uno prova a mettermi le mani addosso lo gonfio come una cornamusa», «Dovrei dirti che sono contenta di vederti piombare a casa mia a notte fonda, sbronzo come un vikingo, sudato come un maiale e fuori come un balcone?», «non ci devo provare come un mandrillo…», «C’è un “non detto” che pesa su entrambi come un macigno». Immancabili anche i cliché, che con la loro ricorsività e modularità fungono da riposante, piacevole ritrovamento del già noto: «Tormentosi ricordi», «Ricordi incancellabili», «Lente lacrime gli scorrono sul volto» (esempi tratti, come i precedenti, da Amori implacabili), «questa è l’amara verità» (Un’ultima volta ancora), «da tempo immemore», «mi hai usato per i tuoi sporchi fini» (Fratelli minori) ecc. A rincarare l’espressività si può ricorrere al turpiloquio, indifferentemente poggiato su bocche maschili e femminili: «Se hai la fregola di farti una sveltina, cercati una delle tue amichette e non venire a rompere le palle a me! Sei un verme, sparisci!», può sbraitare la giovane Marilù contro Paolo, che da parte sua, qualche pagina prima, l’aveva accusata di darla a un altro (Amori implacabili). Nel lessico, infine, si segnalano alcuni forestierismi legati all’informatica (mail, smartphone, skype, il marchionimo Trip Advisor, anche con uso figurato: «Per qualche dolcissimo istante, un’ondata di desiderio gli mette in stand-by ogni altro pensiero»), notevoli perché presuppongono una lettrice preparata a comprenderli. D’altronde le nuove tecnologie entrano negli intrecci narrativi, in particolare come espugnabilissime e perciò pericolose depositarie di messaggi amorosi.
Indice inequivocabile che anche le lettrici “fotoromantiche” siano passate dal tempo delle mele al tempo delle mail? Può darsi. Sicuro è che grazie a questi giornali da serve, come sono stati sdegnosamente bollati, le lettrici possono ritagliarsi qualche quarto d’ora tutto per sé. Pur con le sue tare di convenzionalità tematica e formale – che derivano dalle regole della produzione in serie, dalle caratteristiche tecniche del medium e dalle specificità di confezionamento del genere, consolidate e soprattutto attese dal pubblico –, la lettura del fotoromanzo assomiglia a un’oasi. Un’oasi che fortunatamente resiste, pur erosa e astretta fra le paludi narcisistiche o voyeuristiche dei social network, da un lato, e, dall’altro, media competitori come le soap opera, il finto show dei reality e l’infotainment sciacallo dei pomeriggi televisivi nazionalpopolari, che soddisfano il medesimo bisogno di evadere e di specchiarsi dentro una lacrima.