La collaborazione per ragazzi

Cicliche o divise in episodi autoconclusi, le narrazioni seriali per bambini e ragazzi hanno riscosso nel corso degli anni duemila un vistoso successo commerciale, riverberato da adattamenti in altre nazioni o in altri linguaggi transmediali. I vincoli di costruzione posti esigono oggi lo sforzo non più di un singolo, quanto di un team di scrittori. Una modalità di scrittura collaborativa che si avvicina a quelle già praticate da tempo da fumetto e cinema; e che costringe a un ripensamento del ruolo dell’autore.
 
Dal libro all’IP
Era il 1905 quando Edward Stratemeyer, nato a New York da genitori tedeschi, creava lo Stratemeyer Syndicate, una vera e propria “fabbrica” di talenti letterari, da lui stipendiati e organizzati per servire da ghost writers a una vasta produzione di titoli per bambini e ragazzi, che poi Stratemeyer editava e ripubblicava sotto gli pseudonimi più diversi. Nacquero così alcuni classici della letteratura d’intrattenimento per ragazzi, come le serie Tom Swift (1910), The Hardy Boys (1927) e Nancy Drew (1930), premiate da un istantaneo successo di pubblico e di lunga durata negli anni.
Nel 2004, il «New Yorker» scriveva che quel che Edward Stratemeyer aveva inaugurato per l’editoria per ragazzi assomigliava a ciò che Henry Ford aveva compiuto per le automobili: una rivoluzione. A ben vedere, Stratemeyer non aveva fatto altro che trasferire nell’ambito della creazione di serie letterarie un metodo organizzativo che altri media, come il cinema o il giornalismo, conoscevano da tempo. Eppure il preconcetto romantico di un autore isolato, capace di informare l’opera d’arte della sua irriducibile singolarità, perdurava intatto attraverso i decenni e rendeva innovativa, ai limiti dello scandalo, l’idea di un opificio di scrittori capaci di lavorare insieme.
Oggi, in Italia come all’estero, il metodo Stratemeyer alla creazione di prodotti seriali per bambini e ragazzi trova una fortunata applicazione in alcune delle più moderne factory di contenuti transmediali. Vere e proprie macchine per l’invenzione del bestseller, queste aziende assoldano manovalanza creativa di vario genere allo scopo di fondare un universo narrativo, dare alla luce un personaggio o un’ambientazione fantastica, in breve di generare una IP, una intellectual property. È l’IP, infatti, e non soltanto il libro, il bene primario della nuova industria dei contenuti, la moneta da spendere tanto sul mercato editoriale quanto sul mercato delle licenze, dell’audiovisivo e del merchandising. Senza che i secondi siano necessariamente derivazioni del primo, come dimostrano i recenti casi di Masha e Orso o Peppa Pig.
Inoltre non ogni serie è creata uguale: esistono serie aperte, formate da una successione di episodi che cominciano e finiscono, e serie chiuse, in cui il ciclo della narrazione è unitario, ma spezzato per ragioni di opportunità editoriale in più volumi. Le prime presentano flat characters di nessuna evoluzione nel corso delle puntate, le seconde tracciano un arco di cambiamento per i personaggi, dall’inizio alla fine della storia. Le prime, come Diario di una Schiappa, attraggono anche i lettori occasionali; le seconde, come Percy Jackson o Hunger Games, presuppongono lettori forti. Tra i due modelli esistono invero molte ibridazioni, ma scrivere serie rimane un esercizio per esperti, ad alto coefficiente di imprevedibilità: la committenza o i lettori possono imporre di continuare o terminare improvvisamente la storia che ci si preparava a raccontare. Da qui deriva l’esigenza di mettere in pentola una narrativa liquida, che sappia diluirsi in molte o poche puntate e che sappia mescolarsi, senza contaminarsi troppo, come ingrediente di base di possibili futuri adattamenti. Un lavoro per cui non basta un cuoco, ma serve almeno un’intera cucina.
 
Fabbriche di sogni: Atlantyca e le altre
Transmediale sin dalla fondazione, Atlantyca Entertainment è l’azienda italiana che ha costruito nel tempo un impero di estensione sovranazionale grazie alle sue fortunate serie per ragazzi e alle relative proprietà intellettuali. Atlantyca nasce a Milano nel 2006, su iniziativa di Pietro Marietti ed Elisabetta Dami: entrambi lasciano la casa editrice di famiglia per un gruppo di nuova concezione, che già dall’inizio include una divisione Animation and Distribution per lo sviluppo dei progetti audiovisivi, una divisione Consumer Products che si occupa di acquisire e gestire licenze e un’agenzia per la vendita dei diritti di traduzioni. La società controlla la IP Geronimo Stilton, un colossale brand che assomma centinaia di libri, serie animate, application, videogiochi e quasi centotrenta milioni di lettori in tutto il modo. «Storie da ridere», «Grandi libri», «Cronache dal Regno della Fantasia», «Grandi classici», assieme a tutti gli spin-offs ambientati in tempi e luoghi diversi da Topazia, o dedicati ai tanti characters comprimari del topo investigatore, sono infatti sviluppati da una divisione editoriale dell’azienda che opera di concerto con lo staff dell’editore Piemme.
Appena un anno dopo, Atlantyca vara Dreamfarm, una società di consulenza e factory letteraria che si incarica di progettare idee di libri per bambini e ragazzi. Il nuovo ramo d’azienda raccoglie, sotto l’egida di Pierdomenico Baccalario, autori e illustratori di provata esperienza, perché lavorino in team alla stesura di un progetto editoriale: l’idea è poi proposta per l’acquisto a editori italiani o stranieri, e affidata infine alla scrittura di un solo componente della squadra creativa. Grazie a questo metodo, dal 2007 al 2016 (anno in cui Atlantyca ha chiuso Dreamfarm e riassorbito le sue attività all’interno dell’azienda madre), nascono serie di straordinario successo commerciale per Piemme, Mondadori, Giunti, Salani, Nord-Sud, Fazi e molti altri. Sono Agatha Mistery, Century, Milla & Sugar, Klincus Corteccia, Ulysses Moore, Sherlock, Lupin & io, La bottega Battibaleno, Dino amici, Milly Merletti. Atlantyca ha una serie per ogni genere e per ogni fascia d’età: i suoi titoli colonizzano i cataloghi di molti marchi editoriali e affollano gli scaffali delle librerie, facendosi spazio accanto alle collane di romanzi singoli come «Battello a vapore», «Gl’Istrici» o «Oscar Junior» Mondadori, che avevano invece dominato il decennio precedente.
Gemme editoriali dalle molte facce sono anche le serie Pimpa o Giulio Coniglio, che Panini pubblica, di concerto con i rispettivi autori, in diverse edizioni e formati; vere e proprie IP per i più piccoli, vantano numerosi adattamenti in animazione, applications, riduzioni teatrali, movimentando un intenso traffico di licenze. Tra le altre industrie che si avvalgono di una squadra di creativi valgono senz’altro una menzione: Marvel Comics, che inserisce ed espunge scrittori e disegnatori sempre diversi per lavorare intorno alle sue storie; Alloy Entertainment, una factory specializzata nelle serie per ragazzine (.Gossip Girl edito da Fabbri e poi da Rizzoli); Disney, che propone novelizations in serie delle sue proprietà di maggior successo (un nome per tutti: I diari di Violetta). E infine, la fucina di scrittori di James Patterson, un marchio di fabbrica da trecento milioni di copie.
Come tutti gli autori, anche Patterson ha iniziato la carriera con un solo libro: nel corso del 2016 ne ha già pubblicati quindici, ed è perennemente in cima alla classifica di «Forbes» degli autori più pagati al mondo. Patterson, che pubblica principalmente serie per adulti e per ragazzi (scuola media), non fa mistero di avvalersi di una nutrita squadra di coautori e di revisori, specializzati per genere. Il suo metodo creativo – spiegò nel 2010 il suo editor Michael Pietsch al «New York Times» – consiste nel consegnare una sinossi dettagliata a uno dei suoi ghost writers, che scrive i capitoli e che li restituisce a Patterson per la lettura, la revisione e, se necessario, la riscrittura. Nel descrivere il lavoro del suo maestro, Pietsch cita Duke Ellington: come il celebre compositore jazz, anche Patterson «ha bisogno di un’orchestra, per sentire come suona la sua musica».
 
Dall’industria dei contenuti all’artigianato delle storie
A metà tra un direttore d’orchestra e uno “spacciatore di storie”, Pierdomenico Baccalario può a buon diritto definirsi il James Patterson italiano. Già qualche tempo prima che l’esperienza presso Atlantyca Dreamfarm terminasse, Baccalario capitaneggiava gli “Immergenti”, un manipolo di autori determinati, più che a emergere, a «tuffarsi nel mondo dei sogni» e farsi creatori di storie per ragazzi. Oggi vive tra Acqui Terme e il Regno Unito, dove ha fondato Bookonatree, «one-of-a-kind Literary Agency». Nella valigia Baccalario ha messo quel metodo di scrittura collaborativa che aveva inaugurato come “immergente” e che ora dà linfa all’albero delle sue storie.
Bookonatree commercia con editori di tutto il mondo, offrendo idee di progetti editoriali, in serie o stand-alone, l’agenzia promette ai clienti: «when you hire one of our authors, you hire the entire team» («quando vi affidate a uno dei nostri autori, vi affidate all’intera squadra»). Dalla combinazione di talenti e competenze assai specifiche Bookonatree può diramare un’infinità di narrazioni diverse, in almeno quattro lingue, ma più che alle potenzialità creatrici della sua squadra, Baccalario sembra interessato al sodalizio che si crea tra i suoi autori: nelle sue parole, in un’intervista per «Tirature» del settembre 2016, Bookonatree è «un circolo collaborativo» fondato su uno «scambio di tipo etico, e non commerciale», i cui partecipanti sono scelti «sulla base di entusiasmo e fiducia» e possono «contare l’uno sull’altro».
I soci di Bookonatree non si danno regole compositive, ma sono tenuti all’osservanza scrupolosa di un codice di condotta. «L’idea può venire da dovunque e da chiunque»: dalla committenza, da un’occasione di incontro o da un file condiviso su Dropbox. Su quest’idea è concesso «aggiungere, in maniera alluvionale, dettagli, pareri, consigli». O domandare una consulenza, prima di cominciare la stesura: «all’esperto di biomi, Jacopo Olivieri; al genio delle trame, Alessandro Gatti; o di ambientazione fantasy, Marco Menozzi». «Progettiamo insieme le opere, le assegniamo al nostro interno, ma non siamo un collettivo di scrittori», racconta Baccalario. «Ciascuno è responsabile del proprio lavoro, su cui mette la firma.» Pur condividendo l’ideazione complessiva e i contatti editoriali, hanno stili diversi e rivendicano personalità distanti. Però si editano vicendevolmente, e si divertono moltissimo. «L’aiuto è sulla costruzione della storia, e non sulla scrittura: la scrittura nel nostro gruppo viene dopo l’incanto di aver costruito un mondo.»
Alla ripartizione dei carichi di lavoro corrisponde un’uguale ripartizione dei proventi, divisi tra autore designato, agenzia ed eventuali consulenti. Cifre e percentuali sono scritte nero su bianco in contratto prima che la stesura cominci: «non c’è stigma a parlare di denaro». Non è raro che il gruppo si occupi di coaching letterario per scrittori che non sono soci, o che pubblicano per adulti, interessati a capire come si imbastisce una narrazione a puntate.
A Baccalario e agli autori che da anni lo accompagnano è unanimemente riconosciuta un’imbattibile esperienza nell’invenzione di articolati universi seriali. Complici i numerosi noms de plume dietro i quali il clan ama celarsi, però, l’attrazione commerciale per il suo marchio ha forse preceduto l’assegnazione di valore letterario da parte della critica. Come è accaduto per il cinema prima, per il fumetto e le serie tv poi, l’istituzione fatica a legittimare creazioni di intrattenimento che non siano il parto faticoso di un’unica mente artistica. Lo show runner di Bookonatree al contrario considera la serialità «un valore assoluto nella narrativa per ragazzi, dai tempi di Dickens o di Dumas», e rivendica per sé un ruolo da artigiano, non dissimile da quello di uno chef o di uno stilista che si circonda di validi collaboratori. O da quanto accadeva nelle botteghe italiane del Rinascimento, dove i grandi artisti si formavano imparando gli uni dagli altri. «Ancora oggi ci basta attribuire un qualsiasi quadro a questa o quella “scuola” per vederne salire le quotazioni.»