Il gusto del fumetto seriale

La narrazione a fumetti nasce seriale: è infatti solo grazie alla giustapposizione di elementi simili tra vignetta e vignetta che si può trovare un senso alla pagina. Un meccanismo che ad ampio livello si è specchiato sin da subito nella pubblicazione periodica su quotidiano, rivista o albo da edicola. Dalle epopee dei supereroi americani ai manga giapponesi, passando dalle pubblicazioni nostrane, le serie a fumetti si trovano oggi a dover convivere con il successo della loro antitesi: il graphic novel. Ma il conflitto è solo apparente.
 
Il fumetto costituisce sin dalle sue origini uno dei regni della serialità narrativa. Il suo legame germinale con la periodicità giornalistica, la sua capacità di istituire relazioni con i lettori dalle competenze più elementari, l’aver elaborato i propri codici espressivi mentre si venivano plasmando le forme più standardizzate della comunicazione editoriale hanno fatto sì che i meccanismi fondamentali del linguaggio fumettistico assecondassero le necessità del racconto seriale. La sintassi stessa della rappresentazione a fumetti replica sulla pagina, per sua intrinseca fisionomia, i propri elementi costitutivi: solo dalla giustapposizione di immagini simili, dalla reiterazione protratta della copia, è possibile ottenere la piena funzionalità della concatenazione di senso che lega fra loro le vignette di una tavola a fumetti.
Ciò che appare scontato nella realizzazione del segno alfabetico e nella produzione di testi verbali, sulla base della sequenziazione combinatoria di pochi fattori significanti, appare assai meno scontato nella realizzazione del disegno e nella referenzialità mimetica a esso sottesa. L’immagine figurativa, nel sistema tradizionale delle arti, si propone come unicum a specchio dell’unicum costituito dall’oggetto individuo in essa rappresentato: e tale presupposto vige anche in un contesto di avanzata riproducibilità tecnica, dove permane una distinzione di fondo tra l’originale e la copia, tra l’originale e la sua immagine. Nel fumetto invece l’immagine figurativa appare proiettata in un meccanismo di rifrazione indefinita, lungo il quale non si dà un semplice rapporto dualistico immagine-oggetto, ma si crea una successione sfaccettata di relazioni immagine-oggetto e immagine-immagine, all’interno dell’opera stessa.
Il racconto a fumetti sorge dalla concatenazione di disegni per molti versi uguali o, diciamo, poco meno che uguali, sulla medesima pagina. La riconoscibilità e l’identità delle figure sono i presupposti essenziali affinché la storia possa avere uno svolgimento, affinché cioè il lettore-osservatore possa riconoscere personaggi e situazioni, e istituire tra di essi gli indispensabili vincoli di continuità e consequenzialità logico-causale. Solo la riproduzione protratta dell’uguale consente l’insinuarsi e il delinearsi in esso del diverso, ossia consente la variazione e lo sviluppo: è quanto contraddistingue il fumetto più che altri campi espressivi della modernità, proprio perché l’uguale e il diverso convivono a pari titolo sulla medesima pagina, ciascuno riconoscibile in quanto uguale o diverso e insieme ciascuno ricollegabile all’altro da sé, diverso e uguale, al fine di suscitare la dinamica del cambiamento, indicare la traiettoria del racconto. Nel fumetto la felicità candida di ritrovare il noto, anzitutto mediante la riproposizione delle medesime immagini, tali e quali, lungo la successione della striscia così come da una tavola all’altra, è inscindibile dal gusto di inoltrarsi nell’avventura e di scoprire il nuovo, il sorprendente, il perturbante, che in essa si annidano.
Si capisce come un linguaggio espressivo così intimamente impostato sulla ripetizione-variazione delle sue unità compositive fondamentali sia apparso idoneo alla costruzione di racconti e di formati che poggino in via preminente sul rinsaldamento del contatto e dell’intesa con il lettore mediante effetti di durata, modularità, riconoscibilità. Sia nel quadro della pubblicazione periodica su quotidiano o rivista, sia nel quadro della pubblicazione in forma di albi dedicati, per grandissima parte del Novecento il fumetto si è avvalso di supporti di diffusione impostati secondo criteri di regolarità e continuità distributiva che potessero punteggiare l’esperienza del lettore secondo le scansioni del conforto abitudinario. Solo attraverso una simile costanza di frequentazione tra autori e pubblico, d’altronde, le modalità convenzionali e stilizzate del racconto avrebbero potuto, come in molti casi è successo, attingere a una complessità e profondità di rappresentazione che sembravano negate in prima istanza nelle misure della singola striscia o della breve successione di episodi. Nei casi più felici di soddisfazione reciproca, anzi, la persistenza della relazione, mediata dal culto del personaggio o gruppo di personaggi protagonista, investe e contraddistingue intere carriere di autori e intere generazioni di pubblico, come attestano le vicende dei Peanuts di Charles Schulz, della Pimpa di Altan, della Mafalda di Quino. Ciò in effetti può avvenire anche in mancanza di albi pubblicati con cadenza periodica regolare o in mancanza di una mediazione editoriale garantita dalla medesima etichetta aziendale; difficilmente potrebbe però avvenire senza l’apporto originale e assiduo di un autore apprezzato: basti a comprovarlo l’esempio della Valentina di Guido Crepax. Serialità e autorialità procedono, come si vede, di pari passo, senza che le presunte banalizzazione e ripetitività della serie nuocciano al prestigio dell’autore o al godimento del pubblico, anche il più navigato. Al contrario, ad accrescere la fama di bravura dell’autore, ad amplificare il compiacimento del pubblico, saranno proprio la continuità e la capacità di innovare il prodotto seriale sullo sfondo del patrimonio fantastico consolidato intorno a esso. Come indica il successo della Pimpa, è pure notevole che, se gli aspetti di ripetitività tendono a prevalere sugli aspetti di innovazione, venga a imporsi un costante ricambio del pubblico, in base al nesso di sostituzione e ammaestramento di una generazione di lettori rispetto all’altra.
La vicenda di Valentina riesce esemplare da un altro punto di vista, posto che Crepax fa a meno non solo di una cornice editoriale regolare per la sua più fortunata creatura, ma anche di quei tratti di invarianza che per solito consentono di ritrovare un protagonista della narrativa seriale a fumetti sostanzialmente identico a se stesso, almeno sotto il profilo anagrafico e fisionomico. Valentina da una fase all’altra delle sue avventure avverte crescere su di sé il peso degli anni e va incontro al riassetto delle relazioni più importanti che concorrono a determinare il suo vissuto psicosociale. Mentre per lo più gli eroi della serialità fumettata presentano i contorni semidivini della stabilità caratteriale ed esistenziale, Valentina è oggetto, tra i primi in ambito fumettistico, di una serializzazione per così dire sperimentale: qui gli apporti della variazione e della novità rispetto ai presupposti acquisiti possono incidere notevolmente sullo spessore dell’opera, senza che perciò venga meno la possibilità di qualificarla come opera seriale.
Laddove non s’impone un progetto d’autore altrettanto marcato, è il progetto dell’editore che subentra ad assicurare una disponibilità costante e cadenzata del prodotto e a salvaguardare quella reiterazione dei tratti distintivi della serie che ne favoriscono il riconoscimento e l’apprezzamento pluriennali da parte del pubblico. E in quest’ambito, nel seno degli apparati redazionali più attrezzati, attraverso la divisione del lavoro e la catena di montaggio editoriale, che si affermano le formule davvero estese ed epocali della serialità a fumetti. Si tratta fra l’altro del settore di produzione in cui l’autonomia e la specializzazione degli editori fumettistici appaiono storicamente più rimarchevoli. Sergio Bonelli Editore e The Walt Disney Company Italia sono stati, attraverso la seconda metà del Novecento, i fautori più rappresentativi di questa maniera d’intendere la serialità a fumetti; ma secondo criteri affini opera la gran parte degli editori postbellici che poggia la propria offerta su prodotti fumettistici di concezione e realizzazione italiane, dalle Edizioni Alpe di «Tiramolla» all’Editrice Astorina di «Diabolik», dall’Editoriale Corno, che avvia la diffusione di «Alan Ford», alla Edifumetto, cui si devono le storie delle sexyeroine più sbracate degli anni settanta.
Formato editoriale di albo spillato o brossurato, distribuito in edicola, intestato all’eroe protagonista e contenente un episodio autoconcluso delle sue imperterrite avventure, destinate a riproporsi indefinitamente nei numeri successivi della pubblicazione: è questa l’incarnazione tipica della serie fumettistica industriale, a cui possono lavorare équipe di sceneggiatori, disegnatori, inchiostratori, letteristi dalla geometria assai variabile. Qui l’eroe deve mantenere inalterati i suoi tratti distintivi, e può acquisire uno statuto di presenza archetipica nell’immaginario collettivo, come se si fosse fatto da sé, proprio perché la sua testata prevede un inizio ma non una fine, in una sorta di grandiosa sfida contro il tempo edace, ma anche perché diverse mani e concezioni autoriali si integrano e alternano all’elaborazione di nuovi episodi della serie, osservando le regole del gioco che i suoi creatori originari hanno loro affidato.
L’ambizione di tenuta sempiterna che gli editori sfoggiano nei contesti creativi del racconto seriale sembra riecheggiare, entro il cuore del sistema produttivo moderno, le misure dell’epicità e della ciclicità narrativa arcaica; paradossalmente, tale ambizione mostra anche di disconoscere e quasi di voler esorcizzare quel moto di dissoluzione e ricreazione incessante che coincide con la modernità industriale stessa. Il trionfo della serialità fumettistica procede da un duplice, contrastato dinamismo, secondo il quale per un verso è l’accresciuta articolazione dell’apparato produttivo a consentire il perfezionarsi e l’ampliarsi della narrazione seriale, mentre per altro verso è proprio nella narrazione seriale che si ritrovano mezzi di assestamento e appropriazione del processo di mutamento persistente innescato dal divenire della modernità.
Vero è che alla serialità potenzialmente indeterminata delle testate e degli eroi a cui è più legata la memoria del pubblico novecentesco, da «Tex Willer» a «Dylan Dog», da «Topolino» a «Rat-Man», si affianca una serialità a termine, capace di prevedere e progettare l’ampia parabola del proprio sviluppo d’insieme nello stesso tempo in cui tende a riprodurre, nelle sue membrature, le modulazioni episodiche dell’avventura coincidenti con il respiro del singolo albo. Ecco in proposito le pubblicazioni one-shot o le miniserie costituite di poche manciate di albi mensili, che assolvono fra l’altro il compito di sondare la sensibilità dell’utenza verso possibili nuove filiere di sviluppo dell’offerta fumettistica: «Ut», «Hellnoir», «Tropical Blues» di Bonelli; «Detective Dante», «Alice Dark» e «Long Wei» di Eura/Aurea Editoriale. Ecco ancora la sperimentazione di periodicità inconsuete, a cadenza bimestrale o trimestrale, utile specialmente a fronteggiare i momenti critici della congiuntura.
Ma ecco soprattutto le serie che presentano non un andamento episodico-lineare, in cui ciascun albo racconti un’avventura puntuale dell’eroe entro una collezione aperta e unidimensionale di avventure intercambiabili, bensì uno sviluppo ciclico-progressivo per macrosequenze stagionali, ciascuna delle quali si addensi intorno a peculiari motivi o tempi della storia, senza perdere l’opportunità di ricollegarsi a stagioni diverse, prossime o divaricate, quand’anche ciò richiedesse di sormontare ampie anacronie narrative o comunque di muoversi trasversalmente ai parallelismi diacronici che solcano l’itinerario del racconto. Si tratta di quanto viene perseguito da Roberto Recchioni ed Emiliano Mammucari nella saga fantascientifico-avventurosa «Orfani», avviata nel 2013 per Bonelli, e ancora da Recchioni e Lorenzo Bartoli nella saga orrifico-metafisica «John Doe», pubblicata in 100 episodi tra il 2002 e il 2012 per Eura/ Aurea Editoriale, poi riedita in due grandi volumi, limitatamente alla prima stagione, nel 2016, per Bao Publishing.
La serialità episodica indefinita degli eroi novecenteschi viene corroborata dalla disseminazione di plurime ristampe, a intervalli opportunamente sfalsati rispetto alle serie “regolari”, in diversi formati, con variazione della fattura cartotecnica e della finitura stilistica. Alla serie principale “regolare” del resto può essere associata qualche pubblicazione “speciale” atta a offrirne una integrazione o approfondimento contingente, che si distingua per formato, periodicità o contenuto sotto la denominazione di almanacco, enciclopedia, albo gigante e così via. Una simile strategia di diffusione capillare, volta alla saturazione del calendario distributivo, si confà agli obiettivi di autopromozione della serie presso i lettori potenziali mediante le sue varianti periodiche e i suoi corollari o allegati occasionali, ma si confà anche alla sollecitazione dell’anelito collezionistico presso i lettori fedeli e appassionati.
Per altro verso, la più strutturata serialità duemillesca mostra di dare corso all’amplificazione dei propri ritrovati fumettistici attraverso riprese e adattamenti transmediali disinvolti e moltiplicati, complice la socialità reticolare imperniata sul web e sulle metamorfosi della semiosfera digitale. Così, muovendo dalle pagine tipografiche del fumetto, la medesima sceneggiatura può essere rielaborata in vista del telefilm, passando frattanto dalla produzione del gioco di ruolo o videogioco alla confezione del live action movie, in maniera tale che l’interazione tra i diversi media possa generare espansioni della storia architettata nel medium primario e procurare sviluppi significativi in ognuno dei media coinvolti nel progetto. La temporalità estesa e stratificata della serie che si viene articolando in un medium incubatore acquista tratti di maggior coesione ma anche opportunità di ulteriore amplificazione grazie agli sviluppi che il medesimo universo fantastico incontra in altri media.
La struttura del tempo seriale interna all’invenzione narrativa intrattiene vincoli decisivi con la struttura del tempo di fruizione, determinando ricadute cospicue sulla temporalità dell’esperienza esistenziale praticata dal fruitore, posto che con essa il tempo della serie si sovrappone, si interseca e si diluisce. Non ne viene scalfita naturalmente la saldezza del limite tra realtà e finzione, tuttavia le possibilità assicurate al fruitore di immergersi nel mondo fantastico della serie mediante linguaggi modalità supporti diversi, per un tempo prolungato e diffuso, arricchiscono enormemente le risorse di persistenza e di incidenza di quel mondo fantastico nel vissuto mentale del pubblico.
Non può essere sottovalutata in tutto ciò l’influenza prioritaria dell’immaginario telefilmico contemporaneo più autentico e insieme più sofisticato, quello alimentato nell’ultimo quindicennio dalle produzioni globali di matrice americana, da Desperate Housewives a Lost al Trono di spade (un prototipo andrà comunque individuato all’inizio degli anni novanta nel Twin Peaks di Mark Frost e David Lynch). Tuttavia, modalità affini di allargare la tenuta dell’intrattenimento seriale e rinnovare i motivi di interesse della narrazione, almeno per quanto riguarda lo sviluppo del racconto nel medium stesso che lo ha generato, si ritrovano già in pieno Novecento all’interno degli universi supereroici prodotti dalle principali case fumettistiche statunitensi, anzitutto Marvel e DC Comics. Proprio qui, nell’ambito di una tradizione seriale maturata per svariati decenni secondo criteri omogenei di standardizzazione e convenzionalità, nell’ambito di cataloghi editoriali suddivisi in più collane dall’evoluzione parallela, viene perseguita l’integrazione di personaggi, genealogie, schieramenti, trame, paesaggi in un unico mondo poliedrico di storie, rifratto entro collane diverse, gravitanti intorno a eroi diversi, ma passibili di echi, incroci, sovrapposizioni, ritorni, ricostruzioni: in ciò che insomma prende il nome di continuity, senza che la singola testata o la vicenda del singolo eroe possa smettere di essere goduta anche in relativa autonomia rispetto agli intrecci e ai caratteri esogeni che vi vengono talvolta innestati.
Si tratta di processi editoriali che arrivano a essere tematizzati per via narrativa nell’ambito delle serie stesse da cui scaturiscono, come attesta da ultimo l’impegno allegorizzante e mitopoietico dispiegato da Grant Morrison, sulla falsariga delle teorie cosmologiche più fascinose, nel panteon supereroico di The Multiversity (DC Comics, 2014-15; tradotto in Italia da RW-Lion, 2015). Ma sono anche processi che possono suscitare le riprese parodiche più scanzonate, come quella avviata da Joann Sfar e Lewis Trondheim in La fortezza (Delcourt 1998-2014), una saga fantasy-umoristica imperniata sull’unità dello scenario goticheggiante, il donjon del titolo originale, intorno a cui si dispiegano le imprese e le trasformazioni di una torma di personaggi: suddivisa in varie epoche, a specchio dei tempi di costruzione, prosperità e decadenza della fortezza stessa, la serie viene pubblicata per macrosequenze dalla cronologia sfalsata, separate da ellissi abissali, così che il lettore sia stupefatto dal constatare i cambiamenti clamorosi che sono intervenuti sul medesimo luogo, perfino sulle fisionomie e sui caratteri dei protagonisti, interrogandosi spassosamente circa i modi in cui siffatti cambiamenti possano essere capitati.
Nella serialità a fumetti, sin da tempi aurorali, hanno preso piede quelle forme di incrocio e diramazione dei destini narrativi che si sarebbero affermate largamente anche nel cinema e nella televisione, dove in seguito avrebbero raggiunto piena codifica sotto i nomi di sequel, prequel, spin-off crossover. Nondimeno, a dispetto di una terminologia critica votata all’anglismo spinto, che attesta le sperimentazioni pionieristiche e le tendenze egemoniche della produzione anglosassone, una delle aree geoculturali in cui la serialità a fumetti ha permeato il sistema della comunicazione artistico-mediatica, in forza della sua espansione quantitativa e della sua sfaccettatura di modulazione, resta il Giappone: dove si contano alcune delle creazioni fumettistiche iterative di maggior tiratura e longevità, spesso non prive di una robusta vocazione a essere esportate in altri mercati geoculturali.
A voler prestare credito alle fonti interne al settore editoriale, i numeri giapponesi sono impressionanti, anche nel confronto con aree di radicamento della cultura fumettistica altrettanto consolidato e di peso demografico non inferiore, a cominciare dagli Usa. Secondo l’elaborazione della libreria specializzata Manga Zenkan, il fumetto fantastico-piratesco «One Piece» di Eiichiro Oda, edito presso Shueisha dal 1997 (in Italia presso Star Comics dal 2001), ha raggiunto 300 milioni di copie vendute a livello globale; il noir «Golgo 13» di Takao Saito, apparso presso Shogakukan dal 1968, 200 milioni; il fantastico-agonistico «Dragon Ball» di Akira Toriyama, pubblicato negli anni 1984-95 presso Shueisha (in Italia presso Star Comics, 1995-97), 157 milioni; il poliziesco minimalista «Kochikame» di Osamu Akimoto, pubblicato sempre da Shueisha negli anni 1976-2016,156 milioni. Dal modello giapponese, entro il quale le riviste specializzate mostrano tuttora segni di vitalità, si ricava come il passaggio da rivista ad albo seriale dedicato sia un percorso abbastanza comune per i manga di maggior apprezzamento.
D’altra parte, la serialità propria delle riviste specializzate, intese come contenitori miscellanei di letture variegate ma per molti versi limitrofe, anche in Occidente e in Italia in particolare ha convissuto a lungo con la serialità degli albi intestati in via esclusiva a protagonisti eponimi. Il transito di una buon parte della narrativa a fumetti nella forma graphic novel, come si è venuto delineando al crocevia tra XX e XXI secolo, procede in misura rilevante dalle sperimentazioni autoriali che le riviste fumettistiche più ricercate hanno messo in campo a favore di racconti di ampia arcatura, di atmosfera realistica, propensi all’approfondimento psicologico e alla tessitura di rapporti chiaroscurati tra gli attori. Che tali nuove inclinazioni romanzesche del racconto a fumetti vengano prendendo forma all’interno di alcuni dei vettori editoriali in cui aveva prosperato la serialità classica del fumetto novecentesco, da «Linus» al «Giornalino», non deve stupire più di quanto non stupisca che, a suo tempo, il romanzo letterario stesso si fosse affermato in alleanza con l’industria giornalistica, trovando realizzazione tipografico-distributiva così nelle forme dell’appendicismo popolare o nei fascicoli periodici da collezionare, come pure a puntate sulle riviste delle cerchie intellettuali più anticonformiste.
Quel che viene talora salutato come l’antitesi del convenzionalismo fumettistico più tipico, il graphic novel, in origine trova manifestazione all’interno delle cadenze seriali proprie delle riviste, che si tratti del «Sgt. Kirk» dove appare Una ballata del mare salato di Hugo Pratt, del «Raw» dove prende forma il Maus di Art Spiegelman o dei canonici albi DC Comics in cui Alan Moore e Dave Gibbons articolano la prima pubblicazione di Watchmen. Il debito contratto dal graphic novel nei riguardi della serialità, del resto, appare con tutta evidenza nel pastiche citazionistico-evocativo di Zerocalcare, per il quale il rimando insistito ai motivi e agli archetipi serializzati dell’immaginario massmediatico è tutt’uno con il nerbo palpitante della propria esperienza vitale, anche e proprio in quelle opere, come Dimentica il mio nome o Kobane calling, in cui maggiore è l’impegno dell’artista ad attingere una complessità narrativa a tutto tondo.