Gomorra, la serialità televisiva

Ci sono pochi dubbi: Gomorra. La serie è il prodotto televisivo italiano più potente degli ultimi anni. Lo conferma, oltre al successo di critica e pubblico, la sua affermazione al di fuori dei confini nazionali. Merito di una narrazione che fa sua la lezione di Dumas, mettendo al centro il quadro storico-sociale. Ma anche di una rappresentazione del Male complessa e accurata, resa ancora più realistica dalle riprese tra i rioni di Napoli.
 
Gomorra. La serie è il prodotto originale pay italiano più potente realizzato finora. Completamente differente dalla serialità nostrana di stampo tradizionale, strizza rocchio alle produzioni americane di successo, inscrivendosi a pieno titolo nell’ambito delle serie tv più riuscite degli ultimi anni al punto che la puntata finale ha raccolto un ascolto consolidato (ovvero quantificato a sette giorni dall’emissione) di oltre due milioni di spettatori. Dal duemila in poi il panorama televisivo è radicalmente mutato e quelli che una volta si chiamavano i telefilm si chiamano ora “le serie”. Non “le serie televisive”, le serie e basta. Il solo sostantivo “serie” è diventato identificativo di un prodotto che, pur essendo nato per lo schermo della televisione, ha acquisito una dignità cinematografica. Anzi, ha spesso riavvicinato al prodotto audiovisivo persone che dichiaravano di non guardare la televisione e che frequentano sporadicamente le sale cinema. Persino il mensile femminile «Glamour» nell’edizione francese apre il numero di settembre con un’editoriale intitolato La loi des séries. La direttrice asserisce che la finestra fittizia davanti alla quale ci si siede a osservare il proprio quotidiano romanzato e drammatizzato permette agli spettatori di prendersi una rivincita sulle proprie vite, riscattandosi per procura attraverso i personaggi seriali. E, per convalidare le proprie affermazioni, elargisce consigli di psicologia elementare attraverso citazioni di frasi pronunciate dai protagonisti di varie serie famose. Insomma, se una volta erano la letteratura, il teatro e il cinema a dettare mode e tendenze, questo spazio oggi viene sempre di più fagocitato dalle serie.
Quando la crisi ha investito il mondo del cinema, Hollywood ha mutato la propria logica produttiva investendo da un lato in prodotti ad altissimo budget e con un cast importante e, dall’altro, in film piccoli che richiedevano uno sforzo economico contenuto. Progressivamente è stata così erosa tutta la fetta di mezzo, il cosiddetto cinema medio che rispondeva all’esigenza di un pubblico amante dell’intrattenimento senza disdegnare il film d’autore. In Europa, invece, il passaggio al digitale terrestre e la proliferazione delle pay tv hanno cambiato il modo di produrre e fruire la televisione, in particolare il prodotto seriale. Un tempo, la condanna di un genere ritenuto nazionalpopolare derivava soprattutto dall’idea che la struttura seriale rappresentasse un depotenziamento della creatività e dell’originalità del manufatto narrativo filmico. Ancora una volta, la lingua non mente: il “grande” schermo del cinema era contrapposto al “piccolo” schermo della televisione, una terminologia che portava con sé un implicito giudizio di valore estetico. Attualmente però se lo schermo cinematografico si è mantenuto invariato, non altrettanto si può dire di quello televisivo, passato dal punitivo formato quadrato del tubo catodico che tranciava impietosamente il frame del cinemascope al formato panoramico dell’alta definizione, fino all’attuale qualità del 4K e del 3D. Ci sono sale domestiche attrezzate con televisori a tutta parete e sistemi audio bome theatre che non hanno nulla da invidiare alle sale cinematografiche. E le televisioni hanno dovuto soddisfare la crescente domanda di prodotti di intrattenimento di qualità. Ci hanno pensato non tanto i broadcasters generalisti, quanto le reti televisive a pagamento, continuamente alla ricerca di contenuti adatti a soddisfare il proprio pubblico pagante e, salvo alcune eccezioni, per molti anni la produzione americana è rimasta la sola a dominare il mercato internazionale avendo anticipato i cambiamenti ancora in nuce nello scenario europeo.
La serialità televisiva ha occupato quindi lo spazio lasciato vuoto soprattutto dal cinema di genere, quel prodotto intermedio su cui l’industria cinematografica investe sempre meno, avendo scoperto il mondo più redditizio delle serie. Rispetto ai film, queste ultime possono raccontare al meglio una storia sviluppandola su un numero di ore più dilatato e non hanno remore a raccontare per il semplice gusto di intrattenere lo spettatore. Anche la modalità della fruizione è radicalmente mutata e questo porta con sé un’aumentata richiesta di ore di programmazione. Dalla singola puntata messa in onda settimanalmente si è passati alla possibilità di fruire l’episodio in modalità lineare, time-shifted o on demand, fino ad arrivare al fenomeno del binge-watching, un’abbuffata bulimica che consiste nel guardare più puntate di seguito al punto di terminare la stagione di un’intera serie in un solo giorno. L’americana pay tv Netflix aveva fatto del binge-watching uno dei fattori chiave su cui puntare per attrarre nuovi clienti sottraendoli alle reti concorrenti, tanto che in America è diventata una pratica ampiamente diffusa studiata dagli psicologi come fenomeno di estraniazione sociale.
La coeva serialità televisiva di successo è caratterizzata da alcune costanti che contraddistinguono il lavoro di ideazione e produzione, elementi che per lo più si ritrovano anche in Gomorra. La serie. Come per esempio l’analogia con la struttura narrativa del romanzo, ritenuta la forma più simile al respiro seriale, sia che la fonte sia veramente un libro oppure no. Stefano Bises, uno degli sceneggiatori di Gomorra. La serie, suggeriva ai ragazzi che volevano imparare a scrivere serie televisive la lettura di quello che Gramsci definiva «il più oppiaceo dei romanzi popolari», e cioè Il conte di Monte cristo di Alexandre Dumas. Nel testo dello scrittore francese, come in Gomorra. La serie, il quadro storico-sociale è indubbiamente uno degli aspetti più evidenti: i soldi facili, gli intrighi, l’acquisizione delle amicizie con l’unico scopo del profitto personale, la smania per il potere, le ascese fulminee e i crolli repentini. In Gomorra. La serie si riconosce ampiamente la pluralità di piani del feuilleton, basata sull’aggrovigliamento dell’intreccio, sull’accumulazione dei tradimenti e delle rivelazioni, sul succedersi dei colpi di scena. Di volta in volta, vanno in scena il massacro, la faida, la nemesi. L’utilizzazione della tecnica appendicistica è amplificata nello svolgimento di alcuni specifici episodi, incentrati su un bipolarismo della cronologia che contrappone in chiave antinomica i movimenti di alcuni personaggi chiave. Come, per esempio, il montaggio alternato del figlio del boss che affitta una limousine per corteggiare una ragazza impressionandola con i mezzi di cui dispone mentre, nello stesso momento, il padre già in prigione viene trasferito con il blindato nel carcere di massima sicurezza.
La serie italiana prodotta da Sky Italia e venduta in oltre cinquanta paesi all’estero ha perso il coté sociale che la caratterizza qui da noi. La considerazione che quel mondo camorrista esista realmente è secondaria e Gomorra. La serie viene vista semplicemente come un gangster movie alla pari dei Soprano. Come in quest’ultima, al centro della narrazione c’è una famiglia, il clan dei Savastano. Una delle costanti di una serialità riuscita suggerisce di puntare sull’individuazione di personaggi fortemente fisionomizzati, ed ecco qui tratteggiata una triade perfetta: padre, madre, figlio. Tre ruoli e tre registi, scelti ognuno per dare un punto di vista di un personaggio. Stefano Sollima, già noto per la serie di Romanzo criminale, per il patriarca Pietro; Francesca Comencini porta il suo sguardo femminile nella rappresentazione di Donna Imma; e Claudio Cupellini per Gennaro detto Genny, il figlio del boss, viziato e strafottente, ma anche l’incarnazione del nuovo che avanza, una mentalità inedita di stampo imprenditoriale e collusa con la politica. A questi tre “regni” si aggiungono altri due personaggi di spicco. L’antagonista Salvatore Conte che cerca in tutti i modi di sottrarre il mercato dello spaccio ai Savastano e lo scagnozzo del boss Ciro che, nella successione di Genny a don Pietro, tradisce e fa il doppio gioco nella speranza di consolidare la propria posizione di potere. Sono appunto le relazioni tra i personaggi a costituire il fulcro della serie, poiché la trama di per sé è architettata su fatti minimi ed eventi di cronaca più o meno importanti.
I personaggi di Gomorra. La serie sono più reali, più normali e proprio per questo più raccapriccianti del film di Matteo Garrone del 2008. Perché la lunghezza più distesa della serie consente di spalmare su un arco più ampio le vite di questi uomini che escono di casa salutando la moglie, vanno a uccidere a sangue freddo e poi ritornano e mettono a letto i figli come se avessero trascorso una tranquilla giornata in ufficio. Gomorra. La serie è il racconto corale di un universo criminale ma, in questo mondo malavitoso disfunzionale e grottesco che diventa sempre più cupo, alla base c’è una famiglia, ci sono delle relazioni ordinarie che puntano a un coinvolgimento immediato e viscerale dello spettatore. Un tradimento è sempre un tradimento e se da un lato si sollecitano a tal proposito le reazioni emotive del pubblico, dall’altro, nell’esecuzione della vendetta lo si libera dal senso di colpa collettivo per la violenza attraverso la proiezione del senso di colpa sul colpevole. Il rapporto padre-figlio, le amicizie tradite, le infedeltà sono temi universali e il successo della serie risiede certamente anche in queste dinamiche comuni oltre che nel realismo del contesto narrativo.
Uno dei maggiori pregi di Gomorra. La serie va forse riscontrato proprio nella percezione di un consolidato equilibrio tra i fattori ridondanti ed enfatici della rappresentazione del Male e l’aspetto realistico della narrazione. In questo prodotto c’è un livello di accuratezza nella messa in scena dell’ambientazione mai vista prima in una serie italiana. E se le case dei camorristi sono il trionfo dell’opulenza e degli stucchi dorati, con televisori giganteschi incorniciati come se fossero quadri, statue della Madonna e busti di marmo anche in bagno che rispecchiano il delirio di onnipotenza di questi personaggi, c’è poi il vissuto delle strade e dei bar, i vicoli sporchi e stretti dove si consumano gli agguati, gli squadrati e anonimi edifici popolari delle periferie. Non si gira dentro ambienti ricostruiti negli studi televisivi, ma dentro la realtà, per le vie di Napoli. La Scampia che si vede non fa da semplice sfondo, ma assurge essa stessa al ruolo di protagonista. I luoghi identificano i criminali e le loro gesta che spesso avvengono nel buio della notte, in edifici dismessi, in spazi deserti ammassati di rifiuti oppure alla luce accecante del giorno, in mezzo alla gente. Inoltre, se necessario, i luoghi addirittura si spostano per seguire le traiettorie dei personaggi. Il racconto attraversa la nostra penisola, giunge a Milano per mostrare il mondo vacuo dei finanzieri eleganti e dalla parlantina sciolta, entra negli uffici di chi gestisce il business, arriva fino a Barcellona e poi ritorna indietro attraversando in macchina la Costa Azzurra. Il messaggio è perturbante: il Male è ovunque, è infiltrato dappertutto, va oltre i ghetti dei criminali. In quest’ottica assume cruciale importanza la funzione demandata alla lingua, il cui scopo è convalidare il realismo della materia narrativa. Scegliere di mantenere il dialetto è forse stata la scelta più complicata, perché se da un lato si doveva fare i conti con il problema della credibilità, dall’altro non si poteva perdere di vista la fruibilità del prodotto che sarebbe certo stato penalizzato dai sottotitoli. Così, dopo aver scritto il copione, gli sceneggiatori hanno lavorato a stretto contatto con delle persone di Scampia e di Secondigliano per tradurre in dialetto i dialoghi e, laddove i discorsi sarebbero risultati incomprensibili, hanno scelto di ancorare la frase ad alcune parole riconoscibili che permettessero di cogliere il senso di quello che si dice, anche senza comprendere tutti i singoli termini. Una geniale rilettura dello strumento linguistico del grammelot che aveva raggiunto i suoi esiti più alti con Chaplin e Dario Fo e che qui trova un uso incredibilmente funzionale nell’interpretare emozioni e suggestioni di una lingua incomprensibile ai più.