Appendicismo alla riscossa

Impossibile parlare di narrazione a puntate senza ripercorrerne l’evoluzione a partire dal romanzo d’appendice, primo e diffuso fenomeno di “borghesizzazione” letteraria. Ai giorni nostri, mentre opere di prestigio e romanzi d’intrattenimento sembrano convergere in una serie indistinta, le competenze del narratore seriale trasmigrano su altri media, con un incremento di sofisticazione specialistica. I misteri di Parigi e gli artifici spettacolari di Lost o del Trono di spade non sono mai sembrati così vicini.
 
Se si considerano serie televisive internazionali come Lost, True Detective, House of Cards, Il trono di spade, o programmazioni domestiche come Gomorra, 1992, Grand Hotel, viene il sospetto che non si sia meditato abbastanza sulla più vera e originaria “stagione” da cui tutte discendono: intendiamo la stagione del feuilleton, del romanzo giornalistico in appendice. E il non averlo fatto espone taluni tra i commentatori a un pericoloso equivoco: giudicare nuovi e incomparabili fenomeni che sono invece profondamente radicati nella cultura moderna; che la ancorano da subito a un criterio di commerciabilità, di parcellizzazione spettacolare, di interscambio fattivo tra autori e fruitori, del quale non si aveva sino ad allora se non una pallida notizia.
Dire feuilleton significa soffermarsi sull’insediamento stabile delle classi medie e medio-basse nel mondo della lettura. Significa inclusione, unificazione di campo, egemonia dei gruppi sociali in ascesa, a dispetto delle gerarchie che al tempo dell’Antico Regime rendevano alieni e alternativi i consumi culturali dei ceti contrapposti, aristocratici e subalterni. Viva per poco meno di un secolo, dal terzo decennio dell’Ottocento sino ai margini della Grande Guerra, l’esperienza del romanzo popolare a puntate rappresenta a conti fatti il più incisivo e vasto antecedente di “borghesizzazione” interna al panorama letterario europeo. Basti valutare i principi cardine su cui si regge la proposta: leggibilità allargata, fidelizzazione nel tempo e conseguente redditività economica (seconda solo all’ingresso prepotente dell’inserzionismo pubblicitario). Va da sé che l’esperimento incontrava l’opposizione sdegnata delle élite umanistiche tradizionali: ciascun aspetto del feuilleton sembrava concepito per sconsacrare gli usi estetici più venerandi. Usi ormai borghesi, sì, ma non ignari delle sostenutezze retoriche che esaltavano la parola espressiva conferendole un tono artisticamente sovrano.
Il genere romanzo era certo un parto del Terzo Stato rivoluzionario, e tuttavia, qualunque cosa ne dicessero i molti detrattori, non pareva ancora allineato alle procedure standard che presiedevano alla confezione delle altre merci. Proprio qui interveniva invece l’appendicismo promosso da fogli come «Le Siècle», «Le Constitutionnel», «Le Journal des débats», inclini per interessi ben materiali a una precettistica quanto mai spregiudicata. 1) L’obiettivo intrinseco, intanto: non l’ottenimento di una distinzione estetica, ma la conquista di un pubblico quanto possibile largo, interclassista; il pubblico senza blasone, avventizio, di scarsa o nulla autorità. 2) L’aspetto effimero del medium individuato: il foglio quotidiano, dalla vita breve, che poco aveva a che fare con la durevolezza prestigiosa del libro. 3) La progettualità aperta, indefinita ed empiricamente disponibile che distingueva il prodotto. A tracciare il perimetro della narrazione non era già più la figura romantica di un genio creatore, capace di configgere con i gusti imperanti e approvati del proprio tempo, sino a predefinire una tipologia di adepti ancora a venire. Era piuttosto un professionista più o meno esperto, di solito preretribuito, che in accordo con il direttore-proprietario del giornale si metteva in ascolto delle reazioni immediate degli acquirenti, così da orientare in modo opportuno una scrittura essenzialmente in itinere, sensibile alle circostanze, pronta a conversioni improvvise sull’asse degli eventi come su quello della resa stilistica. 4) Centrale, poi, era la ricerca di una icasticità memorabile: che soprattutto incideva sul terreno dei personaggi. Gli eroi dispensati a migliaia dai fogli quotidiani non sono solo suddivisi con alquanto manicheismo tra buoni e cattivi, astuti e sciocchi, fedeli e fedifraghi ecc. Ma devono costituirsi più utilmente scampando sottigliezze analitiche e complicazioni cerebrali, secondo una linea opposta a quella intrapresa dal romanzo realista di Manzoni-Stendhal-Tolstoj. Non troppo diversamente dal futuro protagonista cinematografico/televisivo, il superuomo vendicatore o la femmina vessata da feuilleton vale per come si presenta in scena (fisiognomica, milieu, habitus), per come parla e di cosa parla, per come agisce: si edifica in sostanza più sull’asse della drammaturgia manifesta che su quello recondito della psiche. 5) La stessa ritmica narrativa, a carattere accentuatamente binario, corroborava l’effettistica seducente del prodotto, alternando pause o rilasci di tensione a precipizi sensazionali in coincidenza con la fine della puntata twists, cliffhangers). E infine 6) massima cura veniva riservata all’intreccio, ma con soluzioni, in sostanza, a carattere “centrifugo”. Coerentemente con un progetto aperto e circostanziale, il feuilleton procede per aggiunte successive, moltiplicazione degli attanti, recuperi completivi e anticipazioni (analessi, prolessi); ma anche deviazioni (excursus, complicazioni a latere), giochi prospettici (parallelismi, montaggi temporali). In questo senso, il romanzo popolare si distingue e anzi contrasta con la letteratura di intrattenimento e con i generi propriamente novecenteschi, il giallo, la fantascienza, il rosa, la spy story, basati piuttosto su procedure “centripete”: pochi personaggi, ambienti circoscritti, trama coesa e unitaria.
Non è che uno schema, beninteso, e bisognoso di affinamenti. Ma sufficiente a illustrare la continuità profonda che interviene tra appendicismo ottocentesco e narratività seriale promossa dalle grandi compagnie televisive. Per lo meno i punti 1, 3, 4, 5, 6 (ma gli ultimi due soltanto se consideriamo una narrazione protratta, che contempla puntate, e magari unità superiori: stagioni; non episodi singolarmente conchiusi, sul tipo di X-Files) hanno ormai assunto un aspetto sovrastorico, congiungendo fenomeni di narratività fluente assai distanziati nel tempo. Certo tutto ciò è stato ripotenziato dalla neo-tv degli anni ottanta nello scorso secolo e appena poi dalla svolta informatica, con il suo aspetto marcatamente “convergente”. Ma lo stesso punto 2, se ben considerato, cioè il cambio di piattaforma dal libro al giornale quotidiano (e poi lo smercio a fascicoli, e di nuovo tramite il libro a basso prezzo), già prospettava una coesistenza di natura transmediale (analogamente gutenberghiana, ma transmediale).
Oggi a colpire più di tutto è il nesso strettissimo che si va stabilendo tra narrazione parcellare, iterata, commutazione dei linguaggi e nuova autorialità. Giacché è qui che l’industria dei contenuti modifica ogni equilibrio precedente: il vincolo non è più occasionale o parziale, ma genetico. Si narra, sin dall’inizio, in una prospettiva seriale, a dominante iconica e a cura di individui o grazie a un team di specialisti che poco conservano degli usuali addetti otto-novecenteschi. Se guardiamo alle cose dalla piccola specola italiana – ma credo si possa generalizzare –, l’impressione è che il terreno letterario si stia sguarnendo di talenti davvero rimarchevoli e specificamente vocati alla scrittura. Pochi o pochissimi autori, nelle ultime decadi, si levano sopra standard di tenore ripetitivo. Mentre un incremento notevolissimo di personalità spiccate si osserva in campo multimediale: quasi che qui risiedano ormai i maghi del racconto, in possesso di tutti i requisiti tecnico-retorici che erano propri degli avi appendicisti, ma capaci di renderli in compagini narrative assai più vigili e sofisticate. Sarà anche un universo fabulatorio gremito di revivals e senz’altro prodigo di regressioni (con le grandi serie televisive si passa dallo spettacolo pubblico, tipico del cinema o del teatro, al rito domestico; dalla scommessa estetica e intellettuale su un’opera ignota al piacere assai più tranquillante del riconoscimento periodico). I temi o macrogeneri sono sempre i medesimi: amore, avventura e una gran dose di mistero (Lost, in questo senso, ha valore emblematico). Però con una maestria nel porgere e nel dosare che stacca di gran lunga l’artigianalità spesso arruffona dei feuilletonisti storici (lasciamo stare gli Hugo, i Balzac, i Dostoevskij, i Dickens, che di quella vicenda furono le eccezioni).
Sembra di assistere a qualcosa di molto simile a uno spostamento, a una migrazione e a una ricombinazione complessa di competenze, che dalla scrittura letteraria tradizionalmente intesa sta conducendo a una narratività spuria: in cui la forma romanzo, che, come diceva un tempo Bachtin, «romanzizzava» i generi circonvicini, ora viene «mediatizzata» secondo procedure più di tutto inclini al piacere dell’occhio e a una mimesi attualizzante, di immediata evidenza, senza complicate decodifiche verbali e senza stacchi di ordine cronologico (il passato remoto, gli imperfetti, i condizionali composti: insomma i tempi dell’universo narrato).
Non è un rivolgimento assiale, e tale da suggerire un cambiamento di paradigma. Del romanzo moderno si confermano bensì le potenzialità inesauribili, la plasticità duttile con cui si adatta a contesti molteplici: tuttavia all’indirizzo di conglomerati più ricchi, diversi, e in buona misura risanando la frattura storica tra Romance e Novel, che all’alba della civiltà borghese consegnava al genere narrativo per eccellenza una missione eminentemente realista o verisimile.
L’avvento del feuilleton ottocentesco, d’altronde, aveva già prodotto ripercussioni di vasta portata. Il sistema letterario di fine secolo, come direbbe Vittorio Spinazzola, o il campo letterario, secondo la terminologia di Pierre Bourdieu, si era ristrutturato proprio a partire da questa esperienza. Il simbolismo orfico di Mallarmé, o il modernismo di inizi Novecento (Joyce, Svevo, Proust, Woolf), non nascevano solo in quanto poetiche genericamente antitradizionali, ma in astiosa e talora dichiarata opposizione ai criteri di narratività larga e ben retribuita di cui proprio il romanzo popolare d’appendice rendeva un esempio esecrabile. Le “lotte di campo”, condotte in nome del prestigio estetico e delle remunerazioni che ne sarebbero potute derivare, inasprivano soprattutto a riguardo della letteratura in quanto somma di opere, e non di prodotti; come insieme di libere creazioni vocate alla gloria, e non come merci sottoposte al regime borghese del successo, o alla vincolistica economica tra domanda e offerta.
Ne derivava una stratificazione complessa di livelli e di pubblici eterogenei, ciascuno – all’incirca – per una appropriata classe di prodotti (o di opere). E quando Spinazzola disegna le coordinate del sistema letterario tardonovecentesco, ancora se ne possono apprezzare gli strascichi. Smaltito da tempo l’appendicismo popolare, il quadro mostrava di organizzarsi secondo quattro comparti funzionali: letteratura Sperimentale / Istituzionale / d’Intrattenimento / Marginale. Ossia opere d’avanguardia o marcatamente intese alla ricerca espressiva; opere di prestigio ma connotate di leggibilità seducente e in linea di continuità con le stagioni trascorse; opere di largo pubblico, tendenzialmente volgarizzatrici di formule ereditate, ma a cui non difetta una sia pur artigianale o abborracciata pregnanza estetica; opere, infine, ritenute estranee all’orizzonte approvato del bello (illegittime, direbbe Bourdieu): fotoromanzi, porno, fumetti per ragazzi, livello non autoriale del giallo-rosa-spy stories-science fiction.
Si era alla metà degli anni ottanta, ma di qui in poi subentra un duplice fenomeno. Da un lato viene a esaurimento, o quantomeno si assottiglia drasticamente lo strato alto della sinossi, relativo alle opere sperimentali e d’avanguardia, con un più lento tramonto delle poetiche moderniste. Dall’altro lato, a seguito di una clamorosa efflorescenza, dopo un imporsi strategico ma transitorio (se non transizionale), giunge al capolinea anche la proposta cosiddetta postmoderna. Una proposta che – marcatamente da noi, con Umberto Eco – muoveva bensì dal recupero dei modelli romanzeschi ascrivibili all’Ottocento popolare, feuilletoniste; però con una somma di accorgimenti sofisticati che rendevano fausto un tale ripescaggio anche alle fasce più avvertite e colte del pubblico tardo novecentesco (intertestualità, ironia, metanarrazione, marcato ibridismo di genere). Perdono, a conti fatti, sia i nipotini di Joyce e Breton, sia gli emuli del Nome della rosa, un romanzo cui Eco aveva messo mano proprio per rivendicare un ritorno alla narratività spigliata (alla «trama uber alles», come scriveva nell’Almanacco Bompiani del 1972, vero punto di avvio per il postmoderno italiano).
A breve distanza di tempo dal megabestseller dedicato a Guglielmo e Adso, è la componente intellettualistica a cadere, lasciando sul terreno una grande mole di ipotesi neopopolari, neo-ottocentesche, di cui potrà avvalersi la narratività multimediale in via di prepotente espansione. Su un comune riutilizzo di formule appendiciste, basti considerare lo iato che esiste tra i primi romanzi di Eco e le molte prove romanzesche fornite dai Wu Ming; tra Il nome della rosa e il pur vicinissimo Rimini di Tondelli (1980,1985); tra la pamphlettistica engagée di Sciascia, attentissima a rivitalizzare generi minori dell’Ottocento: processi celebri, congiure romanzate, cronache politiche (1912 + 1; I pugnalatori; L’Affaire Moro), e la disinvoltura narrativa, reale-finzionale, di Saviano con Gomorra (non a caso da annoverarsi tra i campionissimi della serialità intermediatica nostrana); o ancora tra i romanzi giallistici di Sciascia e le puntate televisive di Montalbano, tratte da altrettanti volumetti di Camilleri.
Gli esiti, in termini di “sistema”, sembrerebbero vistosi. Non solo cadono, in alto, le punte di ricerca espressiva e avanguardistico-sperimentale; ma soprattutto tende a compenetrarsi – a fare corpo unico – il doppio livello Istituzionale e di Intrattenimento. Non ci sono più i Pasolini-Morante-Bassani-Sciascia e, di solito ben distinti da questi, i Chiara-Scerbanenco-Fallaci-Casati Modignani ecc. Ma in una serie essenzialmente continua ci sono i Lagioia-Piccolo-Murgia-Scurati-Ferrante-Saviano-Camilleri-Carrisi con annesso il fumettista Fior: secondo un processo a carattere riduttivo, semplificatorio, che ha come orizzonte una istituzionalizzazione dell’intrattenimento. La letteratura “pura”, o cosiddetta, verserebbe a mal partito: lo si dice senza iattanza o simpatie catastrofiste. Ed è a questi lidi che prende un valore niente affatto congiunturale la riscossa storica dell’appendicismo: come esperienza a lungo fatta oggetto di pregiudizi, di proteste schifiltose, che tuttavia sta trasferendo le sorti della narratività targata duemila su una piattaforma senza dubbio più ariosa; anche meno autonoma, se vogliamo, ma più estesa, viva, diversamente coniugabile.