Serialità postmediale

La serialità è antica come la letteratura. Nella ripetizione sta il segreto di un racconto che si consuma continuamente, senza distruggersi mai. Ma oggi la narrativa a puntate trova una nuova ragion d’essere nel contesto postmediale. L’obiettivo è presidiare il tempo del consumo letterario, in una fase di saturazione e ridondanza.
 
Pare che la serialità goda oggigiorno di buona salute, nella forma della saga come in quella della serie in senso proprio. Lo attesta il successo che riscuote la strategia narrativa a puntate non solo in ambito televisivo, ma anche in letteratura. E tutto un fiorire di serie, spesso nella forma numerologicamente perfetta della trilogia. C’è bisogno di ricordare i casi – li cito in ordine sparso – di J.K. Rowling, Andrea Camilleri, E.L. James, Elena Ferrante, Irene Cao, Marco Malvaldi, Antonio Manzini, Kent Haruf e molti altri? Ancora più evidente, mi sembra, l’entità del fenomeno nel campo della narrativa per ragazzi, con esempi che vanno da Jeff Kinney a Luigi Garlando, da Rick Riordan a Geronimo Stilton.
A mio parere due forze agiscono oggi, nel contesto postmediale, e contribuiscono a dare nuovo senso alla serialità letteraria. Si tratta di due forme concorrenti di saturazione.
La prima è costituita dalla saturazione dei supporti mediali, quella che Henry Jenkins chiama «convergenza». Per raggiungere il proprio pubblico, un contenuto tende a occupare tutti i media. Le storie che raccontiamo non sono più confinate in un unico contenitore: l’opera. Esse si disperdono e si frammentano in modo rizomatico: diventano mondi. Ridondanza e ripetizione sono funzionali all’esigenza del lettore di navigare dentro un sistema intermediale – o, appunto, postmediale – ricostruendo il senso della narrazione.
Che cosa sono Harry Potter e Il commissario Montalbano? Opere autocontenute, caratterizzate dalla sequenza principio-mezzo-fine di aristotelica memoria, o piuttosto mondi sistemici fatti di libri, prodotti cinematografici, fan fiction del web e merchandising? È chiaro, fra l’altro, che il passaggio dall’opera al mondo ci costringe a riflettere anche sui limiti dell’autorialità. Joanne Rowling è l’autrice del “sistema Harry Potter” o solo del suo modulo letterario? In passato l’autore ha dovuto conquistare la propria autorità. In futuro potrebbe conservare l’autorità, ma perdere i crismi dell’autorialità Un caso altrettanto emblematico mi pare quello di Elena Ferrante. Da un lato abbiamo il ciclo inaugurato con L’amica geniale (un titolo all’anno per quattro anni), dall’altro il volume Cronache del mal d’amore, in cui nel 2014 sono stati raccolti i primi tre romanzi della scrittrice, due dei quali peraltro oggetto di eccellenti trascrizioni cinematografiche a cura di Mario Martone e Roberto Faenza. Anche in questo caso c’è la tendenza a costruire una piattaforma di consumo multimediale, recentemente arricchita da quattro audiolibri; una piattaforma di cui le chiacchiere sul web a proposito della reale identità di Ferrante costituiscono parte integrante ed essenziale (non a caso con La frantumaglia la stessa Ferrante alimenta tali chiacchiere).
L’altra forma di saturazione riguarda il tempo e lo spazio del pubblico. Il consumo di contenuti mediali era in passato confinato entro momenti, luoghi e rituali ben definiti. Oggi i media si sono presi tutto il nostro tempo e il nostro spazio. Dapprima abbiamo scoperto che il libro digitalizzato era più trasportabile che mai (un e-reader tascabile ne può ospitare centinaia); poi che era scaricabile dalla Rete sempre e dovunque (non si resta mai senza libri, anche se magari non si leggono); infine che era consumabile online senza necessità di download. Il libro digitale non è un prodotto, è un servizio. Come si dice, un servizio always on.
Se state leggendo queste mie riflessioni, probabilmente siete parte di un pubblico che non fa esperienza diretta di questa duplice saturazione. Anzi, vi sarà capitato di difendere le prerogative di uno statuto della lettura affatto diverso, le cui regole sono esclusività, concentrazione e ritualità. Sogniamo tutti di leggere come il Machiavelli della lettera a Francesco Vettori: a casa, nel nostro scrittoio, spogliati di «quella veste cotidiana, piena di fango e di loto» e rivestiti «condecentemente» di «panni reali e curiali». Ma sapete bene che c’è un altro modo di leggere: sul telefonino, in attesa del tram o mentre si guarda la tv, sempre connessi con altri.
La serialità trova una nuova ragione d’essere in questo contesto. Essa sostiene la capacità di navigare in uno spazio narrativo e in una temporalità estesi, aiutandoci a ritrovare un filo rosso e il senso del nostro lavoro di lettori. Chi volesse approfondire il tema anche in chiave filosofica, trova una bella analisi nel saggio di Marta Boni Romanzo Criminale. Transmedia and Beyond (Edizioni Ca’ Foscari2013).
Oltre alla produzione letteraria tradizionalmente intesa, bisognerebbe guardare a fenomeni nei quali scrittura e consumo si manifestano in forme affatto nuove. Mi sembra di grande interesse lo studio di una piattaforma digitale come Wattpad. Vi contribuiscono con un’enorme quantità di narrazioni milioni di autori, i quali incontrano la loro audience sulla piattaforma stessa. La madre di tutte le regole è la serialità: ciascun autore pubblica il proprio testo a puntate, raccogliendo il feedback del pubblico puntata dopo puntata. I riscontri riguardano struttura del testo, stile, trama e profilo dei personaggi. Le opere evolvono così tenendo conto di tali feedback, in un quadro di forte collaborazione fra autore e lettori.
Wattpad è frequentata in larga prevalenza da un mondo di adolescenti, che scrivono e consumano narrazioni a cavallo tra fan fiction, romanzi rosa e fantasy. Potremmo biasimare la qualità della loro produzione, generalmente infima, e rubricare così il fenomeno come non letteratura. Ma si tratta pur sempre di oltre quaranta milioni di utenti, i quali in qualche modo leggono e scrivono. E sono individui che le statistiche ufficiali classificano come non lettori. L’Italia è uno dei mercati di riferimento di Wattpad.
La serialità – abbiamo detto – trasforma l’opera in una marca (brand) o, se preferiamo, in una piattaforma convergente. Tema e stile del racconto diventano i tratti caratteristici di un prodotto per così dire “esteso”. Al di là della scrittura, essi innervano la dimensione estetica di tutti gli elementi a supporto della comunicazione e del marketing del prodotto stesso. Di più: sono la base per un lavoro di appropriazione e manipolazione da parte del pubblico, secondo la logica della cultura grass-root descritta da Henry Jenkins. Fino ad arrivare al fenomeno dei fandoms, che accompagna e alimenta il successo di tanti autori.
Dovremmo peraltro fare chiarezza sui debiti della nuova serialità nei confronti della televisione. Per un certo periodo la serialità televisiva ha offerto, insieme a tanta paccottiglia, esempi di straordinaria ricchezza narrativa e stilistica, esercitando una sorta di leadership nei confronti delle altre forme di autorialità (deve essere chiaro che qui l’attributo “autoriale” non è sinonimo di “colto” e non si contrappone al termine “commerciale”). Proprio per questa sua capacità di fornire nuovi modelli e di esprimere il sentimento del tempo anche con un linguaggio popolare, la serialità televisiva migliore è stata accostata al dramma o al romanzo ottocentesco.
Può darsi che nella celebrazione dei fasti raggiunti dalle serie tv, prevalentemente americane, abbiamo esagerato. Fatto sta che la stagione delle celebrazioni sembra essere terminata, proprio nel momento in cui i modelli della serialità televisiva cominciano a essere oggetto di una lettura critica e scientifica. Del resto varrebbe la pena di ragionare anche sui debiti al contrario. Gli autori che scrivono per il piccolo schermo non attingono forse dal serbatoio della grande narrativa ottocentesca? Che cos’è il teen drama televisivo dei nostri giorni – suggeriva Aldo Grasso qualche anno fa su «La Lettura» – se non la rivisitazione del Bildungs roman.
D’altra parte se ha senso parlare di un campo di tensioni tra fiction televisiva e letteratura, esso non può che manifestarsi in forme di volta in volta diverse, a seconda del contesto considerato. Quando dico “campo di tensioni”, uso l’espressione nel senso che le dava Maria Corti. Mi riferisco cioè alla presenza di un processo conflittuale che si manifesta fra diversi modelli di lettura del mondo, i quali si trovano a coesistere in un determinato momento storico: modelli ideologici, semiotici e letterari.
Ebbene, negli Stati Uniti il modello di scuola della fiction televisiva è stato per anni quello offerto da Hbo, a cui la grande narrativa americana ha dato le proprie risposte. Lo si definirebbe un confronto ad armi pari. Viceversa in Italia, almeno fino allo sbarco di Netflix nel nostro paese, e cioè nel periodo compreso fra il 2008 e il 2014, il confronto da istituire era principalmente fra i palinsesti di Sky e il-romanzo-che-non-c’è. Dopo la stagione degli anni novanta, in cui la fiction televisiva era intesa come genere mainstream, ossia capace di esprimere i tratti di una cultura comune o comunque largamente condivisa a livello nazionale, Sky è andata alla ricerca di nuovi segmenti di pubblico: nuovi non solo quanto ai loro gusti culturali, ma anche in relazione alle modalità di consumo e alla strumentazione tecnologica. Dentro questo campo di tensioni andrebbe valutata la posizione della letteratura italiana: da una parte una fiction originale, di produzione nazionale e pensata per un pubblico italiano non più inteso secondo la logica generalista di Rai e Mediaset, dall’altra la chimera del Grande Romanzo Italiano, con buona pace di Edoardo Albinati.
Si è suggerita l’idea che Jonathan Franzen abbia incarnato a un certo punto lo sforzo titanico del romanzo di ricostituirsi in forma di epopea, per rispondere alle sfide della nuova epica televisiva. E si cita spesso, in proposito, una considerazione formulata da Francesco Pacifico sulla «Domenica – Il Sole 24 Ore» del 26 settembre 2010, per salutare l’uscita di Freedom negli Stati Uniti.
Lo scopo per cui Franzen manda indietro l’orologio del genere romanzo, secondo me, è vincere la battaglia contro la nuova grande forma d’arte del nostro tempo: la serie televisiva di alta qualità che ha già capolavori assodati in Six Feet Under, I Soprano, Mad Men e The Wire, opere di sorprendente complessità, varietà e generosità narrativa, umana e tematica, di largo consumo.
Ecco, mi sembra che Pacifico richiamasse qui un regolamento di conti tutto consumato – mi si passi il calembour – al di là dell’Atlantico.
C’è poi un altro punto. Quando si riconosce la qualità del nuovo racconto di finzione televisivo, ci si riferisce in genere alla qualità della scrittura, quella che si manifesta sia a livello di soggetto e sceneggiatura, sia nel lavoro di regia nelle fasi di produzione e postproduzione. Ci si sofferma cioè su aspetti estetici e linguistici, trascurando altri elementi della fiction tv intesa come fatto mediale. Quello della serialità televisiva è prima di tutto un modello produttivo, con le logiche economiche che lo governano, i meccanismi di comunicazione che lo sorreggono e le modalità di consumo che ne derivano.
Dalla televisione la nuova serialità letteraria inizia a mutuare l’idea che il lettore vada trattato come un abbonato. Al lettore, come allo spettatore televisivo, si vogliono offrire molteplici occasioni di incontro con il contenuto prescelto. Per questo il testo non può essere il luogo in cui si esaurisce l’esperienza di lettura. Essa deve potersi prolungare, ripetere e rinnovare, sovrapponendosi virtualmente al flusso e al ritmo della vita. Il focus si sposta dal testo alla piattaforma, nella quale il testo stesso si frantuma in una serie di riverberi e variazioni. Insomma, la serialità ha a che fare con la strutturazione del tempo: sia il tempo diegetico, sia quello in cui si organizza il consumo dei contenuti. E forse nel consumo di contenuti letterari sta accadendo ciò che in passato è accaduto per quelli televisivi e che oggi si ripete, con evidenza anche maggiore, con i cosiddetti nuovi media. Il tempo del consumo non è più un tempo feriale, sottratto alle occupazioni ordinarie della vita; esso si sovrappone quasi perfettamente al tempo della vita.
In realtà non è detto che il manifestarsi di paradigmi di consumo alternativi vada inteso in senso sostitutivo. Il nuovo non cancella il vecchio, ma vi si affianca. La concorrenza determina influenzamento reciproco: il nuovo “rimedia” il vecchio, inscrivendolo all’interno dei propri codici (si pensi al rapporto fra romanzo paleotelevisivo degli anni sessanta e letteratura). E il vecchio si appropria del nuovo in chiave mimetica. Potremmo allora riconoscere l’esistenza di tre modelli, che agiscono in parallelo e finiscono per condizionarsi reciprocamente. A volte si ha la sensazione che essi siano in lotta per la conquista di una sorta di egemonia.
La metafora del primo livello è il libro. In esso il tempo dedicato al consumo di contenuti mediali ha i caratteri della ferialità, nasce dall’interruzione del tempo della vita, da una sua messa in sospensione. L’atto ha in sé un carattere fortemente riflessivo. E il tempo dell’esperienza letteraria descritto nella lettera di Machiavelli a Francesco Vettori o da Proust nei suoi scritti sulla lettura; un tempo solitario ed esclusivo, geloso delle proprie prerogative.
Al secondo modello corrisponde la metafora della televisione. In questo caso il tempo del consumo mediale tende a costituirsi in forma di flusso per sovrapporsi a quello della vita, fino a rendersi trasparente. Storicamente il modello del flusso coincide con l’affermazione della televisione commerciale, prima negli Stati Uniti, poi in Europa.
Vi è infine un terzo modello, abilitato dalla digitalizzazione dei contenuti, dei supporti e dei meccanismi di distribuzione. Questo modello – corrispondente alla metafora del web – permette al consumatore di moltiplicare e personalizzare i tempi di fruizione. Ogni contenuto può essere consumato infinite volte, trasportato da un supporto all’altro, variamente manipolato.
Se questo terzo modello oggi appare in qualche modo egemone, la serialità narrativa si rivela nella sua funzione inedita di occupare nel modo più efficiente gli interstizi del nostro tempo della vita, là dove si sviluppa il consumo.