La nostra civiltà si autodistruggerà per vigliaccheria morale, insipienza condivisa, mancanza di serietà. La distopia di Doninelli vira però all’utopico, e ha bisogno di una Santa e di un campus accademico per propiziare una rinascita. Poco importa che la diagnosi convinca solo in parte: la tecnica narrativa affascina con il suo massimalismo romanzesco non gratuito. E i Santi possono peccare assai, per nostra (e loro) fortuna.
L’università salverà la Terra? Uomini e donne disposti a insegnare la propria esperienza saranno il fulcro di una rinascita spirituale e sociale? Solo “tornando a scuola” gli individui sopravvissuti all’apocalisse sapranno progredire? Il romanzo in tutti i sensi massimalista di Luca Doninelli, Le cose semplici (Bompiani 2015), suggerisce risposte solo positive a queste domande.
Certo non a caso, l’ultimo quaderno di cui si compone l’opera passa in rassegna alcuni istituti universitari di un particolarissimo ateneo. Dico della Belinda Kellerman University (Bku), fondata dalla protagonista, o co-protagonista, Chantal Terrassier, dopo che nel 2021 il nostro pianeta era collassato su se stesso, e la giovanissima e geniale matematica francese era rimasta confinata a New York, impossibilitata a ricongiungersi al marito, residente a Milano. Intorno al 2041, la Bku è ormai quasi prospera, su una Long Island fattasi luogo d’elaborazione di un’esperienza multietnica. Certo, sono rinati scambi economici e attività artigianali, ma soprattutto fiorisce la produzione e riproduzione dei saperi, dentro un territorio scandito – più che dagli agglomerati abitativi, industriali, commerciali, ricreativi ecc. delle città consuete – da scuole di impianto universitario, dai dipartimenti di tante conoscenze condivise. Una citta-campus, insomma. Siamo in un mondo, un piccolo mondo utopico, in cui gli studenti possono insegnare, mentre i docenti devono seguire anche le lezioni di altri professori; e i corsi hanno come titoli, indifferentemente: Analisi matematica o Piccole riparazioni, Neuroscienze e neurolinguistica o Uso della fresatrice e del tornio, Lingua e letteratura latina o Parte delle tisane. E così via. D’altronde, uno dei modelli comportamentali esemplari, a fianco di quello di Chantal, è offerto dalla figura del falegname Mr Maybe: che in un passo solo apparentemente secondario – verso la conclusione – è presentato come una sorta di docente ideale, capace per esempio di accettare che un allievo talentuoso lo superi. Gli insegnamenti detti teorici e quelli detti pratici sono fungibili, e a volte – anzi – la parola di chi lavora nel campo intellettuale sembra quella dotata della massima efficacia operativa. La Bku, in fondo, è il prodotto del magistero non del tutto intenzionale – almeno all’inizio – di una fille prodige impegnata in speculazioni astratte.
Volendo semplificare al massimo il discorso, è facile diagnosticare a Luca Doninelli una forma di moralismo di impianto molto lombardo e anzi milanese, i cui predecessori non è il caso nemmeno di elencare; e comunque fra di essi spicca – più volte ricordato nel romanzo – il Manzoni dei Promessi Sposi. A sostenere la suggestiva distopia-utopia di Doninelli agisce del resto una visione di natura unicamente etica. La civiltà non si è estinta per una guerra nucleare, un’epidemia biologica, un meteorite o qualsiasi altro accidente fisico sia stato nel tempo escogitato dagli scrittori di fantascienza e affini; ma, direttamente, per una malattia di tipo morale. A essa ci si riferisce anche con l’espressione “grande ritiro”: si tratta di un vero e proprio disinteresse – innanzi tutto da parte delle élite dominanti – nei confronti delle sorti dell’economia, del governo, dell’amministrazione. È come se, a un certo punto della propria storia, l’umanità avesse smesso di prendersi sul serio: e a furia di ridere di sé, di credere che la comicità abbia una funzione liberatoria (ispirandosi anche alla pratica di «un vecchio comico rincoglionito», p. 317; Dario Lo è peraltro morto dopo la pubblicazione del romanzo), si è ritrovata ad allentare e poi a vanificare ogni legame sociale. Inettitudine, sbadataggine e vigliaccheria hanno trionfato. Il grande blackout che ne è conseguito ha infine prodotto un tracollo irreversibile. E quello della Bku sembra essere un microcosmo del tutto eccezionale, privo di riscontri esterni.
Ma il punto è proprio questo: e per fortuna. La prima metà delle Cose semplici oppone alla rinascita morale-didattica di Long Island lo sfacelo di un altro luogo un tempo ben interconnesso, postmoderno, ipermediale, o come lo si vuole definire. Mi riferisco a Milano. Qui, il grande amore di Chantal, il giovane docente universitario nominato solo come Dodo (e l’idioletto, il punto di vista linguistico, è quello della moglie), è sopravvissuto in un ecosistema sociale regredito di secoli. La città è diventata una specie di foresta interrotta da palazzi semidistrutti, pericolosissima perché infestata da bande di ogni genere. Il mondo di Dodo è una microscopica comunità aggregatasi in fondo a viale Argonne, ai confini della zona detta Acquabella, dove è praticato un minimo di agricoltura o orticoltura. E che Doninelli abbia immaginato che l’unico barlume di speranza pubblica per Milano sia costituito dalla capacità da parte della comunità cinese di sviluppare forme di organizzazione criminale leggere e “illuminate”, è una diagnosi che ci diverte ma ci interessa solo in parte. A interessarci è qualcosa di più profondamente etico, e insieme letterario. Vale a dire, la necessaria coesistenza di santità e abiezione, l’impossibilità di definire una gerarchia di valori stabile e univoca. Milano è l’altra faccia di Long Island: il successo precario della seconda è spiegato dallo sfacelo della prima.
Proviamo a dirlo in maniera blandamente narratologica o comunque più ordinata. Il romanzo di Luca Doninelli è raccontato da Dodo, un cinquantenne ex docente universitario, nato nel 1989, che nel 2018 aveva sposato la diciottenne matematica qui più volte ricordata (nata dunque nell’anno duemila), tre anni prima che il mondo – come detto – implodesse. Per vent’anni lui resta isolato a Milano da lei, che nel 2021 era negli Stati Uniti per un ciclo di conferenze. I quaderni (otto in totale) che restituiscono la sua esperienza di uomo disegnano anche l’immagine di un maschio italiano avvenente, dedito ad avventure erotiche di ogni genere, e spesso mosso da istinti animaleschi. Dentro la putrefatta Milano, per esempio, le cose andavano così: «dopo il crollo del mondo, la prima forma di moneta fu il furto, spesso unito all’assassinio. Poi, quando nessuno fu più degno di essere derubato, venne il baratto. Non c’erano limiti al commercio. La bella Alda pagava con i baci, o si lasciava toccare il culo, o le tette. Non tutte le donne erano così fortunate, ma erano in tante a darsi da fare. Eravamo gente dal sangue caldo, lupi mannari. Era sufficiente una notte tiepida, meglio se con la luna, e via, si sciamava per il quartiere tutti col cazzo dritto in cerca di quello che l’odore dell’aria prometteva fino all’angoscia» (pp. 790-791).
Del resto, non solo la spregiudicata ragazza appena ricordata, Alda, darà alla luce un figlio di Dodo, ma diventerà la fidanzata del figliastro dello stesso, Marc. E questa condizione incestuosa è ritenuta poco problematica da tutti i personaggi, non sconvolge in alcun modo il sistema valoriale del romanzo. Anzi, l’università salvifica, la Bku, è intitolata alla grande amica di Chantal, Belinda Kellerman, una fotomodella già star mediatica, incapace di vivere in una società priva di spettacolo e di opportunità di vero successo, ma soprattutto incapace di accettare il proprio ruolo di madre: e quindi destinata al suicidio.
Non solo. Se la cattolicissima Chantal per il cattolico Doninelli – lo si sarà capito – rappresenta la “Santa”, la sua santità non è priva di risvolti inquietanti. Una sezione del romanzo, la penultima, eccezionalmente non è raccontata da Dodo, ma è una testimonianza diretta (in origine una registrazione) di Chantal. Una forma di vera e propria bestemmia, di rancore verso Dio, costituirà un episodio non trascurabile della sua deposizione. E l’oggetto del rancore, a ben vedere, è parecchio meschino: il non aver potuto continuare a esercitare il proprio talento di ricercatrice, di studiosa disinteressata. Ma piccole o grandi cattiverie, tradimenti della propria vocazione, aggallano ovunque: quasi nessun personaggio ne è davvero indenne. L’eroe manzoniano di cui è fatto l’elogio (con argomenti molto interessanti), del resto, è don Rodrigo.
Cattolico sì, ma soprattutto discendente non degenere di Testori, Doninelli ha imparato molto anche da un narratore come Paul Auster. Austeriana è un’arte che qui è messa a frutto con risultati spesso struggenti, quasi epici. Cioè, la capacità di plasmare eventi unici, ineluttabili, assoluti: un passato che pesa come un macigno e impedisce a uomini e donne di essere se stessi, costringendoli a forme di lotta disperata. La “dissoluzione” del mondo è raddoppiata dall’oceano che separa i due sposi; ma lo stesso può dirsi – per esempio – per il modo di narrare il suicidio di Belinda e per la morte di Steve, il figlio biologico di Chantal e Dodo. I principali contenuti patetici della storia sono raccontati più volte – per lo più in prospettive diverse – e anche perciò acquisiscono uno spessore leggendario. Le vicende private diventano pubbliche nutrendo di sé una comunità. Per anni la Milano-giungla di Dodo risuona della sua storia d’amore, che tutti lì conoscono e ricordano. E il ricongiungimento di marito e moglie avviene in un contesto, quello della Bku, che in qualche modo attendeva Dodo, ne prefigurava l’avvento.
L’indubbia efficacia delle Cose semplici, di questo librone ambizioso così diseguale e magmatico (a volte bozzettistico: ma l’avo Fogazzaro insegna anche questo), consiste in una venerazione dei fatti romanzeschi che sfiora il feticismo, ma ne suggerisce anche l’assoluta necessità. La parola fabula non smette di ricordarci la favola, la fiaba, e proprio il mito. Sotto gli intrecci, che possono essere molteplici, resta un fondo “favoloso” che alletta e predispone all’azione, al cambiamento. I racconti si incidono nella memoria dei lettori, anche perché sono serviti a cementare relazioni sociali, a sopravvivere all’oblio del bene comune.
Troppo moralismo? troppa religiosità? troppi preti pontificanti (ce ne sono almeno quattro, più un rabbino; e tutti discretamente prolissi)? Certamente sì. Ma è anche vero che nei suoi momenti migliori Doninelli riesce a essere all’altezza della propria poetica, peraltro molto vicina a ciò che autori imprescindibili come Roberto Bolano e David Foster Wallace ci hanno insegnato: «La letteratura che piace a me è […] piena di racconti nei quali però qualcosa, nonostante la cura spesso maniacale dei particolari, resta segreto. E più lo scrittore è minuzioso, più i particolari corrono sulla pagina, e più quel segreto si moltiplica. Si sa che è lì, e questo ci basta» (p. 798). Il lettore lo constaterà: di questioni aperte nelle Cose semplici ce ne sono diverse, e tutte o quasi riescono ad affascinare.