Silvestri, Baglioni, Conte, De Gregori: interviste possibili

La canzone d’autore ha fatto strada, come dimostrano l’interesse per la musica di filosofi e teologi sulle pagine dei giornali. Poco stimolante si rivela il “diario in versi” di Claudio Baglioni, dalla scrittura carica di buonismo e poco “musicale”. Un peccato, considerando i piacevoli librii ntervista di Paolo Conte e Francesco De Gregori: del primo a emergere è la nota mancanza di supponenza; del secondo scopriamo l’equilibrio e l’umanità, specie nel racconto degli episodi più difficili della sua carriera.
 
Domenica 13 marzo 2016 apprendo dalla «Lettura» che è uscito Acrobati, il nuovo disco del cantautore romano Daniele Silvestri. L’intervista, su due pagine, si intitola Mi sento un vigile urbano (ma anche un po’ Socrate). Nell’introduzione, Teresa Ciabatti scrive: «Per l’uscita di Acrobati, Daniele Silvestri incontra Mauro Bonazzi – filosofo, professore di Storia della Filosofia antica all’Università degli Studi di Milano – che ha ascoltato le sue canzoni. Che cos’hanno in comune un cantautore e un filosofo? Cosa ha da dire il filosofo se il cantautore parla di equilibrio e necessità di elevarsi?».
Solo qualche anno fa, per intervistare un cantautore bastava Gino Castaldo; oggi ci vuole come minimo uno storico della filosofia, antica per giunta. Il prof. Bonazzi dà subito prova di grande familiarità con l’opera di Silvestri: «Questo disco mi è sembrato diverso dai precedenti» esordisce. Più o meno lo stesso avrebbe detto Castaldo. Uno va avanti con la lettura, e si aspetta che il filosofo si manifesti prima o poi come tale; invece, la conversazione prosegue come una normale intervista tra un giornalista e un cantautore. Solo verso la fine Bonazzi mette in gioco le sue competenze specifiche: «Mi sono stupito quando ho letto in un’intervista che ti definivi Seneca. Avrei detto più Socrate». Silvestri accetta di essere Socrate, e il dialogo filosofico finisce lì. Quanta strada ha fatto la canzone d’autore; ve lo immaginate, negli anni sessanta, un incontro fra Domenico Modugno e Margherita Hack sulle implicazioni astrofisiche di Nel blu dipinto di blu?
Lo stesso giorno esce sulla «Domenica – Il Sole 24 Ore» un pezzo di monsignor Gianfranco Ravasi, che si occupa – indovinate?
di canzoni. Il cardinale ci rivela che John Lennon – autore di una hit ateo-militante come Imagine – era in realtà un fervente cristiano, e prosegue segnalando la religiosità di artisti come Fabrizio De André, Lucio Dalla, Lou Reed, gli U2, i Pooh, Céline Dion, Mina, Claudio Baglioni, Elvis Presley, Bob Marley. Se la filosofia corteggia la canzone, la teologia non è da meno. Sign o’ The Times, direbbe Prince.
Inter nos di Claudio Baglioni (Bompiani 2015) è – come si legge nel risvolto – un libro «assolutamente speciale», «veramente nuovo», «inatteso e inusuale», «arcano e misterioso», «melodioso e ipnotico», «affettuoso e amorevole», «motivo di stupore e meraviglia». Lo stesso risvolto lo definisce un «diario social» di cinque anni, rivolto al «popolo della Rete». Quello che il risvolto dimentica di dire è che il diario di Baglioni è scritto in versi. Di questo il lettore si rende conto – non senza un certo allarme – ad apertura di pagina: ecco le famose «righe mozze» di cui è fatta la poesia. Be’, che c’è di strano? Con la versificazione, l’autore di Questo piccolo grande amore dovrebbe avere una certa dimestichezza; la «musicalità» della lingua dovrebbe essere la sua specialità. Ma sulla pagina, ahimè, la musica latita: «Un progetto che ha riversato sulle Pelagie / un altissimo interesse positivo / dei mezzi di comunicazione / e della società italiana». «Racconta di qualcosa / che forse si perderà per sempre.»
«Un crepuscolo è un treno che parte / con su i desideri pendolari del mondo. / Poi piano piano il fuochista / spegne quel viaggio con la cenere della notte.» Ma come fa, uno che ha scritto versi delicati come «Passerotto non andare via…» a non sentire che qui c’è rumore di ferraglia, di grattugia, di argani? «Sono quarantaquattr’anni / che m’impicco tra prosa e poesia» confida Baglioni al gabbiano (animale poetico quant’altri mai) con cui dialoga. In questo caso – chissà – avrebbe fatto meglio a optare per la prosa.
Se uno straniero mi chiedesse il significato del termine “buonismo”, entrato in uso negli ultimi decenni, gli farei leggere questo libro. Baglioni, che non è mai stato un cantautore “impegnato”, qui è impegnatissimo (si parla soprattutto di Lampedusa, di migranti, del meritorio contributo del cantautore all’accoglienza). Le pagine del “diario social” sono strapiene dei migliori sentimenti e dei più sacrosanti valori. Quali siano, questi valori e questi sentimenti, il lettore può indovinarlo anche senza aver letto il libro. Libro «assolutamente speciale», come annunciato dal risvolto, ma certo non sorprendente. Anche chi è d’accordo con ciò che il buon Claudio sventola in versi giorno dopo giorno sentirà la nostalgia di qualcosa di più amaro e spigoloso, di più complesso e contraddittorio, di meno prevedibile insomma.
Di tutt’altro carattere è Fammi una domanda di riserva (Mondadori 2015), sottotitolo Paolo Conte in parole sue raccolte da Massimo Cotto. Alla base, come si evince dal titolo, c’è un’intervista (o meglio una serie di interviste concesse a Cotto a partire dal 1985); ma quello che leggiamo – e in ciò consiste l’originalità della formula – sono soltanto le risposte di Conte, raggruppate per argomenti. Si parla della Topolino amaranto, naturalmente, e dell’uomo del Mocambo, ma anche di Bellezza negra, di Trattori e perline colorate, di Ratafià, di Greta Garbo e la lepre al civet, di Esotismo, di molto altro. Il mondo di Conte – quello delle canzoni ma anche quello privato – emerge da queste pagine con grande naturalezza ed eleganza, senza frenesie “comunicative”. Conte ha tante cose da raccontare, e non annoia mai, non dà mai l’impressione di voler vendere la sua immagine, o di montare in cattedra. «Sono tradizionalmente scettico» scrive «verso chi si erge a maestro di pensiero. Lasciamo che la cultura sia trasmessa dagli specialisti, non dai cantautori che diventano intellettuali.» E più avanti: «I cantautori non hanno preso a spallate i poeti, si sono trovati sovrapposti a loro. Questa sovrapposizione non ha senso».
Anche da questo libro si capisce che la qualifica di “cantautore” mal si attaglia a Paolo Conte, che è prima di tutto un musicista, e un raffinatissimo paroliere. Diciamo un canzonettista, nel senso più alto del termine. All’inizio della sua carriera, come sappiamo, scriveva canzoni per altri (Celentano, Patty Pravo, Caterina Caselli), lavorava “nelle retrovie”, e non gli passava per la testa di mettersi in prima linea. Quando finalmente si è lasciato convincere a interpretare i suoi pezzi, gli anni settanta erano tramontati, nessuno si sognava di investirlo – in quanto “cantautore” – di ruoli politici, di esigere da lui un impegno, una coerenza ideologica. C’era, naturalmente, chi lo proclamava grande poeta, ma lui – già navigato, e sornione per natura – schivava le lusinghe e continuava a fare il suo mestiere con umiltà e passione. Chi legge questa intervista senza domande si trova di fronte al miracolo di un artista che ha saputo difendersi dalle lusinghe del successo, e ha coltivato tranquillamente e appassionatamente il suo grande talento. Un signore.
In Passo d’uomo (Laterza 2016), libro-intervista con Antonio Gnoli, abbiamo a che fare invece con chi da anni rappresenta pubblicamente la figura del Cantautore per antonomasia: Francesco De Gregori. Il personaggio ha fama di essere scostante, a volte quasi arrogante; qui è affabile, equilibrato, aperto («Farmi vedere “nudo” non mi indispone più di tanto»), persino modesto a volte («Prima pensavo di diventare Bob Dylan e poi ho scoperto di non esserlo»).
Certo, De Gregori è cambiato, ma la nuova immagine che ci trasmette è anche dovuta allo spazio che questa lunga conversazione apre. In un’intervista “volante” come quelle fatte sui media in occasione dell’uscita di un disco, molti argomenti non potrebbero entrare, o comunque non potrebbero essere sviluppati in modo approfondito. Un esempio per tutti: il famoso “processo” a cui il cantautore viene sottoposto a Milano nell’aprile del 1976 da parte di un gruppetto di “autonomi” che interrompono il concerto, lo sequestrano e lo accusano di scrivere canzoni “borghesi”, di lucrare sul prezzo dei biglietti e di essere un “nemico del proletariato”. Ripensato a distanza di tanti anni, quell’episodio dà i brividi. De Gregori riesce a raccontarlo con ammirevole pacatezza, senza risentimento. Ma la parte più notevole dell’intervista è forse quella dedicata alla morte dello zio del cantautore, anche lui Francesco, comandante della Brigata Osoppo, di ispirazione cattolica, ucciso in Friuli dai partigiani comunisti della Brigata Garibaldi. Comunque la si pensi, anche qui l’atteggiamento del cantautore (che di questo episodio non aveva mai parlato così a fondo) impressiona per l’equilibrio e per l’assenza di preconcetti. Con gli anni, De Gregori non è solo diventato “più simpatico”: il tempo ha fatto emergere – al di là delle canzoni – la sua umanità.