L’autoritratto di una generazione

Né vera e propria narrazione romanzesca, né autofiction, La scuola cattolica di Edoardo Albinati costituisce per molti aspetti il libro di un’intera generazione; ma questo non solo per le accurate ricostruzioni storico-sociali e per il tentativo di ritrarre il processo di formazione di una certa mentalità. È infatti soprattutto nella sua prolissità e dispersione che il testo sembra rispecchiare le difficoltà degli ex baby boomers nel trasmettere ai propri figli il senso e l’eredità della propria esperienza.
 
Edoardo Albinati è un narratore dalla tempra robusta, lo sappiamo da tempo; e non c’è dubbio che con l’ultimo libro, La chiesa cattolica, abbia inteso compiere la sua impresa di maggior impegno. Nell’insieme non è facile sostenere che sia la sua opera migliore; però in un certo senso il risultato ha premiato i suoi sforzi. E probabile, infatti, che La chiesa cattolica costituisca il libro di un’intera generazione. Purtroppo.
Una minima, doverosa premessa. Io ho la stessa età di Albinati: siamo entrambi della classe 1956, entrata quest’anno (hélas) nel settimo decennio di vita. Non è questa l’unica coincidenza: anche mio padre era un ingegnere, e Ingegnere era il modo in cui fuori di casa tutti lo chiamavano. Dopodiché io ho frequentato una scuola pubblica e non un istituto religioso, sono nato e cresciuto a Milano e non a Roma, e tante altre differenze si potrebbero elencare. Nondimeno, le affinità sono abbastanza forti da far scoccare di tanto in tanto veri bagliori di autoriconoscimento. Per esempio, uno dei libri che anch’io ho amato di più, da bambino, è Pirati, corsari e filibustieri del compianto Vezio Melegari, edito nel 1964 (vedendolo citato non avrei resistito alla tentazione di mettermi a cercarlo su Maremagnum, se non fossi certo che in solaio da qualche parte c’è ancora). Anch’io ho vissuto l’esperienza del passaggio adolescenziale dai calzoni appena sopra il ginocchio (qui si diceva “all’inglese”) ai pantaloni lunghi: una specie di profano bar-mitzvah vestiario, praticato in ambito cattolico-borghese per qualche generazione e oggi del tutto scomparso. Potrei continuare, ma il “come eravamo” è una brutta bestia, in un attimo ci si trova impegolati nell’elegia di Carosello e dei telefoni a gettone, dei 45 giri e dei pattini a rotelle a quattro ruote non in linea. Tanto basti per certificare la mia vicinanza, l’empatia di fondo con l’autore di questo libro.
Com’è noto, il nucleo della Scuola cattolica è il delitto del Circeo, un fatto di cronaca che per la sua atroce efferatezza assunse quasi subito carattere emblematico; e infatti Albinati lo promuove a grimaldello interpretativo di un’intera fase della società italiana. Ciò che accade in quella maledetta notte del settembre 1975 fra il litorale laziale e il quartiere Trieste di Roma diviene la specola per esplorare una serie di nodi e contraddizioni che investono la pedagogia cattolica, la mentalità borghese, il labile confine tra normalità e perversione, i difficili rapporti fra i sessi, il clima politico di quegli anni, le ideologie di allora e gli istinti aggressivi di sempre, le connessioni profonde fra guerra e stupro. Per compiere tale operazione Albinati è ricorso alla prospettiva autobiografica, facendo leva sulla circostanza che gli assassini del Circeo, oltre a essere dei coetanei, provenivano dal suo stesso ambiente, avevano frequentato la sua stessa scuola, il San Leone Magno. Dalla storia della propria Bildung scolastico-politico-familiare all’autoritratto di una generazione nell’Italia degli anni settanta, attraverso l’anatomia di un massacro: ecco il tragitto che si proponeva di compiere La scuola cattolica.
Ci è riuscita? Sì e no. Questo libro non è un romanzo, ovviamente, né ha a che vedere (per fortuna) con l’inflazionato sotto-genere dell’autofiction. La sua formula si fonda sulla combinazione di testimonianza personale, referto di cronaca e riflessione morale, ma in misura assai diseguale, non solo in termini quantitativi; e, diciamolo subito, è l’ultimo termine a prevalere. Albinati veste i panni del moralista, del saggista à la Montaigne, molto più che del narratore. La sua scelta è di muoversi su un orizzonte ampio, il più ampio possibile, rivendicando la necessità di partire da lontano. Così, prima che entrino in scena carnefici e vittime del «DdC», cioè Angelo Izzo, Gianni Guido, Andrea Ghira da un lato, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti dall’altro (nel libro, rispettivamente, Angelo, Subdued, il Legionario, R.L., D.C.), scorrono a decine e centinaia pagine di descrizioni ambientali, di turbamenti adolescenziali, di ritratti di compagni e professori, di episodi più o meno sintomatici del clima culturale ed emotivo dell’epoca. Inoltrandosi nella lettura, ci si può aspettare che il discorso intenda seguire una traiettoria di avvicinamento progressivo: dapprima circonvoluzioni ampie e divaganti, poi un’orbita definita, quindi una spirale che va a restringersi, e chissà, forse a un certo punto ci sarà una picchiata in candela. Ma non è così. Il disegno non è tanto lineare e semplice; anzi, a dire il vero, non risulta affatto perspicuo, e presto o tardi si rinuncia a cercarlo. L’unica certezza è la presenza assidua d’una voce monologante. Una voce che rievoca, rimugina, ragiona; che si concede digressioni, che indugia su un’infinità di dettagli, che non si stanca di analizzare, impegnata a non nascondersi nulla della complessità delle cose. E che, così facendo, finisce per smarrire il senso della misura.
La scuola cattolica è un libro pieno di sensibilità e intelligenza, ma è irrimediabilmente prolisso e dispersivo e quindi esposto al rischio della velleità. Com’è noto il volume conta quasi 1300 pagine (1294, per l’esattezza), che in un formato Oscar potrebbero essere duemila. Insomma: troppe. Troppe, perché? A mio avviso la ragione non va cercata nel confronto – che sarebbe impietoso – con certi capolavori monumentali eppure necessari in ogni loro singola parte. Certo, dare alle stampe un libro di dimensioni anomale sa sempre un po’ di hybris’. dopo tutto si richiede al lettore un in vestimento di tempo assai cospicuo, e la fatica della lettura dovrebbe essere remunerata in proporzione. Il punto è però un altro. La scuola cattolica è davvero l’autoritratto di una generazione: e, come tale, non può non proporsi alle generazioni successive come eredità da raccogliere e salvaguardare. Ma quanti lettori giovani, presenti e futuri, si sobbarcheranno l’impresa di affrontare questa mole di carta? Che cosa potrà mai attirarli, visto che la cronaca nera è sempre prodiga di nuovi orrori, e che il decennio decisivo per la formazione della classe 1956 non può essere per loro che un passato qualunque, via via sempre più lontano e sbiadito? Dall’insignificanza si sfugge o ci si può riscattare solo grazie a qualità formali: che però qui non spiccano, né sul piano della scrittura, né (soprattutto) sul piano di una struttura testuale che tiene più della nebulosa che della costellazione, più della laguna che del corso d’acqua o del bacino idrografico.
Per questo La scuola cattolica, oltre che a parlare di una particolare generazione, è rappresentativa dei suoi connotati identitari. Si tratta di una generazione – la sua, la mia – che si è dedicata molto più a discettare che non a concludere; a sviscerare, piuttosto che a sintetizzare o tradurre in pratica; ad approfondire, notomizzare, psicanalizzare, disdegnando la distillazione di sintesi trasmissibili. La generazione precedente, quella nata negli anni venti, si era condotta in maniera diversa: aveva saputo condensare il senso delle proprie esperienze storiche in opere dense e complesse ma di dimensioni contenute, senza necessariamente arrivare al peraltro mirabile laconismo di Servabo (che vale a Luigi Pintor una posizione di duraturo rilievo nella storia della prosa novecentesca). In questa luce l’elefantiasi della Scuola cattolica, lo si voglia o no considerare anche un atto di presunzione, è una dichiarazione di insicurezza, se non di impotenza. Benché la vicenda riguardi il destino di personaggi ventenni, sotto la superficie della narrazione corre un altro tema profondo: la difficoltà di essere padri – o forse bisognerebbe dire di pensarsi padri – della generazione dei baby boomers: cioè il disagio nel trasmettere a chi viene dopo di noi l’essenza di una congiuntura storica o di una parabola esistenziale. Di qui lo squilibrio fra l’inondazione di parole prodotte e la loro incisività comunicativa: il tentativo di compensare con l’estensione – diciamo pure con la quantità – un deficit di coraggio selettivo.
Per la verità, una tendenza all’ingrossamento si registra in parecchia narrativa italiana recente. Le ragioni possono essere varie; si potrebbe perfino ipotizzare una forma di ipercorrettismo rispetto al dilagare della comunicazione miniaturizzata, una polemica implicita contro lo stroboscopico lampeggiare di tweet che infesta la comunicazione pubblica. Ma se la dilatazione delle storie si fonda soprattutto sulla virtù ipnotica del narrare, l’argomentazione dovrebbe avere una logica diversa. In realtà, così come gli eccessi di modestia tradiscono un fondo di orgoglio, e troppo dispiegate ammissioni di colpe sconfinano nell’autoassoluzione, qui la prolissità deprezza – deprime – il dialogo. A conti fatti, il saggista dalle ambizioni totalizzanti, con la sua bulimica fiducia nel potere delle parole (delleproprie parole), dimostra anche una sottile sfiducia riguardo all’intelligenza cooperativa dei lettori.