Romanzoni effettistici e coinvolgenti

Storie (l’amore melodrammatiche e cupe, ostentazione impudica di temi disturbanti, linguaggio colloquiale eppure letterariamente lavorato: questi alcuni degli ingredienti del successo di massa che da più di tre lustri arride ai romanzi di Margaret Mazzantini. In una lunga carriera, la scrittrice ha saputo di volta in volta sintonizzarsi col clima culturale dominante, sia sfruttando le tecniche della sceneggiatura audiovisiva, sia adeguando la sua prosa alle esigenze diffuse di nobilitazione estetica e sollecitazione emotiva.
 
Da più di un quindicennio, i libri di Margaret Mazzantini godono di vasto gradimento di pubblico e di conseguenti, notevolissimi, successi di vendita: i sette romanzi finora pubblicati superano complessivamente cinque milioni di copie, una cifra che non moltissimi altri scrittori italiani possono vantare. Oltre alle tirature, a parlare chiaramente di un’udienza di massa sono i dati relativi alle ristampe e alle migrazioni dell’opera della scrittrice entro il labirinto delle collane mondadoriane di maggior smercio: nel 2016 Non ti muovere è stato riproposto sugli scaffali della grande distribuzione sotto la sigla «Oscar Absolute», collana di bestseller che accoglie pezzi da novanta delle vendite librarie come Inferno di Dan Brown, i romanzi di Ken Follett e di Sophie Kinsella, la saga fantasy Il trono di spade di George R.R. Martin rilanciata dalla serie tv. Nell’estate 2015, il femminile «Donna Moderna» ha distribuito come beach read la «Collana Margaret Mazzantini», all’insegna dello slogan «quattro romanzi bestseller per una vacanza tutta da leggere!».
Come spesso accade in questi casi, gli esordi della scrittrice non facevano presagire simili exploit. Dopo una carriera soprattutto teatrale, condita con esperienze di sceneggiatura per tv, Mazzantini si affaccia sulla scena letteraria nel 1994 con Il catino di zinco (Marsilio); il libro attira l’attenzione della critica ottenendo riconoscimenti ufficiali al Campiello e un premio espressamente dedicato alla scrittura femminile come il Rapallo Carige. Qui un io narrante di marca autobiografica rievoca a ritroso la vita della nonna, un’energica matriarca blandamente filofascista, lungo i decenni centrali della storia novecentesca italiana: il racconto familiare prende le mosse da ricordi infantili e arguti resoconti di vita quotidiana, finché, in un crescendo di tensione, l’intreccio si concentra sulle vicende belliche, le più idonee a celebrare la forza materna di cui la protagonista offre prova. La prospettiva multigenerazionale dell’intreccio presentava singolari coincidenze con il grande successo librario di quello stesso 1994: in Va’ dove ti porta il cuore anche Susanna Tamaro affidava la memoria di una storia privata e collettiva all’ottica tendenziosissima di un’altra «tenace nonnetta» (Spinazzola). Dal fortunato libro di Tamaro, tuttavia, il primo romanzo di Mazzantini si mantiene lontano sia in termini di tirature, sia per nerbo narrativo; in luogo del birignao didascalico e delle sentenze lagnose, disimpegnate e furbette profuse a piene mani in Va’ dove ti porta il cuore, Il catino di zinco si distingue per assenza di toni queruli, gusto leggero del quadro di costume, e soprattutto per l’amalgama di intonazione ironica e inventiva verbale.
La stessa commistione di accenti mordaci ed effervescenza di scrittura, ma questa volta caricata al punto da virare verso effetti comici, si ritrova nel secondo romanzo, Manola (1998). Benché nel frattempo convenientemente traslocata sotto le insegne mondadoriane, a quest’altezza Mazzantini è ancora prevalentemente impegnata come attrice; non a caso il libro nasce originariamente come pièce teatrale, per la regia del marito Sergio Castellino e l’interpretazione sul palco dall’autrice stessa in coppia con Nancy Brilli. Nella versione romanzesca dell’opera, le strampalate peripezie di due sorelle gemelle, antitetiche per aspetto e indole, si snodano attraverso una serie di situazioni assurde, grottesche e iperboliche: il tutto narrato con ritmo brioso, ampie concessioni al turpiloquio e abbondanza di riferimenti caserecci. Per ancorare un’affabulazione scoppiettante entro una solida cornice scenica e narrativa, Mazzantini si inventa un tu, un’ascoltatrice muta di nome Manola, a cui le due sorelle narratrici continuamente si rivolgono nel racconto tendenzioso e sconclusionato delle loro avventure.
Questi indirizzi saranno piegati ad assai diversi intenti espressivi nei romanzi seguenti, fino al graduale stravolgimento della vena originaria: ma sarà proprio il mutamento di intonazione a consacrare l’autrice alla dimensione del successo di massa. Nel momento di optare definitivamente per la carriera di scrittrice, Mazzantini compie due scelte molto nette. La prima è una decisa prelazione di genere narrativo: il romanzo d’amore, di preferenza declinato sulla problematizzazione della genitorialità. La seconda è in parte conseguente: al riso sono sostituite le lacrime, o meglio la mozione degli affetti. (Sulla diffusione di questi modi nella narrativa recente si veda Tirature ’13. Le emozioni romanzesche.)
Accade così che i temi prediletti e la sovreccitazione verbale degli esordi cambino radicalmente di segno, diventando, da veicolo di ironia e comicità che erano, tecniche privilegiate di effettismo melodrammatico. Misurata sul consenso dei lettori – ma soprattutto delle lettrici – si trattò di una scommessa vinta: nel 2001, quando dà alle stampe Non ti muovere, Mazzantini “fa il botto”, ed entra a pieno titolo nella ristretta cerchia dei bestselleristi patri. Il consenso critico certificato dal premio Strega non uguaglia la trionfale accoglienza del pubblico; né si è trattato di un successo effimero, se è vero che il libro resta tuttora il più letto e amato della bibliografia mazzantinesca.
La prima trovata, cruciale nel sollecitare il coinvolgimento emotivo di chi legge, sta nell’assetto allocutivo dell’esposizione: già sperimentato in Manola, in Non ti muovere questo dispositivo diviene perno della struttura romanzesca e principale strategia di drammatizzazione. L’incipit del romanzone, in effetti, è di quelli forti: il narratore Timoteo, uno stimato chirurgo romano, racconta la propria storia rivolgendosi direttamente alla figlia adolescente, la quale tuttavia si trova in coma, nello stesso ospedale dove lavora papà, a seguito di un incidente in motorino. Mentre la ragazza è tra la vita e la morte, il padre ripercorre con la memoria la violenta passione adulterina per una povera prostituta di nome Italia, di cui si innamora pazzamente dopo averla stuprata. Va aggiunto che questo cupissimo amour fou coincide cronologicamente, guarda caso, proprio con il concepimento e la nascita della figliola.
Se di per sé la situazione narrativa non fosse abbastanza conturbante, ci pensa la prosa del dottore a caricare ulteriormente i toni.
L’intero resoconto si avvale di una sintassi colloquiale, di immediata comprensibilità, ma che sistematicamente alterna un metaforeggiare pletorico a materiali lessicali di uso comunissimo, spesso appartenenti alla sfera semantica del disturbante. L’impasto che ne risulta è di irrimediabile cattivo gusto, ma certo efficace per un’ampia fascia di lettori. Chi legge è posto di fronte a una voce coinvolgente, che punta tutto sulla partecipazione comunicativa ed emotiva, e insieme autorevole, perché provvista delle risorse più riconoscibili della letterarietà: «Un corridoio, due porte, il coma ci separano. Mi chiedo se è possibile sconfinare oltre il carcere di questa stanza, provare a immaginarla tutoria come un confessionale, e sui grani danzanti di questo pavimento chiederti udienza, figlia mia. […] Voglio raggiungerti, Angela, in quel limbo di tubi dove ti sei coricata, dove il craniotomo scassinerà la tua testa, per raccontarti di questa donna».
Un altro cruciale espediente che permette il funzionamento della macchina narrativa è l’avvicendamento calibrato dei piani temporali, lascito della pratica di sceneggiatura: i capitoli, non numerati e separati solo da spazi bianchi, alternano scene nel presente della narrazione, che riguardano il decorso medico di Angela, alla ricostruzione della storia tra il protagonista e Italia. All’effettismo complessivo concorre peraltro anche l’artificio di presentificare il resoconto nei punti nodali della vicenda; così la rappresentazione dello stupro: «La mia saliva corre lungo la sua schiena, mentre mi muovo nel suo cesto d’osta come un predatore dentro un nido usurpato. Così faccio scempio di lei, di me».
Su queste basi, Mazzantini non ci risparmia nessuna forzata coincidenza di intreccio, né mette argini al dilagare dell’enfasi più virulenta. Basterà dire che il centro geometrico della folta compagine coincide con le contemporanee gravidanze delle due donne del protagonista, e che il romanzo si conclude con il racconto della morte di Italia in seguito a un aborto clandestino proprio nel momento in cui la legittima consorte del dottore dà alla luce la loro figlia; sul piano del presente del racconto, nella stanza di ospedale, la narrazione dei due momenti coincide rispettivamente con il temporaneo aggravarsi delle condizioni della ragazza e con la sua guarigione finale.
A rafforzare – se ce ne fosse bisogno – il sistema compatto dei parallelismi contribuiscono anche i contrasti chiaroscurali del triangolo amoroso, non particolarmente originali ma vigorosamente estremizzati: il borghese reputato e benestante che racconta è diviso tra la moglie, una raffinata professionista dotata dei canonici attributi di ceto, e una creatura abbrutita e derelitta, quasi una barbona. La borghesia romana viene assai convenzionalmente rappresentata come il regno dell’atrofia vitale, laddove solo nel corpo abbrutito di un’emarginata è possibile ritrovare la profondità autentica del sentire.
Mazzantini si guarda bene dal dirci che un desiderio tanto imperioso sembrerebbe mosso proprio dalla rassicurante inferiorità sociale dell’amata, preferendo indugiare sul sempiterno mistero delle passioni umane e sulla loro forza travolgente. D’altronde l’interesse primario dell’autrice, e dei suoi lettori, non risiede nella caratterizzazione sociopsicologica dei personaggi; sebbene queste figure siano continuamente intente a sondare i disordinati sussulti della loro intimità coscienziale, a contare è soprattutto il generico marasma passionale in cui si trovano immersi. Ne deriva che i personaggi si lasciano letteralmente trascinare dagli eventi, così che la stereotipia dei loro ritratti finisce per essere riscattata dalle volute granguignolesche e spettacolari dell’intreccio.
Sulla medesima grammatica della visceralità è costruito il secondo successo della scrittrice, Venuto al mondo (Mondadori 2008): anche questo romanzo riesce a sommare il favore di un larghissimo numero di lettori con un più che discreto consenso critico, sancito dal premio Campiello. Qui l’orchestrazione scenografica degli ingredienti primari del sesso, della nascita e della morte si fa se possibile ancora più impudica. Per la gioia dei lettori più entusiasti e la pazienza dei recensori, il romanzo supera di mole il già non smilzo precedente, constando di ben 529 pagine. Al dilatarsi della compagine corrisponde sia il complicarsi dei piani del racconto, sia l’aggiornamento dello sfondo ambientale: i temi disturbanti cari all’autrice sono calati nello scenario feroce della guerra balcanica, con conseguente incremento del tasso di effettismo e ulteriore incupimento coloristico.
Ancora una volta, la narrazione si origina da un figlio adolescente, di cui si ripercorre all’indietro il mistero della nascita: ma sul consueto canovaccio, Venuto al mondo mette in scena un enigma assai ingarbugliato, che sarà chiarito solo al termine della defatigante impresa affabulatoria. Per mantenere alta la suspense sulla lunga distanza e nel contempo favorire l’immedesimazione di un pubblico in gran parte femminile, Mazzantini crea una protagonista-narratrice donna, ma specialmente sfrutta gli effetti dell’ottica ristretta del racconto in prima persona: colei che narra verrà infine a conoscenza della verità sul proprio figlio in presa diretta, in contemporanea con il lettore.
Perché l’impianto regga, la consueta tecnica di alternanza dei piani temporali taglia il romanzo in due parti. La prima riprende la struttura di Non ti muovere} siamo nel 2008, e la narratrice si reca a Sarajevo: il racconto del viaggio, al presente, è intervallato da continui flashback sulla propria storia. Apprendiamo così del primo arrivo in gioventù nella Jugoslavia scapigliata ed esuberante delle Olimpiadi invernali del 1984, l’incontro col grande amore, Diego, un fotografo squattrinato e naif, quindi i tentativi falliti di ottenere una gravidanza, infine, nei primi anni novanta, il ritorno in una Sarajevo sotto assedio alla ricerca di una madre surrogata, la nascita del bambino nell’inferno sarajevita del 1992, la fuga drammatica col neonato a bordo di un aereo militare, la morte di Diego in circostanze oscure. Questa sequenza di eventi ad alto tasso di pathos è infarcita di materiali di vario tipo, che dilatano abnormemente la durata narrativa. C’è ovviamente la storia sentimentale tormentatissima, colorata dalla consueta disparità di classe tra i due amanti, questa volta rovesciata: qui è la ragazza di buona famiglia a perdere la testa per il proletario, come sempre contrassegnato da innocenza e purezza d’animo. Ci sono il lamento straziante per l’infertilità e la gelosia per la madre surrogata, che riequilibrano in senso regressivo il ruolo femminile all’interno della coppia; c’è infine la rappresentazione della guerra nei suoi aspetti più macabri e crudeli. Al di là degli anacronismi palesi, dove le esigenze di copione portano a retrodatare la diffusione della “gestazione per altri” ai primi anni novanta, a tenere insieme questa congerie di temi provvede l’invasività uniforme della voce narrante, che si avvale di una prosa colloquiale e gridata al tempo stesso. In Venuto al mondo i rischi di sfilacciamento della trama non sono sempre evitati, ma a tenere vivo l’interesse del lettore contribuiscono in modo determinante sia la presentificazione del resoconto, sia il solito modulo dell’allocuzione diretta a un tu nei momenti salienti dell’intrigo: «Avrei dovuto dire questo a Pietro? Guarda che mamma era incinta di cinquantamila marchi di piccolo taglio, le pesavano sul grembo, sotto le tette. Dirgli guarda siamo stati generosi io e il fotografo, nonno si era venduto la casa al mare per aiutarci. Era una cifra spropositata, c’è gente che ha comprato bambini per pochi spiccioli a Sarajevo».
I fili dell’ordito si sciolgono nella seconda parte del libro, interamente collocata nel presente della narrazione: durante il soggiorno bosniaco, la protagonista scopre che il padre di suo figlio non è già Diego, come ha creduto per sedici anni, bensì che il bambino è frutto di un efferato stupro etnico. Sulla consolatoria affermazione per cui «il catarro dei diavoli» può rendere «possibile anche il percorso contrario, che un diavolo può tornare angelo» si chiude un romanzo tutto costruito sulla spettacolarizzazione quasi pornografica di motivi e stilemi massimamente disturbanti; secondo uno schema non nuovo, ma sempre efficace, alla provocazione più cruda segue immancabilmente la rassicurazione di chi legge.
La predilezione per impianti di taglio cinematografico e televisivo, sanciti sia dal dominio delle dinamiche di intreccio a scapito dell’individuazione dei personaggi, sia dall’andirivieni dei piani temporali, rende questi libri di agevole sceneggiatura e dunque inclini alla contaminazione crossmediale. I film tratti dalle due opere, Non ti muovere (2004) e Venuto al mondo (2012) – per entrambi regia di Castellino, distribuzione Medusa e Penelope Cruz attrice protagonista – sono l’esito di una strategia promozionale di sicuro impatto, e di tale fortunata riuscita da essere replicata. Ne è derivata una sorta di joint venture familiare che comprende anche il figlio maggiore Pietro Castellino, presente come attore fin dall’adolescenza in tutte le pellicole girate da papà e tratte dai libri di mamma.
Dalla fine degli anni zero in avanti, in effetti, le opere della scrittrice tendono sempre più esplicitamente a adeguarsi a una narratività di tipo visivo, al punto da sembrare preliminarmente composte già con un occhio alla sceneggiatura che ne potrà essere tratta. Ciò accade sia per i libri di dimensione più contenuta, come Nessuno si salva da solo (Mondadori 2012, film omonimo 2015) e Mare al mattino (Einaudi 2011), sia per il fluviale Splendore (Mondadori 2013), estenuante resoconto di un contrastato e pluridecennale amore omosessuale. La difformità delle sigle editoriali dei tre romanzi segnala un’omologa differenza di genere narrativo. Se il primo e il terzo libro sono storie sentimentali, incentrate sulle micidiali peripezie di coppia care alla fantasia dell’autrice, Mare al mattino inclina al romanzo sociale impegnato, intrecciando – e di fatto equiparando – due vicende drammatiche di emigrazione, la cacciata degli italiani dalla Libia gheddafiana negli anni settanta e il viaggio dei diseredati che approdano ora sulle coste italiane.
Quanto a Splendore, l’ultima fatica della scrittrice – mentre scriviamo, è in preparazione un nuovo romanzo che uscirà nel 2017 per Feltrinelli –, la prolissa vicenda dell’amore tra Guido e Costantino non presenta novità compositive rilevanti rispetto alle prove precedenti. Nuova per Mazzantini è la scelta di puntare sul romanzo omoerotico: ma si tratta di un tema in fase di avanzata assimilazione culturale per il pubblico di riferimento.
Comuni restano le consuete tecniche di montaggio alternato e parallelo già abbondantemente praticate: si tratta tuttavia di tecniche ormai molto semplificate, dove le concatenazioni di intreccio si fanno assai meno stringenti; se ne accentua invece l’andamento episodico, tramite l’accostamento per accumulo di diverse “scene madri”. Al dilavarsi della progressione narrativa, che perde di intensità e mordente, si accompagna nell’ultima Mazzantini un percepibile processo di impoverimento stilistico. Le coloriture accese e retoricamente lavorate della prosa degli esordi sono sostituite da un fraseggio assai più secco e spoglio, maggiormente incline al turpiloquio in funzione mimetica; soprattutto, ai frequenti periodi monoproposizionali corrisponde l’incremento di frasi gnomiche e dettami sentenziosi, così da dare vita a un breviario di citazioni e luoghi comuni esistenziali a beneficio dell’ampia cerchia dei lettori. Alla gratificazione esercitata da una pronuncia letterariamente contrassegnata subentra il richiamo di una precettistica sentimentale buona per tutti gli usi, ma soprattutto adatta al riuso e alla condivisione attraverso i social network. L’efficacia del procedimento è del resto dimostrata da alcuni semplici riscontri digitali: uno dei primi suggerimenti di ricerca forniti da Google digitando il nome dell’autrice è “mazzantini frasi”, mentre la lettura dei romanzi su dispositivi e-reader rende conto di sottolineature plurime dei passi aforistici più d’effetto. Ad apertura di pagina, o meglio di schermata, da Nessuno si salva da solo: «Era bello scambiarsi i dolori, renderli familiari. Anche lui aveva un discreto zaino di merda sulle spalle e non vedeva l’ora di svuotarlo ai piedi di una ragazza come lei», passo a cui segue solerte informazione di Kindle: «64 persone hanno evidenziato questa parte del libro».
Ancora una volta, Mazzantini si dimostra in sintonia con i tempi. Da una parte, l’architettura coinvolgente di melodrammatiche odissee amorose risponde a due bisogni antitetici, ma ugualmente diffusi: il gusto parossistico dell’ostentazione sentimentale e la messa a fuoco impietosa delle più segrete e disturbanti disfunzionalità dei rapporti di coppia. Dall’altro lato, l’adozione di modi narrativi contigui alle più pervasive esperienze estetiche della nostra epoca, i media audiovisivi e i social network, confermano la capacità non comune di intrattenere un colloquio di lungo periodo con una platea di massa.