I cannibali e la sindrome di Peter Pan

«Al di là dell’impatto superficiale, la poetica (se così si può dire) cannibalesca sembra rispondere a una smania di incorporazione, che induce a fagocitare avidamente immagini e linguaggi (frammenti di immagini, brani di linguaggi). L’esito rimane, beninteso, impregiudicato: occorre sempre distinguere caso per caso se prevalgono il gesto dello sbranamento, l’assorbimento di sostanze nutritive, la digestione difficile, ovvero un’ingrata inconcludente escrezione.»
 
I «cannibali» non sono più di moda. A poco più di un anno dall’antologia curata da Daniele Brolli, che ha suscitato tante polemiche – Gioventù cannibale (Einaudi, 1996) – il tema si direbbe, per ora, esaurito. Ma c’è da credere che alla prima occasione le discussioni si riaccenderanno, sia pure per ritornare, più o meno di proposito, sul già detto. Quell’operazione editoriale aveva dei limiti, che gli osservatori più attenti non hanno mancato di notare: dalla scarsa consistenza di più d’uno dei brani raccolti agli argomenti non sempre convincenti della troppo asseverativa premessa. Tuttavia l’idea era interessante; l’iniziativa, nel complesso, meritoria; e il titolo, in particolare, singolarmente azzeccato, e idoneo a sintetizzare significativi aspetti delle ultime proposte della narrativa italiana. Innanzitutto perché «cannibale» è una parola così sospetta, così poco innocente dal punto di vista ideologico e culturale, da sostenere con disinvoltura nuovi investimenti metaforici (a differenza dell’equivoco, fuorviante pulp). In secondo luogo perché, come ha notato Marino Sinibaldi, «cannibale» può alludere tanto alla ferocia sanguinaria, quanto alla volontà di divorare e assimilare l’avversario. E questa ambiguità riflette una contraddizione intrinseca di tutte le esperienze che mirano a fare i conti direttamente con l’attualità multimediale, cioè a introdurre nella letteratura sensibilità, atteggiamenti percettivi, modi espressivi propri di certo cinema o fumetto di genere, della pubblicità e della televisione, di certa musica. Al di là dell’impatto superficiale, la poetica (se così si può dire) cannibalesca sembra rispondere a una smania di incorporazione, che induce a fagocitare avidamente immagini e linguaggi (frammenti di immagini, brani di linguaggi). L’esito rimane, beninteso, impregiudicato: occorre sempre distinguere caso per caso se prevalgono il gesto dello sbranamento, l’assorbimento di sostanze nutritive, la digestione difficile ovvero un’ingrata inconcludente escrezione.
Certo, al di là della comune esibizione di durezza e truculenza, di degradazione e di cinismo, è apparso subito chiaro che interessi e orientamenti di questi giovani narratori spesso divergono. Piuttosto marcata è per esempio la distinzione fra quella che Angelo Guglielmi ha chiamato «violenta allegria di raccontare» (dove appunto la violenza riguarda l’impulso alla narrazione, non i contenuti narrati), e il vero e proprio indugio su effetti onorifici. Nel primo caso, l’efferatezza assume i caratteri di un codice narrativo, di una sorta di grammatica dell’intreccio (Pinketts ha parlato del sangue come di una forma di punteggiatura). Nel secondo caso, l’attenzione si concentra invece sull’efferatezza come tale, ossia in quanto forma di comportamento umano: con enfasi sul frequente corollario della riduzione dell’individuo a corpo, e la riduzione del corpo vuoi a superficie (apparenza, look), vuoi a insieme o aggregato di pezzi su cui incombe, più o meno prossima, la minaccia dello smembramento.
Un altro rilevante discrimine riguarda la presenza o l’assenza dell’elemento comico (sul modello del celebratissimo Quentin Tarantino), sia in funzione di controcanto ironico o giocoso, sia per arginare o addirittura smentire implicitamente la spinta verso l’eccesso. Così, nei migliori racconti di Niccolò Ammaniti – come L’ultimo capodanno dell’umanità (Mondadori, 1997), il primo brano di Fango (Mondadori, 1995), o Seratina, scritto in collaborazione con Luisa Brancaccio per l’antologia di Brolli – la brutalità scandisce i tempi di una narrazione che s’impone soprattutto per i suoi ritmi e per l’abile dosaggio dei toni leggeri; mentre in molti altri, incluso il Brizzi di Bastogne (Baldini & Castoldi, 1996) – e anche in Woobinda di Aldo Nove (Castelvecchi, 1996), pur nella misura breve o brevissima della storia interrotta, «senza lieto fine» e spesso senza fine alcuna, le fasi di violenza più accusata sembrano risucchiare, calamitare i significati del racconto come gorghi o vortici.
Nella strategia narrativa, l’orrore può svolgere differenti funzioni. La più semplice, in teoria, è quella di obiettivo: un racconto può mirare, essenzialmente, a suscitare nel lettore una reazione di paura o raccapriccio. Proposito, inutile precisarlo, del tutto legittimo: finché viene tenuto sotto controllo, lo spavento ha probabilmente qualcosa di igienico (anche i bambini emotivamente più equilibrati giocano «a spaventarsi»). Ma metterlo in pratica è un altro discorso. I quindici narratori dell’antologia edita da Stampa Alternativa Cuore di pulp ( 1997) – oltre a parecchi di Gioventù cannibale – hanno l’ambizione di attingere a un horror «puro», ma pochi mostrano una vera tenuta di scrittura, e gli stereotipi abbondano. Una lezione che non si è mai finito di imparare, poi, è che forti effetti possono essere prodotti con mezzi esigui. La paura non si misura a litri di sangue, a centimetri o decimetri di lame, a peso di carne triturata. I racconti di Alda Teodorani, per esempio – presente sia in Gioventù cannibale sia in Cuore di pulp, ma autrice in proprio di tre volumi apparsi presso piccoli editori (Granata Press, Il Minotauro, Lucifero-Datanews) – si presentano come tetre sequele di atrocità tanto grevi quanto insipide. Per intenderci su come l’efficacia onorifica possa avvalersi di un’estrema sobrietà espressiva, ricorderò – evitando i più canonici King o Harris – un passaggio di Jurassic Park. La prima vittima dei rigenerati dinosauri è un neonato; la scena dell’aggressione non è rappresentata direttamente (i teorici parlano in questi casi di ellissi narrativa), ma a compensarla provvede la successiva terribile scoperta da parte di una donna, la quale, messa in allarme dal rumore, entra nella stanza: «ancor prima di raggiungere la culla l’ostetrica vide che cosa era successo al volto del bimbo, e capì che doveva essere già morto». (Non male, fra l’altro, per un autore relativamente soft come Michael Crichton).
D’altro canto, la violenza può essere soprattutto un mezzo per ottenere altri risultati: tipicamente (come s’è visto) per tener vivo il ritmo della narrazione. È noto che un determinato quoziente di brutalità rientra fra le convenzioni di vari generi letterari, che hanno motivazioni sostanziali disparate. Pinketts, tanto per fare un nome, più che un cannibale è un adepto del poliziesco hard-boiled, rivisitato in chiave di fumettistica ilarità (nessuno si fa davvero male nelle tante scazzottature di Lazzaro, vieni fuori, edito da Feltrinelli nel 1997, che s’impernia sulla figura di un simpatico smargiasso, improvvisato detective). Non rari per contro, e frutto forse inevitabile d’una ricerca ancora in corso, sono i casi di fredda e sforzata truculenza e di violenza verbale artificiosa, diretta non si capisce bene a quale scopo. Succede a parecchi narratori delle citate antologie, a l Gaetano Cappelli di Errori (Mondadori, 1995), ma a volte anche allo stesso Ammaniti; nonché a Matteo Galiazzo, che dopo aver esordito nel volume brolliano ha pubblicato – sempre per Einaudi nel 1997 – la disuguale raccolta Una particolare forma di anestesia chiamata morte (i cui risultati migliori andranno ravvisati in Annunciazione con Madonna e Angelo, dove la sdrucciolevole tematica religiosa, altrove foriera di digressioni un po’ presuntuose, entra solo di sghembo).
Chi invece ha le idee chiare è Tiziano Scarpa, i l più colto e consapevole, e per più versi i l più dotato di questi scrittori. Pur non immune da rischi di manierismo, e contrassegnato da un abbassamento di registro provocatorio (l’epifania della donna amata in preda a un attacco di dissenteria mancava davvero nella nostra tradizione cortese), Occhi sulla graticola ( Einaudi, 1996) reca i l segno di una personalità stilistica matura, che ha scelto i suoi numi tute lari fra Sterne e Manganelli, fra Camporesi e Rabelais, e svolge una singolare riflessione antropologica sugli umori e le varie forme di secrezione corporea, in bilico fra serietà erudita e giocosa ironia, tra illuminazione e paradosso. E andrà notato i l divario tra siffatta volontà di «approfondimento» e la predilezione, caratteristica del postmoderno, per l’orizzontalità e le superficialità. All’ estremo opposto, la narrativa di Isabella Santacroce (e segnatamente la sua seconda prova, Destroy, Feltrinelli, 1996) dispone tutti gli elementi su un’unica, compatta superficie, apparentemente rutilante e agitata, quanto, nella sua ipnotica uniformità, sostanzialmente opaca e anestetica. Troviamo qui formulato nei termini più radicali un assunto ricorrente in questa giovane narrativa, cioè la riduzione dell’universo a un ammasso di corpi e di merci: la realtà sembra esser fatta unicamente di marchi commerciali (più ancora che di prodotti dotati d’un valore d’uso), l’umanità sembra identificarsi con una coazione monomaniaca alla stimolazione sensoriale, dove i l narcisismo di partenza è destinato a convertirsi in una serie di impulsi autodistruttivi.
L’organismo umano, in effetti, costituisce l’ultimo residuo di natura in un mondo integralmente artificiale e plastificato: ma proprio in quanto tale diventa oggetto delle più bislacche sperimentazioni, intese di volta in volta a suscitare piacere o infliggere dolore, o semplicemente a produrre sensazioni strane. Ma mentre il libro di Scarpa, a dispetto dell’andamento digressivo che gli è proprio, segue anche nell’organizzazione della vicenda un tragitto preciso (e perfino narrativamente ricercato), in Destroy tempo e trama sembrano azzerarsi: l’ossessione della corporeità, l ungi dal fornire nutrimento alla riflessione, blocca anche il racconto, trasformandolo in una sconnessa e allucinata sequenza di quadri sostanzialmente intercambiabili. Un esperimento che valeva la pena di compiere, forse: ma che chiude più strade di quante ne apra. Si veda, a riscontro, la ben diversa efficacia dello zapping narrativo proposto da Aldo Nove, implicita denuncia d’una universale reificazione e alienazione catodica che non solo non abdica ai valori della leggibilità, ma elabora una rinnovata retorica della short story.
«Cannibali», dicevamo. Nel secolo scorso si parlava, con omologa metafora, di «scapigliati». Consumate nell’arco di centoquarant’anni tutte le eccentricità possibili in fatto di capelli, i cannibali danno ora vita a un’esperienza che assomiglia per molteplici rispetti a una neo-scapigliatura: desiderio di rompere rispetto alla tradizione, volontà di autoaffermazione e di scandalo, tentativo di adeguare le forme letterarie alla mutata realtà dell’universo culturale, contaminazione dei registri espressivi, ricerca di effetti sensazionalistici (non disgiunta da una diffusa incertezza sugli obiettivi strategici da perseguire una volta catturata l’attenzione del pubblico). Beninteso, i tempi sono cambiati. Trascorsa l’epoca delle avanguardie vecchie e nuove, un antagonismo radicale sembra davvero improbabile, e lo stesso impulso iconoclasta trova immediata collocazione in un settore preciso e non periferico del mercato editoriale. Inoltre, l’indebolimento della tradizione, la pluralità dei modelli culturali, la maggiore vastità e differenziazione interna del pubblico stesso fa sì che la letteratura istituzionale venga meno attaccata che, semplicemente, ignorata (per inciso, non condivido l’idea che espressioni come «linguaggio medio» o «stile medio» non abbiano più senso: una medietà esiste sempre). Ciò non significa, beninteso, che tutti questi nuovi narratori manchino di un retroterra letterario (che anzi a volte è assai robusto, come nel caso di Scarpa o Nove); ma non implica nemmeno che la carica innovativa sia più forte; forse è addirittura vero il contrario.
Rispetto alla Scapigliatura storica, la neo-scapigliatura tardo novecentesca mi pare presenti un’interessante differenza e due cruciali affinità. La differenza consiste in una tendenza molto più marcata all’abbassamento linguistico e stilistico, con esiti non sempre e non necessariamente realistici (dato anche il precario statuto della «realtà» nella società multimediale). La prima affinità consiste nella coesistenza di brutalità (tematica o verbale) chiassosamente esibita e riposto, intimo patetismo. Sotto sotto, questi trucidi cannibali coltivano una nostalgia di sentimenti che contraddice l’ostentato nichilismo di superficie: un esempio evidente si ha nel finale di Bastogne, dove viene a galla un’etica dell’amicizia, fra cameratesca e goliardica, che è propria sia dei gruppi giovanili, sia dei sodalizi malavitosi (più o meno idealizzati). Ma anche – poniamo – una Silvia Ballestra finiva per affezionarsi ai suoi Antò, o meglio, per tradire un certo qual intenerimento nei loro confronti: e in questa luce lo stesso Culicchia appare un cannibale d’indole solo un po’ più mite degli altri, o magari divenuto vegetariano. Il discrimine correrà allora tra chi semplicemente subisce tali contraccolpi patetici – contigui, psicologicamente parlando, a ogni sbrigliato dispiegamento di aggressività – e chi sa farne materia di un’elaborazione ulteriore, etica o fantastica.
La seconda affinità è rappresentata dai connotati fortemente giovanili di questa nuova narrativa. Non solo perché si tratta di autori anagraficamente giovani, che inscenano vicende di giovani protagonisti riecheggiando o stilizzando eloqui giovanili (o giovanilistici): ma soprattutto perché nel mondo narrato la dimensione adulta latita nella maniera più clamorosa. Figli di padri, non che ammalati, inesistenti o derisori, i personaggi dei «cannibali» appaiono affetti da una virulenta sindrome di Peter Pan, appena dilatata all’età post-puberale, cioè inclusiva del sesso (ma le attrazioni amorose, fateci caso, giocano nella storia di Peter Pan un ruolo più importante che in qualsiasi altro cartone disneyano), e adeguata a un’epoca di baby-spacciatori e baby-killer. Le favole cambiano, suona il titolo del saggio di Brolli premesso a Gioventù cannibale. Appunto. Durezze, violenze e crudeltà rientrano in un nuovo immaginario fiabesco (nuovo, s’intende, solo per la narrativa italiana in prosa). E sia detto, è bene precisarlo, senza implicazioni di valore. Se il genere horror può dar luogo a una sorta di nuova Arcadia – con una sua peculiare bucolica dei bassifondi, delle periferie, dei non-luoghi metropolitani infestati da figuri smaniosi di ribaltare in aggressività furibonda la propria spasmodica insicurezza – questo è vero anche nel senso migliore della parola: di sanzione di un riassetto generalizzato del gusto, che non può non avvalersi di schemi e temi convenzionali, anche quando valica i confini di un particolare genere, o sottogenere – ossia di una particolare «nicchia» del mercato culturale. E allora bisognerà distinguere il sangue che scorre spensierato e anodino come i ruscelletti dove si bagnano le ninfe, e il sangue (o lo sperma, d’accordo, o altri secreti umori) già incline ad assumere il valore che avevano, nella più matura letteratura settecentesca, le lacrime: cioè di mezzo figurativo e simbolico per verificare il rapporto fra l’interno e l’esterno dell’uomo, fra l’io e gli altri, fra l’individuo e la tribù.