Postmoderni di terza generazione

L’ibridazione dei codici e dei linguaggi extraletterari che i «pulpisti» portano a evidenza smaccata non è da intendersi come risultato sensazionale e privo di precedenti. Sono decenni, ormai, che la letteratura postmoderna tenta di aggiornare un’idea di narratività attingendo a materiali eterocliti e culturalmente diversificati.
 
Al di là di obiezioni morali sollevate da più parti, e prescindendo per l’occasione da singoli giudizi di valore, un punto pare assodato nel dibattito intorno alla narrativa pulp. Quello riguardo all’universo riccamente multimediale che vi si rappresenta, e da cui nel medesimo tempo essa trae origine. Woobinda, Destroy, Fango, Bastogne, come pure Compleanno dell’iguana, Occhi sulla graticola, Una particolare /orma di anestesia chiamata morte, paiono anzitutto testi molto compositi, nei quali convivono elementi vistosi di letteratura di genere, per lo più di provenienza straniera, con prestiti massicci dal cinema seriale. Dove le peripezie stereotipe da videogioco e i temi musicali, la ritmica incalzante dei videoclip, si sposano con l’icasticità sintetica del fumetto. Mentre spot pubblicitari, eventi di cronaca, espliciti richiami a programmi di larghissimo ascolto vengono a costituire uno sfondo televisivo tutt’altro che inerte: espressione di una socialità catodica e per quanto si voglia raccapricciante, valida tuttavia come materia privilegiata del racconto.
Rilevare un simile atteggiamento tra gli scrittori nostrani più giovani, farne motivo di riflessione, non significa consegnarsi con spirito remissivo a una estetica di taglio «trashiologico», antiaccademica almeno quanto confusionaria, insieme populistica e snob. Ma nemmeno implica una resa incondizionata a catastrofismi sconfortati. Nel suo Pulp (Donzelli, 1997), Marino Sinibaldi osserva che quello della mescolanza dei codici e dei linguaggi è in verità il terreno decisivo su cui la narrativa di fine millennio deve giocare la sua sfida: pena la caduta in uno stato di marginalità consolatoria, quando non la chiusura inorgoglita entro spazi di specialismo neoelitario. n ragionamento è urgente e suscettibile di sviluppi. Giacché lo scavalcamento dei limiti di una letterarietà gutemberghiana non favorisce solo un’escursione più completa e disinibita della realtà circostante. Consente anche di rivolgersi con qualche speranza di successo alle nuove generazioni educate in senso videografico e musicale, cercando di riaccostarle al testo scritto. Proprio qui sta il motivo di maggiore interesse suscitato dai pulpisti, o «narratori dell’eccesso», come preferisce definirli Severino Cesari in un articolo comparso sul primo numero della rivista «La Bestia» (1997). Un interesse determinato dalla «posizione» che essi sono venuti a occupare nel panorama nostrano: «per la prima volta protesa non esclusivamente verso la società letteraria e il pubblico della letteratura», ma, almeno in potenza, verso la schiera più vasta costituita «dalla somma dei competenti di quei linguaggi in cui il narratore stesso riesce a essere competente»; in una sorta di rilancio della scrittura sul terreno di una multimedialità complessa, così da verificarne la duttilità residua, le possibilità performative, in un mondo che non pare avere più nella gloriosa tradizione del libro il suo centro culturale indiscusso.
L’ibridazione dei codici e dei linguaggi extraletterari che i pulpisti portano a evidenza smaccata, non è del resto da intendersi come risultato eclatante e privo di precedenti. Sono decenni, ormai, che la letteratura postmoderna tenta di aggiornare un’idea di narratività attingendo a materiali eterocliti e culturalmente diversificati. Qualcosa iniziò a muoversi in questo senso a partire dagli anni sessanta, nel pieno delle teorizzazioni e delle pratiche neoavanguardiste, per giungere poi a maturazione sul discrimine del decennio seguente. Era allora un postmoderno «retorico»: fondato cioè su una somma di strategie, molto raffinate e consapevoli, volte a un recupero mescidato di generi narrativi già da lungo tempo affermatisi. Talvolta con reinvestimento estetico di modelli tradizionalmente considerati paraletterari; talaltra con un primo impiego di tipologie discorsive a carattere extraletterario, se non addirittura di codici multimediali. Si pensi alla manipolazione nobilitante del genere poliziesco che compie Leonardo Sciascia con Il giorno della civetta (Einaudi, 196 1) e A ciascuno il suo (Einaudi, 1966): esempi già illuminanti di come il postmoderno possa favorire un riaccostamento tra pubblico di massa e ceto intellettuale engagé. Alla stessa stregua va considerata la curvatura narrativa che Italo Calvino imprime al linguaggio scientifico ne Le cosmicomiche (Einaudi, 1965). È inoltre annoverabile tra gli incunaboli del postmoderno italiano un volume misto di prosa e versi come Il mondo salvato dai ragazzini (Einaudi, 1968): perché qui la Morante trascende dai generi discorsivi e dai modelli letterari tradizionali, investendo il mondo dei fumetti, degli slogan politici, del linguaggio pubblicitario. Le si affianca Pier Paolo Pasolini con Teorema (Garzanti, 1968), un romanzo-sceneggiatura già in origine concepito per una doppia realizzazione, filmica e narrativa. Diversi per scelte stilistiche e in quanto a tecniche combinatorie, giungono infine Se una notte d’inverno un viaggiatore, ancora di Calvino (Einaudi, 1979), e Il nome della rosa (Bompiani, 1980). Con la comparsa del best seller di Umberto Eco in veste economica, nel 1983, e con le Postille che l’autore vi inserisce, abbiamo per la prima volta nella narrativa italiana una poetica esplicitamente e intenzionalmente postmoderna.
I nomi e i titoli menzionati hanno un valore solo indicativo. Considerati nel loro insieme, segnalano tuttavia come questa prima fase di combinazione postmoderna sia caratterizzata da una prevalenza netta del repertorio e delle tecniche letterarie su altre forme e media narrativi. Le date di nascita degli scrittori chiamati in causa (Morante, 1912; Sciascia, 1921; Pasolini, 1922; Calvino, 1923; Eco, 1932) testimoniano d’altronde di una formazione che, per quanto aggiornatissima e spregiudicata, ha avuto modo di compiersi ancora all’insegna di una letterarietà, ci si consenta l’ossimoro, tradizionalmente moderna. Ma con l’aprirsi degli anni ottanta, in un clima di accentuato e poi acceleratissimo ricambio generazionale, una nutrita schiera di giovani scrittori mostra di misurarsi con una narratività dai caratteri mediaticamente più estensivi della precedente. Scrittori nati tra l’immediato dopoguerra e il decennio successivo come Stefano Benni (1947), Marco Bacci (1955), Pier Vittorio Tondelli (1955), Luca Doninelli (1956), Paolo Di Stefano (1956), Sandro Veronesi (1959), che danno luogo a testi come Terra! (Feltrinelli, 1986), e Il bar sotto il mare (Feltrinelli, 1980); Il pattinatore (Mondadori, 1986), e Settimo cielo (Rizzoli, 1988); Altri li bertini (Feltrinelli, 1980), e Rimini (Bompiani, 1985); Talk Show (Garzanti, 1996); Azzurro, troppo azzurro (Feltrinelli, 1996); Gli sfiorati (Mondadori, 1990), e Venite venite B-52 (Feltrinelli, 1995). In questi racconti e romanzi, la mescolanza dei codici comunicativi raggiunge un livello inusitato. Del mondo mediatico si assumono i linguaggi, i temi, e se non sempre il ritmo e la tecnica scorciata, spesso il punto di vista e i contenuti, dando corpo a personaggi che solo dall’interno di un urbanesimo informativamente pervasivo trovano giustificazione e carattere, aspirazioni e immagini adeguate a esprimerle.
Certo, gli atteggiamenti ideologici, gli indirizzi espressivi di questa seconda ondata postmoderna, volgono non eli rado verso il rifiuto polemico e la contestazione dissacrante. Proprio mentre ci si scopre completamente immersi in una civiltà della comunicazione globale, si tenta eli distinguersene adottando i suoi stessi contenuti e strumenti. Ciò può realizzarsi nel culto di una diversità emarginata, come per Tondelli di Altri libertini, o nei modi di una palingenesi apocalittica suggeriti da Rimini. Facendo appello alle risorse di un comico-didascalico, secondo la lezione di Benni, gran parodiatore di istituti linguistici e culturali, o ancora nel segno di un risentimento moralista, come in Doninelli di Talk Show. È il dualismo tipico di una generazione destinata a fare da ponte: una generazione di mezzo, nel postmoderno letterario. Ma che subito ha da misurarsi con una leva di narratori successiva: per l’appunto gli scomodi ma anche vezzeggiatissimi artefici della narrativa pulp. Giovani e giovanissimi nati a partire dai primi anni sessanta, nel pieno del boom economico e del consumismo per tutti, come Tiziano Scarpa (1963), Niccolò Ammaniti (1966), Aldo Nove (1967), Isabella Santacroce (1968), Silvia Ballestra (1969), Matteo Galiazzo (1970), Enrico Brizzi (1974). A differenza dei padri costituenti del postmoderno nostrano, quella che i pulpisti mostrano di proporci non è più una ibridazione connotata in senso «retorico», con architetture minuziose, frutto di una humanitas arditamente illuminata: bensì una rifusione di codici e di tecniche espressive contraddistinta da una sorta di naturalismo «genetico». Dove il termine sta a indicare la consonanza organica – non necessariamente improvvisata o naïve – con una società multimediale adempiuta, di cui si intende tratteggiare con puntiglio filologico la dinamicità incalzante e poliforme. In termini di principio, così come sul ter reno della prassi di scrittura sinora valutabile, ciò non sembra escludere prese di posizione critiche anche dotate di radicalismo effettistico: la maggior parte dei testi considerati si offre non a caso a una negatività sfacciatamente provocatoria. Tutto avviene però da un punto di vista interno, strettamente aderente alla civiltà ipertecnologica fatta oggetto di rappresentazione. In una condivisione di orizzonti peraltro comprensibile. Da un ambiente culturale fatto di reti informatiche e miti di massa, proposte letterarie qualificate e TV «generalista», questi scrittori hanno ricavato suggestioni intellettuali a carattere primario, formativo, attraverso un incessante rimescolamento di alto e basso, iconico e verbale, simultaneo e virtuale. A essere seri, è poi la «condizione» di noi tutti. Se gli esponenti nostrani del pulp infastidiscono tal uno, è perché sottolineano un dato siffatto con disincanto esibito, non riuscendo nemmeno a concepire di dovere o di poter prescindere da quei fattori materiali di esistenza che li caratterizzano in quanto narratori.