Narratrici coi nervi tesi

In molti casi le narratrici, condizionate dal retroterra delle più o meno esplicite discriminazioni culturali maschili, sperimentano un’analoga ricerca interiore, tesa a ricostruire le radici della fondazione psicologica ed emotiva della personalità femminile.
Non per caso una tendenza emergente, pur tra le molte differenze di poetica e di stile, sembra essere quella dello scavo memoriale nell’infanzia.
 
Nel panorama di una narrativa in ottima forma, stando a criteri di quantità forse più che di originalità, la produzione femminile dell’annata appare in perfetta sintonia. In un clima di crescita del bisogno di affabulazione, quella femminile è una produzione estesa anche se con poche rilevanti novità, che spicchino in un paesaggio di omogeneità e omologazione. Ciò accade in un contesto di relativa par condicio, nel quale – ed è fatto degno di nota – tra i casi di maggiore visibilità, ai nomi maschili si affiancano anche nomi femminili. La schiera delle scrittrici collaudate, nella quale vanno incluse almeno Dacia Maraini (Dolce per sé, Rizzoli, 1997), Maria Corti (Ombre dal/onda, Einaudi, 1997), Susanna Tamaro (Anima Mundi, Baldini & Castoldi, 1997), Lidia Ravera (I compiti delle vacanze, Mondadori, 1997), Francesca Sanvitale (Separazioni, Einaudi, 1997), Rosetta Loy (La parola ebreo, Einaudi, 1997) e Maria Venturi (Il rumore dei ricordi, Rizzoli, 1997), costituisce una realtà variegata e difficilmente raggruppabile sotto l’egida di una categoria unitaria.
L’intento di delineare un quadro della narrativa femminile contiene in sé il rischio di una ghettizzazione, implicita già nell’approccio. È vero però che in molti casi le narratrici, condizionate dal retroterra delle più o meno esplicite discriminazioni culturali maschili, sperimentano un’analoga ricerca interiore, tesa a ricostruire le radici della fondazione psicologica ed emotiva della personalità femminile. Non per caso, una tendenza emergente, pur tra le molte differenze di poetica e di stile, sembra essere quella dello scavo memoriale nell’infanzia.
Per orientarsi nel panorama delle nuove voci, escludendo a priori l’osservazione di quelle note e consolidate, è utile circoscrivere tre aree: l. autrici non nuove alla scrittura e tuttavia non troppo note al grande pubblico; 2. giovani scrittrici rapportabili al fenomeno della narrativa «di culto»; 3. esordienti. Una nota a margine, infine, può essere riservata ai primi esperimenti di scrittura erotica, tendenza che deriva dall’influsso di popolari scrittrici straniere come Angela Carter e Alina Reyes.
Tra le emergenti che hanno alle spalle alcune prove narrative, i casi più interessanti dell’annata 1997 sono quattro: Chiara Tozzi, con la raccolta di racconti l} amore di chiunque (Baldini & Castoldi, 1997), Pia Fontana, con il romanzo Andante spianato (Marsilio, 1997), Cristina Comencini, con Il cappotto del turco (Feltrinelli, 1997) e Ippolita Avalli, con La dea dei baci (Baldini & Castoldi, 1997). I tre romanzi hanno in comune l’impianto memoriale, affidato a una protagonista che rievoca esperienze soggettive e traumatiche dell’infanzia. La focalizzazione è affidata a un personaggio centrale a tutto tondo, che coincide quasi totalmente con la voce narrante. Questa impostazione tradizionale risponde, pur tra molte contraddizioni, a un bisogno psicologico di rielaborazione del trauma e di riconduzione a un orizzonte consolatorio di risarcimento. Tale bisogno è visibile soprattutto in Andante spianato di Pia Fontana, un romanzo che, pur presentando aspetti interessanti, appare però molto legato alla tradizione che identifica la cifra femminile della scrittura autobiografica con la ricerca di effetti lirici e nostalgici. Diverso è in parte il caso di Chiara Tozzi, una sceneggiatrice alla seconda prova letteraria. Nei suoi racconti è visibile una ricerca espressiva che rifugge da effetti consolatori, pur in un bisogno di leggerezza fabulatoria ben lontana da qualsiasi forma di ribellione e di dissacrazione.
Notevoli guizzi creativi si ritrovano nell’opera della regista cinematografica Cristina Comencini, che come scrittrice ha già alle spalle altri due romanzi. Il cappotto del turco è la storia del rapporto tra due sorelle: Maria, la narratrice, e Isabella, morta precocemente in un incidente. Il ricordo di Maria fa emergere, in un ampio spaccato ricostruttivo, le vicende del Sessantotto, vissute dalle sorelle nel passaggio cruciale dall’adolescenza all’età adulta. Di fronte alla rivoluzione culturale e sessuale di quegli anni, il personaggio di Maria rappresenta l’attaccamento ai valori della maternità e della famiglia, laddove la figura specularmente contrapposta di Isabella rappresenta la ribellione aperta e la trasgressione. Dopo lunghi anni di viaggi e vagabondaggi, Isabella ritorna in famiglia, incinta di cinque mesi. Il suo rientro è una sconfitta che si conclude, dopo un fugace tradimento con il marito di Maria, con la morte. Il finale a climax lascia intravedere, dopo l’acme drammatico, la pacificazione. Maria esce dall’isolamento nel quale si era rifugiata per dedicarsi alla scrittura e, concluso il rituale interiore dalla rielaborazione del lutto, torna alla sua ricomposta vita familiare in un quadro politico e culturale di normalizzazione.
Un analogo bisogno di pacificazione del conflitto, pur in un contesto di elevata ambiguità e drammaticità, si rileva nell’ultimo romanzo di Ippolita Avalli. La scrittura della Dea dei baci, piegata a una sintassi narrativa piana, è per contrasto ricca di sfumature e di stravolgimenti, che rivelano la mano sicura e il notevole talento narrativo dell’autrice. La protagonista Giovanna Vera Sironi, dopo la morte della madre, si ritrova sola a fronteggiare il difficile rapporto con il padre, un uomo integerrimo in pubblico quanto brutale in privato con la figlia. Dopo le seconde nozze del padre, e dopo la scoperta di essere figlia adottiva, la vita di Giovanna scorre in un crescendo di violenze fisiche e psicologiche inaudite, la cui forza eccessiva infonde un timbro quasi fiabesco al racconto. Come una Cenerentola, Giovanna vive perseguitata, finché, dopo un’ultima violentissima aggressione fisica del padre, che per un pelo non si conclude con la sua morte, a sedici anni va via per sempre di casa. Il rapporto con il padre è presentato in modo ambivalente. Nella narrazione non c’è rabbia, ma desiderio di ricostituire una impossibile forma di dialogo e di amore, al di là dell’odio, in un quadro di assoluta incomunicabilità.
La perlustrazione della seconda area della scrittura femminile, quella dei giovani narratori, mostra un contesto in cui prevalgono le istanze di rottura e il desiderio di sradicamento dalla tradizione consolatoria, una ricerca evidente sia nei temi sia sul piano linguistico. Si deve però notare che il fenomeno della narrativa di culto – ed è un fatto su cui varrebbe la pena di riflettere – risulta in netta prevalenza maschile. Ai nomi noti di Silvia Ballestra, Rossana Campo e Isabella Santacroce, si aggiunge tra le proposte di quest’anno il caso dell’esordiente Simona Vinci (Sui bambini non si sa niente, Einaudi). Intorno al tema scandaloso della violenza sull’infanzia, l’autrice costruisce una scrittura graffiante che, pur restando «cannibalesca» nelle situazioni e nei nuclei narrativi, sembra aprirsi a una maggiore leggibilità, pensata per il grande pubblico.
Dalla terza e ultima area individuata, quella delle esordienti dell’anno, estrapoliamo tre casi che, per ragioni diverse, ci sembrano degni di nota: quelli di Maura Guida, di Laura Barile e di Clelia Martignoni. La scrittura della Guida è riconducibile alla tradizione nostalgico-evocativa; L:ultima luna dell’est (Marsilio, 1997) è un romanzo sentimentale legato a uno sfondo politico emblematico: la caduta del muro di Berlino. Vagamente influenzata da Christa Wolf, la Guida non recupera però la complessità della riflessione etico-politica presente nelle opere della scrittrice tedesca. La narrazione è protesa verso l’effetto di una piana leggibilità, in cui la cifra femminile della scrittura è affidata, ancora una volta, al privato e alla maternità. La protagonista, infatti, dopo anni di esilio volontario, ritorna in Germania soprattutto per trasmettere al figlio il senso della propria vicenda biografica e sentimentale.
Le opere prime di Laura Barile e Clelia Martignoni spiccano per l’originalità e l’alto grado di elaborazione della scrittura. In Oportet (Marsilio, 1997), la raccolta di racconti di Laura Barile, la complessa stratificazione di intrecci narrativi è modellata sulla traccia di una femminilità che resta implicita e nascosta. Il filo tematico conduttore dei racconti è la solitudine esistenziale, il non sense dell’esistenza, il vuoto della condizione umana sospesa tra lo stato di necessità e quello di opportunità (è l’ oportet latino del titolo). Vicende e personaggi oscillano tra situazioni caratterizzate da mancanza di senso e tensione verso la significazione, in un orizzonte fitto di riferimenti culturali e proteso verso la metaforicità.
Il porco comodo (Manni, 1997) di Clelia Martignoni contiene due racconti lunghi, quello che dà il titolo al libro e Il gatto rosso, apparentemente indipendenti, ma probabilmente in realtà concepiti come un dittico: il collegamento è il tema della follia. Nel primo pezzo, l’insorgere della malattia mentale in Fortunato dopo la presunta morte della moglie è raccontato dall’interno, in modo slegato e per scatti di illogicità. Nel secondo, la depressione cupa di Valeria è narrata dalla voce maschile del compagno. Lo scenario delle crisi coniugali resta aperto e sospeso sul dilagare della follia, in un quadro in cui la scrittura tende alla drammaticità dell’ossessione. La complessità stilistica della Martignoni, notevole anche a discapito della immediata leggibilità, è espressione di una controtendenza, come conferma anche la pubblicazione presso un editore elitario, che ha scarsa visibilità nel mercato della narrativa.
Per concludere la nostra ricognizione, tutt’altro che esaustiva, del panorama femminile emergente, un’ultima nota va riservata a un’antologia di racconti erotici (Nella città proibita. Quattordici scrittrici italiane narrano l’erotismo, il desiderio, la seduzione, Tropea, 1997), «la prima di questo genere in Italia», come ricorda la curatrice Maria Rosa Cutrufelli nell’introduzione, scritti ad hoc da alcune delle più interessanti scrittrici italiane, novizie o provette. L’antologia comprende testi di Ippolita Avalli, Angela Bianchini, Rossana Campo, Maria Rosa Cutrufelli, Erminia Dell’Oro, Margherita Giacobino, Silvana La Spina, Mare de’ Pasquali, Dacia Maraini, Sandra Petrignani, Lidia Ravera, Cinzia Tani, Valeria Viganò. L’intento che ha mosso l’iniziativa è apprezzabile perché parte da un dato di coscienza intellettuale, quello per cui la scrittura femminile costituisce il tentativo di «rappresentarsi come soggetto» nella complessa interazione del linguaggio con il corpo, e dunque con la sessualità. Dal punto di vista letterario il risultato è, nell’insieme, inferiore alle aspettative. Si tratta di un primo e forse ancora timido passo verso una riserva vergine dalla quale certamente in futuro verranno, per l’inventiva femminile, fermenti e sollecitazioni.