Ma te ce l’hai un papà?

Chi sono in realtà i «giovani” al centro delle storie degli scrittori di ultima generazione, i Brizzi; Picca, Mazza, Culicchia, Galiazzo, Covacich? Le inquietudini, le paure e la rabbia degli adolescenti protagonisti verso chi sono dirette? Ancora una volta, prima di tutto verso i genitori, ma anche verso una società «moralmente neutra». Eppure nonostante gli stessi temi siano ricorrenti in storie diverse per strutture e stili, occorre fare attenzione ai troppi luoghi comuni sulla condizione giovanile.
 
A dar retta ai mass media, la nostra società dovrebbe avere ben poche speranze di sopravvivenza. Se il futuro è dei giovani, il mondo Occidentale parrebbe avviato a passare nelle mani di una generazione volta a volta drammaticamente passiva o insensatamente aggressiva. È una generazione per la quale le definizioni negative davvero si sprecano: quando non sono «meno di zero», i giovani sono come minimo «ripiegati sul privato», «senza ricordi», «senza tempo», e poi ancora «incapaci di vivere», «disancorati», «dipendenti», «sprecati», magari «in ecstasy”, tanto da costituire addirittura un «pianeta di svuotati», avviato irrimediabilmente all’«implosione». Una delle definizioni ormai quasi classiche dei giovani dell’Occidente tardoindustriale è quella (coniata dai sociologi Luca Ricolfi e Loredana Sciolla) che li definisce «senza padri né maestri»: una definizione che parrebbe ampiamente confermata dalla rappresentazione che i giovani narratori danno di se stessi.
Ora però non possiamo sfuggire a una questione all’apparenza solo terminologica, e in realtà sostanziale: chi sono i giovani? Quanti anni bisogna avere per essere ritenuti giovani? Al di là della percezione soggettiva, per la quale ormai sono naturalmente portati a sentirsi giovani tutti coloro che hanno dai quindici ai quarantanove anni (per ora i cinquanta restano ancora tabù: ma non si sa mai), la dilatazione ad libitum dei confini non solo della giovinezza ma addirittura dell’adolescenza è confermata dalle ricerche sociologiche più serie, ed è il risultato di trasformazioni economiche, sociali e culturali profondissime, che hanno via via sfumato e smussato i confini tra le generazioni. Una delle conseguenze più importanti di questa realtà è che, a dire il vero, ci sono moltissimi padri che non hanno affatto smesso di considerarsi figli. li che, evidentemente, complica parecchio la situazione. Se non è chiaro chi siano i figli, non è chiaro nemmeno chi siano i padri. E allora, se, com’è normale, i figli rifiutano i padri, di quali padri e di quali figli staremo parlando? I figli che rifiutano i padri tenderanno a ipostatizzare la propria condizione di giovani. Ma in questo modo essi contribuiranno di nuovo a cancellare i confini tra le generazioni, finendo per dare man forte proprio a quei padri che vogliono continuare a sentirsi figli. E non è che poi ci saranno anche padri che, rifiutando la paternità, rifiuteranno i figli? E quali saranno i risultati di questa confusione di ruoli? Lo scontro fra le generazioni si radicalizzerà? Oppure diventerà più so/t, fino magari a scomparire del tutto?
In un quadro così fluido, è opportuno assumere un atteggiamento particolarmente prudente nei confronti dei molti, troppi luoghi comuni sulla condizione giovanile. Luoghi comuni che, diciamolo subito, molti dei narratori giovani contribuiscono ad alimentare. È noto come l’ideologia della tarda modernità abbia vistosamente enfatizzato il ruolo dei giovani, che le società del benessere e del consumismo generalizzato hanno trasformato, per la prima volta nella storia, in un’appetitosissima fetta di mercato, di straordinarie proporzioni quantitative. Negli ultimissimi anni però, dopo il tramonto sia delle ideologie ribellistiche degli anni sessantasettanta, sia dell’integrazione generalizzata del decennio ottanta, rampante e modaiolo, i giovani paiono essersi avviati su una strada nuova, non ancora sufficientemente messa a fuoco dagli adulti e dai media. Da un lato infatti la generazione degli anni novanta non rifiuta né l’universo della merce, né il culto delle apparenze e l’estetizzazione della vita. Per altri versi però, complice l’assoluta incertezza delle prospettive economiche, i nuovi giovani appaiono non del tutto integrati, portatori di nuove forme di espressione e di vitalità, che li vedono dispersi ma proprio per questo inafferrabili, immersi in una crisi perenne ma proprio per questo mai definitiva. Essi, come scrive Stefano Pistolini nel bel volume Gli sprecati (Feltrinelli, 1995), «non rinunceranno a consumare, ma lo fa ranno secondo traiettorie imprevedibili». La loro generazione, prosegue Pistolini, « ha prodotto una vistosa inadempienza rispetto agli andamenti previsti» dal potere economico. Poi però, di fronte alla crisi dei giovani, «i media hanno avuto l’idea giusta: invece di perseguitare questa generazione ridotta e disillusa, l’hanno trasformata in spettacolo, mandando in scena, opportunamente glamourizzato, il campionario esistenziale giovanilistico di fine millennio».
Non vorrei cadere in atteggiamenti vetero-ideologici, ma ho da tempo l’impressione che il fenomeno del «cattivismo» narrativo, dei «cannibali», sia in larga misura soltanto un episodio proprio dello sfruttamento, da parte dei media, della troppo unilaterale vulgata che vuole i giovani sbandati, «sballati, praticamente fusi». La volontà di aderire programmaticamente agli efferati stereotipi del cannibalismo narrativo è fin troppo evidente nella seconda prova di Enrico Brizzi, quel Bastogne (Baldini & Castoldi, 1996) di cui discorre più analiticamente Giovanna Rosa in questo stesso Tirature. A dire il vero anche la vicenda ultra-violenta di Bastogne lascia trapelare qua e là spie che è fin troppo agevole ricondurre al tenero sentimentalismo di Jack Frusciante. A cominciare dalla sua ormai quasi mitica bicicletta, cancellata nella storia, ma così presente nella mente dello scrittore da riemergere addirittura fin dal titolo: che evoca una delle più note classiche del ciclismo internazionale, la Liegi-Bastogne-Liegi. A parte questo e pochi altri segnali, Brizzi si è vistosamente impegnato a capovolgere la propria immagine, rappresentando dall’interno la selvaggia escalation criminale (dagli spinelli agli stupri con omicidio alle rapine a mano armata con strage) di un quartetto di amici, sostenuti da un’ingenua e velleitaria ideologia ultra-individualista, di vaga ascendenza nietzschiano-stirneriana. È un’ideologia vistosamente posticcia, di cartapesta, ma pure non del tutto rassicurante per il lettore adulto (absit iniuria verbis). È quasi inutile dire che, in tanta furia di rifiutare la società, la famiglia viene cassata con pochi tratti decisi: la mamma ha divorziato e se n’è andata con l’amante, e il padre è poco più di un’assenza. Eppure anche su questo punto i sentimenti del vecchio Jack Frusciante finiscono per fare capolino: «Ogni tanto pensavi a come sarebbe stata la tua vita se avessi avuto una vera famiglia, invece di una madre ex bella, incline al piagnisteo e un padre pigro di testa e ben vestito».
Se la ferocia del secondo Brizzi si presenta come il frutto abile ma immaturo di una scelta volontaristica, ben più conseguente e radicale appare la cattiveria, o piuttosto l’autentica ferocia dell’ultimo romanzo di Aurelio Picca, I mulatti (Giunti, 1996). Picca (classe 1957) è certo assai meno giovane di Brizzi (classe 1974). Ma anch’egli punta con decisione tutte le sue carte sulla rappresentazione dell’adolescenza, tanto che si potrebbe definire I mulatti un romanzo di formazione di gruppo. La definizione è molto approssimativa, anzitutto perché il libro di Picca è un antiromanzo autenticamente sperimentale, su una linea più surrealistica che neoavanguardistica (da Lautréamont, ad Artaud e Bataille o, perché no, persino agli antiromanzi di Carmelo Bene). Il fatto semmai che anche per Picca si sia parlato di «cannibalismo» e di pulp fiction (del tutto a sproposito perché I mulatti certo non è pulp, e forse non è neanche fiction) testimonia che, non solo sul piano sociologico ma anche su quello letterario, la frattura assoluta fra le generazioni è più una leggenda giornalistica che un dato di realtà.
Anche ne I mulatti l’adolescenza si caratterizza, per un’ennesima volta nel Novecento, anzitutto come trasgressione legata alla ricerca dell’assoluto: «L’adolescenza fa ridere soltanto distante una vita. Prima noi eravamo morti nella felicità, eterni nel bianco della luna. Ma io non sapevo che farmene dell’eternità, volevo pisciarci sopra». Picca scatena una sfrenata violenza verbale, che si accorpa intorno a due grandi aree simboliche: la morte e la «disperata vitalità» di un corpo insistentemente rappresentato nei suoi aspetti più bassi e disgustosi (viscere, sangue, piscio, umori e colaticci vari). Il naturale terreno d’incontro di morte e vitalità è la rappresentazione di una sessualità degradata a violenza, tortura e mutilazione, accompagnata da un ricco corteo di mestruazioni, sverginamenti, sodomie, stupri, uteri sfondati, circoncisioni e via tagliuzzando.
Anche per Picca, manco a dirlo, l’assenza dei legami familiari è quasi un punto di partenza, e il papà del protagonista e narratore trova la sua collocazione naturale al cimitero: «”Andiamo a trovare papà” mi diceva mia madre. E voleva dire che andavamo al camposanto». Specularmente, la paternità è negata anche come dimensione attiva del soggetto narrante: «lo ho pensato sempre all’amore. Mai a essere padre. Voglio dire che ho aspettato per tutta la vita non un figlio, ma un amore».
Più vicino a Brizzi, se non altro per motivi anagrafici, è Mazza (classe 1970 o giù di lì: i risvolti non forniscono date precise), autore del romanzo Gli eresiarchi (Zelig, 1997). Anche Mazza mette in scena, in un clima di violenza scatenata, le peripezie di un gruppetto di adolescenti, liceali milanesi, che si divertono non solo prendendo parte attiva a piccole vicende criminali di formato poco più che scolastico, ma mescolandosi senz’ altro a un vero giro di droga e armamenti pesanti: dove si mostrano capaci di competere addirittura con la malavita organizzata.
Sul piano linguistico Mazza mostra doti interessanti, in direzione di quel linguaggio accentuatamente gergale, semi-sperimentale (e se fosse invece una mimesi del parlato dei giovani?) che si ritrova in molti narratori delle ultime generazioni, dalla Ballestra ad Ammaniti. Sul piano della costruzione narrativa, non sarebbe forse corretto chiedere al Mazza di costruire vicende credibili, perché il suo sprezzo della verosimiglianza è assoluto: quasi direi che se ne fa un punto d’onore. Del resto alcune scene degli Eresiarchi sono indubbiamente efficaci: per esempio la rocambolesca sparatoria in un cinema, che può ricordare la peraltro notevolissima sequenza dell’assalto al ristorante cinese di Bastogne. Nel suo complesso però il romanzo è ripetitivo e troppo poco pensato come struttura. Alla fine l’ammucchiata di violenze e trucidume pulp, fra Dylan Dog e Quentin Tarantino, appare quasi gratuita. Ho detto «quasi», e lo sottolineo, perché anche negli Eresiarchi ritroviamo inquietudini probabilmente autentiche e adolescenziali spiriti di rivolta, appoggiati a un attivismo nietzschiano-gentiliano se possibile ancora più elementare e casereccio di quello di Brizzi: «Scopare, bere, fumare, poi sparare. Cos’altro c’è. Ciò che importa è L’AZIONE, quello importa. n momento in cui ti senti vivo come non ti eri mai sentito prima. L’esaltazione dell’Azione. Quando prendi Odino per le palle e gli urli SONO QUI ADESSO E TI UCCIDO ( … ) Pochi individui hanno il privilegio di scegliersi da soli il proprio destino e perdio io sono fra costoro. Anche subito sono disposto a schiattare. Nella merda e nel sangue come schiattano tutti ma in culo all’umanità intera ( … ) È che senza l’AZIONE saremmo fantasmi incapaci di vivere. E moriremmo, sfatti, con una moglie lardona in cucina e coperti di debiti. Se gli altri non sanno vivere, viviamo noi anche per loro». Anche la preoccupante rivolta individualistica del Mazza mostra però un atteggiamento istruttivamente ambivalente nei confronti della figura paterna, un po’ rifiutata, e un po’ vissuta come lontana e, quel che più conta, inesorabilmente superiore.
Apparentemente meno drastica, ma in verità più conseguente perché più credibile (pur se non ancora del tutto verosimile) è la rivolta contro tutto e contro tutti del protagonista narratore di Bla bla bla (Garzanti, 1997), terzo romanzo di Giuseppe Culicchia. n titolo denuncia la vertigine del non-senso in cui la nostra civiltà ci ha precipitati. Travolto dalla vacuità della chiacchiera universale, e dall’orrore di fronte a un mondo che si trascina indifferente verso la sua prossima inevitabile fine, l’io narrante decide di «sparire» e prova a sopravvivere eliminando qualsiasi forma di complicità con un universo sociale disumano e irredimibile. Il libro delinea così un percorso tutto in negativo, in cui alla scoperta dell’estraneità fa seguito non la ricerca di una nuova appartenenza, ma la discesa verso una condizione di estraneità assoluta. È quasi superfluo dire che, in quest’ altra forma di esibito cattivismo, l’assenza della famiglia è necessaria e strategica: «mia madre è morta, un paio di anni fa. In effetti mi sarei stupito se avesse risposto. Persino da viva oltretutto non avrebbe potuto. Negli ultimi mesi il cancro alla gola non le permetteva di parlare. O forse era al cervello, non ricordo. Anche mio padre è morto di cancro e da un po’ di tempo ho confuso le loro malattie. Lui però parlava molto, perciò con la gola doveva essere a posto.»
Bla bla bla ci mostra il progressivo concretarsi di un programma di disimpegno sociale assoluto, dagli esiti atroci. n protagonista, che si è trasferito in una grande città straniera e ha abbandonato ogni lavoro, affitta una camera e consuma le proprie giornate in pochissime attività elementari di sopravvivenza: mangiare nei fast-food, camminare senza meta, prendere qualche metrò, guardare le finestre delle case. Quando gli scarsi denari si esauriscono, precipita nella drammatica condizione del barbone affamato. Salvato una prima volta dalla sua pensionante, se ne va di nuovo: salvo poi tornare a sfasciarle la casa, in un parossismo di smania distruttiva su cui si chiude il libro. Nell’esibizione, a tratti un po’ ingenua e meccanica, di una onnipervasiva retorica del negativo, Culicchia attacca, coerentemente, non solo il padre terreno, ma anche il Padreterno: «FOTTI NOI E I NOSTRI FOTTITORI COME NOI LI FOTTIAMO E FOTTITI ANCHE TU NEI SECOLI DEI SECOLI, AMEN». Ma c’è un altro «cannibale», il padovano Matteo Galiazzo, che al rapporto conflittuale con il Padreterno dedica davvero parecchio spazio, con esiti non di rado gustosi, nei racconti di Una particolare forma di anestesia chiamata morte (Einaudi, 1997).
Galiazzo non lesina i particolari splatter, e mette in scena omicidi con torture, incesti, stupri. Lo stupro è ormai una costante figurativa dei narratori nostrani giovani o «post-giovani» (secondo l’arguta definizione di Spinazzola): troviamo stupri in Brizzi, in Picca, in Mazza e persino in Ligabue. Galiazzo, dal canto suo, da un lato si produce in una variante ultra-cannibale, rappresentando, nel racconto Free !ance (dedicato al massacro con il gas di una cittadina bosniaca), addirittura il reiterato stupro di una ragazza morta e poi pure del fratellino, anch’egli cadavere. D’altro canto è vero che Galiazzo, a dispetto del suo esibito cattivismo, si distingue per una forte venatura etica, che s’innesta non a caso sulla spiccata predilezione per i soggetti biblici. In particolare il racconto Cose che io non so ha sullo sfondo la vicenda del serial-killer Josè. Chi ce ne parla è una narratrice leggermente esaltata, che ha ripudiato la fede dei genitori, testimoni di Geova, ma che è comunque ossessionata dalla teologia. Essa pensa che Josè sia nientedimeno che l’Anticristo: la venuta di Josè-Gesù annuncia l’Apocalisse, e più ancora l’inizio di quella che potremmo definire l’era del capovolgimento. Infatti secondo la religione della «simmetria», propugnata dalla narratrice, il cosmo attraversa regolarmente «due fasi temporali che sono l’una il contrario dell’altra, l’espansione e l’implosione di tutto. Le due fasi del respiro di Dio. L’espirazione e l’inspirazione». Quando si arriva all’ «inversione del ciclo», la storia si ripete «esattamente capovolta, fino a riportare tutto al punto di partenza». Uno degli aspetti più singolari di questo rovesciamento della storia investe proprio il rapporto fra genitori e figli: dopo l’Apocalisse «Gli uomini e le donne, anziché moltiplicarsi, diminuiranno di numero. I matrimoni, il sesso, non produrranno più dei figli, ma dei padri e delle madri. Le coppie che si uniranno in matrimonio, e si conosceranno, diventeranno una persona sola».
A ben guardare, il rifiuto dei padri potrebbe anche assomigliare a qualcosa che è quasi il contrario. Molti giovani appaiono infatti mossi da una sorta di edipica «angoscia dell’influenza», e dal bisogno di «Arrivare dove i padri non sono riusciti, o almeno dimostrarsi all’altezza … » (Pistolini): una tensione tanto più imbarazzante in un periodo di recessione. Anche per questo la condizione del giovane appare spesso segnata da un’ansia carica di insicurezze. A questo si aggiunga che: «Se c’è qualcosa che accomuna oggi il senso generazionale dei giovani, è il loro sentirsi in gioco come generazione che deve fare delle scelte etiche in una vita quotidiana che non ha più paletti da nessuna parte», in una società «moralmente neutra», «che riduce le scelte etiche a questioni tecniche». Ce lo ricordano i saggi raccolti nel volume Giovani e generazioni (il Mulino, 1997), a cura di Pierpaolo Donati e lvo Colozzi, che intendono fornire una radiografia sistematica della condizione giovanile, interpretata in chiave di «identità generazionale». La ricerca sociologica ci offre a dire il vero un’immagine delle giovani generazioni abbastanza diversa dalla vulgata offertaci dai media e dalla stessa letteratura. Scopriamo, anzitutto, che « i giovani si percepiscono e si rappresentano con molte più continuità, rispetto alle generazioni precedenti, di quanto normalmente si creda. In breve: i figli assomigliano ai genitori assai più di quanto questi ultimi riescano a riconoscere o siano disposti ad ammettere» (così Donati, nell’introduzione al volume citato). Inoltre «quanto più la società viene percepita come anomica, tanto più la famiglia di origine diventa rilevante per il suo senso generazionale e per il suo futuro personale». n che vuoi dire, in parole povere, che i giovani un po’ si sentono sradicati e ostentano la propria distanza dai padri, e un po’ invece definiscono i propri comportamenti, più ancora che in passato, in relazione alle dinamiche familiari, non avendo altri termini di confronto attendibili.
C’è un altro titolo delle edizioni Zelig (1997), Figli dell’albergo, di Sabrina Parravicini, che a prima vista parrebbe aver centrato un semplice ma intenso simbolo di questa condizione. La Parravicini cerca infatti di mettere a fuoco la storia e l’identità di un’adolescente, figlia di genitori che lavorano in un albergo. I «figli dell’albergo» sono per certi versi sempre in famiglia, e per altri assolutamente soli e, per di più, senza casa: «Viviamo nelle stanze dell’ albergo», «Ognuno di noi ha sempre mangiato da solo e in orari diversi». Anche la condizione socio-economica dei «figli dell’albergo» pare sintetizzare per vari aspetti quella tipica dei giovani anni novanta, figli sì di un benessere già acquisito, ma anche della recessione, che impedisce loro di diventare indipendenti: «l veri figli dell’albergo arrivano a trenta cinque anni senza mai avere cominciato a lavorare, neppure nel loro albergo, figuriamoci fuori (. .. ) Hanno lo sguardo assente proprio di chi non è abituato a pensare molto perché c’è già qualcuno che pensa a tutto». Peccato che poi la Parravicini (classe 1970) non sappia andare oltre un piatto e ingenuo resoconto di qualche privato fatterello.
Decisamente notevole, invece, per la non comune capacità di penetrazione psicologica, anche se non del tutto risolto sul piano letterario, è Mal d’autobus (Tropea, 1997) del triestino Mauro Covacich. Vi si racconta la storia di Andrea, che ha rilevato l’azienda del padre Furio, perché questi è in ospedale, immobilizzato da una malattia mortale. Al capezzale di Furio, più che il figlio, si vede la sua ex fidanzata, Elena, che probabilmente lo ama ancora. Elena inoltre manda regolarmente ad Andrea delle lettere molto particolari, che sono in sostanza resoconti di orrende quanto inutili vivisezioni. In Covacich il conflitto padri-figli è biunivoco. Da un lato infatti abbiamo un figlio ossessionato da un padre a cui assomiglia molto, e di cui ha preso il posto, ma con la non trascurabile differenza che la ditta è quella creata dal padre. Se il figlio vive ripetendosi fino al delirio il ritornello «lo non sono mio padre», il padre invidia ferocemente la giovinezza e la salute del figlio: «Lo disturbava soltanto che la vita dell’uomo che aveva davanti, un uomo giovane che gli somigliava in tutto, non sarebbe finita con la sua». Con notevole intuizione sociologica oltre che psicologica, Covacich raddoppia il complesso di Edipo con l’ossessione del doppio, fino a costruire un autentico delirio, tutto vissuto dall’interno, in cui si cancella ogni confine d’identità tra padre e figlio. Anche nell’allucinazione Covacich conserva una costante lucidità di sguardo, e si nega con raro rigore a qualsiasi sollievo emotivo. Con ragione i risvolti affermano che Mal d’autobus rischia di far «impallidire i cannibali dell’ultima ora. Perché è cattivo davvero».
Inaspettatamente «buonista» è invece il libretto di racconti di Luciano Ligabue, Fuori e dentro il borgo (Baldini & Castoldi, 1997), il cui titolo è simmetrico a quello dell’ultimo CD live del cantautore di Correggio, Su e giù da un palco. Bisognerebbe peraltro qui aprire un discorso sul recente sviluppo di un filoncino di cantautori-scrittori, arrivati buoni ultimi nella corsa allo sfruttamento editoriale dell’immagine televisiva. Aveva aperto la strada Guccini (il più interessante sul piano letterario), seguito da Vecchioni, De André, e ora appunto Ligabue. Se come musicista Ligabue è erede della trasgressività rock di un Vasco Rossi o di uno Zucchero, come scrittore egli appare invece cordialmente integrato in una comunità paesana cordiale e serena. Valga per tutte la scena del megaparty rock, nella quale, rivolgendosi al lettore, il narratore autobiografico risponde nel seguente modo alla domanda «Vabbé, ma quando pippano?” (cioè «quando si fanno, quando si drogano»): «Dolente ma l’unica cosa che qui ci finisce in vena – lavorando sul colesterolo – è del gran suino e del gran lambro» (cioè lambrusco). Con buona pace dei profeti del maledettismo psichedelico, Fuori e dentro il borgo preferisce puntare sullo sperimentato filone dei tipi comici della Bassa padana, o dell’ «Ameri bassa», come la definisce Ligabue. In un linguaggio colloquiale appena spruzzato di gergo e di dialetto, assistiamo così alla sfilata, modesta ma in fin dei conti gradevole e non di rado divertente, di una galleria di personaggi più o meno cugini dei tipi da Bar sport immortalati da Stefano Benni, in un campionario di sfide da osteria e di racconti orali esagerati (ma sempre ben ancorati alla realtà, e in questo assai lontani dalle surreali iperboli di Benni). C’è per esempio Virus, l’amico capace di mangiarsi qualsiasi cosa, oppure Condor, che è in grado in poche ore di imparare a memoria cumuli spaventosi di nozioni. n tutto in un contesto di scommesse paesane, in genere tranquille, dove la vita del borgo è sì talvolta segnata anche da eventi tragici, ma che appaiono come decise eccezioni. Ligabue peraltro evita quasi sempre il patetico e controlla attentamente i pericoli dell’auto-esaltazione divistica: due meriti non trascurabili. In questo contesto, le figure dei genitori sono pressoché assenti, a parte le scarne silhouette del pezzo, moderatamente sperimentale, Undici e quaranta in via Santa Maria, dove il narratore racconta la propria nascita in soggettiva. Ma le figure parentali, lungi dall’essere cancellate in nome della trasgressione o dell’assenza di radici, appaiono tutt’al contrario sostituite da una specie di famiglia superallargata, che si dilata fino a comprendere tutto il «borgo», luogo esemplare insieme di solidarietà e di modernità, di apertura culturale e di fedeltà ad antiche tradizioni di solidarismo e di amicizia, che paiono avere attraversato indenni decenni di degrado, ambientale e ideologico. Al di là del giudizio estetico (e al di là anche dell’età dell’autore, classe 1960), il libro di Ligabue è significativo perché ci porta dritti all’interno di atteggiamenti e di comportamenti che rappresentano per i giovani dei modelli ben vivi e attivi. E non a caso la doppia identità di Ligabue, cantante cattivista e scrittore buonista, pare fare eco, e sia pure in ordine inverso, alla metamorfosi di Jack FruscianteBrizzi, prima sentimentale e poi efferato. A conferma della fondamentale ambivalenza di una condizione giovanile decisamente irriducibile agli stereotipi correnti.