Canzoni di burro

Le canzoni di Carmen Consoli. Sulla pagina, la cosa meno musicale che si possa immaginare: prosa legnosa, spesso priva di ritmo; nessuna rima; una vaga ricercatezza formale; abbondanza, o addirittura ridondanza, di aggettivi. Eppure, sostanziati di suoni, questi testi acquistano un’energia sorprendente, convincono e conquistano folle. Che cosa funziona? Innanzitutto la voce dell’autrice, una voce non propriamente gradevole, ma decisamente inconfondibile, e poi la capacità di agganciare l’ascoltatore con un’estrema familiarità musicale, però mai prevedibile, grazie a quelli che la cantante chiama gli accordi «aperti», cioè armonicamente ambigui.
 
Con Livia, la mia figlia maggiore, parlo volentieri di poesia e di musica. Mi piace la passione con cui formula i suoi giudizi e li difende, senza lasciarsi minimamente intimidire dalla presunta autorevolezza di suo padre. Tempo fa discutevamo di canzoni, e in particolare dell’ultima, celebratissima ondata di cantautori. Alla mia prevenzione, al mio scetticismo sul loro effettivo valore Livia- stranamente- non obiettò nulla. Il giorno dopo, mi portò un cd e mi propose di ascoltarlo insieme.
Carmen Consoli. Mi era già capitato di sentire alla radio questa vocetta sospirosa, questi testi lambiccati. Canzonette, roba da Sanremo. Ora, però, era come averle di fronte per la prima volta. Pezzo dopo pezzo, mentre ascoltavo, i miei pregiudizi cadevano: di colpo, mi pareva di capire il loro fascino. Il loro, e quello della Canzone. Ero esposto alle radiazioni della Comunicazione.
Da brava fan, mia figlia conosceva a memoria le parole, e non riusciva a trattenersi dal cantarle, imitando scrupolosamente la pronuncia dell’idolo (la strana erre, certe e, certe o) e sottolineando, per provocarmi, i passaggi più strambi. La sua partecipazione- ironica, qua e là, ma visibilmente sincera – mi lasciava di stucco. Mi commuoveva. Mi contagiava.
Il cd era L’anfiteatro e la bambina impertinente, registrato dal vivo (con tanto di orchestra d’archi) a Taormina nel luglio del 2001, e uscito nel novembre dello stesso anno; un disco che è una sostanziosa antologia del lavoro della Consoli. Da Bianco e nero a L’ultimo bacio, da Parole di burro a Con/usa e felice, fi si trovavano i suoi greatest hits. Hits che da tempo avevano centrato milioni di miei concittadini, lasciandomi illeso. Adesso, era il mio momento. Affascinato da quel primo ascolto «guidato», cominciai a frequentare il disco, a ripercorrerlo in lungo e in largo.
A ostacolarmi ancora erano i testi. Carmen Consoli sembra avere un gusto particolare per le frasi più spigolose e impraticabili, quelle che metterebbero in crisi il canzonettista più scafato. In Parole di burro, ad esempio, si incontrano sentenze articolate come segue: «parole di burro nascondono proverbiale egoismo nelle intenzioni». Oppure, in un altro pezzo: «li tutto in funzione di nessuna logica». Si può cantare, roba così? La Consoli non solo la canta, ma ne fa addirittura il tormentone e il titolo della canzone. Visti su una pagina, i testi della «bambina impertinente» sembrano la cosa meno musicale che si possa immaginare. Prosa; e della più legnosa, per giunta. Senza ascoltare l’esecuzione, è difficile riconoscerei l’ombra di quello che si chiama un verso, un ritmo. Di rime, quasi nessuna traccia (chissà, forse è meglio così). Le spie «poetiche» più evidenti sono una vaga ricercatezza lessicale («nulla può scalfirei adesso») e l’abbondanza degli aggettivi (spesso preposti al nome), che si accumulano fino alla saturazione e alla ridondanza: «magica quiete, velata indulgenza dopo l’ingrata tempesta»; «l’eroico coraggio di un feroce addio».
Eppure, sostanziati di suoni, questi temini sul rapporto madre-figlia, questi pensierini sull’amore o sul narcisismo, acquistano un’energia sorprendente. Convincono, conquistano le folle. Conquistano anche me.
Sentire il pubblico ripetere in coro le frasi più arzigogolate fa un certo effetto. Che cosa agisce, che cosa funziona? Che cosa spinge migliaia di persone a cantare «nei lunghi e ostili silenzi di quell’arbitraria indolenza» come se fosse un inno?
A compiere il miracolo è innanzitutto la voce dell’autrice. Una voce non propriamente gradevole; acerba, quasi infantile, a volte persino un po’ chioccia: ricorda la Rita Pavone «minorenne» degli inizi. È quella che si chiama «una voce inconfondibile». La voce di qualcuno. L’emozione, che nelle interpreti più celebrate è il risultato di artifici esecutivi, in Carmen Consoli sembra emanare direttamente dal corpo. Qui sta la chiave. Prima che una cantante, Carmen Consoli è una voce.
Quella voce, probabilmente, non l’avremmo mai sentita se non appartenesse a una compositrice pop di notevole talento. Canzoni come Blu notte, Bianco e nero o L’ultimo bacio nascono da una rielaborazione molto partecipata e personale dei cliché della nostra canzonetta, e da un loro sapiente innesto con quelli della migliore tradizione angloamericana. Attraverso un ammirevole controllo della forma, la Consoli aggancia l’ascoltatore, lo fa entrare in un sistema di attese, per poi spiazzarlo con due o tre virate ben collocate, che rimettono tutto in gioco. I suoi pezzi riescono a dare un’impressione di estrema familiarità musicale senza mai risultare prevedibili. Questo effetto deriva anche dalla predilezione dell’autrice per quelli che chiama accordi «aperti», cioè armonicamente ambigui: quando l’ascoltatore è collocato in questo orizzonte, i rapporti funzionali tra un accordo e l’altro gli appaiono meno chiari, le risoluzioni (le possibilità di «scioglimento») meno scontate (viene da pensare che anche l’esclusione delle rime svolga la stessa funzione).
Una volta trovate tutte le «spiegazioni», comunque, si è ancora ben lontani dall’essenziale. È giusto prenderne atto. Mentre smontavo e rimontavo testi e musiche della «bambina impertinente», mi sentivo come il topo che in un racconto di Kafka si sforza a lungo, e invano, di dar conto della potenza del canto di Josefine, la topolina-cantante che seduce il suo popolo con un fischio del tutto simile a quello di mille altri. «Solo da molto lontano – dice il topo, a un certo punto – il suo può essere confuso con un fischio qualsiasi: se si sta di fronte a lei, allora non è più solo un fischio».
Se le considero da una distanza critica, le canzoni di Carmen Consoli finiscono per sembrarmi «un fischio»; poi, però, torno ad ascoltare quella voce, quei cori, e non resisto: canto anch’io insieme a tutti. Non giudico, non do spiegazioni. Sto di nuovo di fronte a questa ragazza, alla sua musica, alle sue parole. Non è questo che l’arte (anche la canzonetta) ci insegna a fare?