Ed è sempre Napoli

La città partenopea e il più bel golfo della penisola fanno nuovamente da sfondo alle opere di maggior interesse dell’annata (i romanzi Dagoberto Babilonio, un destino di Romana Petri e I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante). Nella più suggestiva, La dismissione di Ermanno Rea, Napoli è la protagonista indiscussa, con il suo mare grigio e desolato e con le ciminiere degli altiforni dell’Ilva di Bagnoli, ormai smantellati e ridotti a vuoto ricordo di un grande passato industriale.
 
Possiamo anche partire da lontano, magari da un paese fantastico dell’America Latina, ma l’arrivo è sempre lì, nel più bel golfo della penisola. Sull’eco musicale di I’ te vurria vasà, Dagoberto, il protagonista del romanzo di Romana Petri (Dagoberto Babilonio, un destino), lascia il villaggio di Amatraz e la sua sposa bambina; dopo peregrinazioni avventurose che si distendono in un tempo indefinito, giunge in sella al cavallo Babieca a Marechiaro. Qui «tra il mare e i vicoli senza luce», dove vive una umanità che non conosce riscatto («Contrabbando, furto, prostituzione, questa è stata l’industria nostra. A noi la ricostruzione economica e la riscossa democratica non ci possono riguardare. A noi ci lasciano a fare la plebe devastata», p. 275), l’eroe vagabondo s’addestra a impastare farina per la pizza, mentre racconta storie antiche e fiabe leggendarie. All’ombra del Vesuvio, placa i rovelli inquieti di un’orfanità immedicabile e nell’ultimo incontro amoroso, ricco di erotismo appagante e di feralità regressiva, paga con la morte le ansie di fuga e i furori donchisciotteschi. Condotta sui ritmi dell’oralità che evocano le cadenze dei poeti (in epigrafe i versi di Machado) ma soprattutto le inflessioni melodiose dei romanzieri ispanoamericani, la narrazione del viaggio compone una geografia fantastica e ultraletteraria, in cui paese di partenza e approdo finale coincidono: a chiudere idealmente il cerchio non è tanto la memoria fluttuante e ricorrente di Dagoberto, quanto il richiamo a una norma antropologica che accomuna, nella malinconia euforica e nella fantasia dolente, le genti di Almandera e il popolo dei bassi.
Dopo dieci anni esatti dall’Amore molesto, Elena Ferrante torna in libreria con un’opera che, seppur non ambientata a Napoli, della città conserva i timbri vividi e la disperazione vitale. Nei Giorni dell’abbandono le suggestioni della malia partenopea tramano la filigrana rada dell’intreccio e danno spessore al carattere della protagonista e narratrice. Olga, nata e cresciuta sotto la collina del Vomero, ora vive a Torino con il marito ingegnere e due ragazzini: in un giorno qualsiasi, mentre sta sparecchiando la tavola, l’uomo le comunica la decisione di andarsene da casa. Il racconto si distende, appunto, lungo i «giorni dell’abbandono», giusta l’indicazione dell’azzeccato titolo.
Il confronto fra il capoluogo piemontese, con la sua aria metallica, raggelante, noiosa, e i ricordi affioranti dell’adolescenza lontana, serve a lumeggiare il dissidio patito da una moglie quarantenne che rigetta le pose vittimistiche delle «donne in frantumi», senza, però, acconsentire ai dettami di una razionalità algida tesa a ricomporre in ordine sempre tutto: ecco allora riaggallare alla coscienza «la vita clamorosa» di un tempo, il tumulto di passioni intense, messe a tacere dal matrimonio e dal soggiorno sotto la Mole. Come suggerisce l’immagine della figura allo specchio che campeggia in copertina, la protagonista nell’estate del «deragliamento» si guarda dentro e riscopre le energie nascoste di una femminilità tanto più inquietamente moderna (il rapporto con i figli, maschio e femmina, è aspramente conflittuale) quanto meno timorosa di «sentire la vertigine della profondità, la nerezza dell’inferno» (p. 21). A dar conto del groviglio di densa visceralità e di rigore lucido è una scrittura che, entro un ordito sintattico lineare, crudelmente analitico, s’arroventa in pointes di pathos delirante: «Esistere è questo, pensai, un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare» (p. 210). Il linguaggio appiattito sui gesti insensati della banalità quotidiana trapassa, senza mediazioni, nel turgore dell’accensione visionaria, in un impasto espressivo molto femminile, molto partenopeo.
Pur nella raffigurazione indiretta della città natale, il romanzo della Ferrante avvalora una caratteristica originale della produzione narrativa degli ultimi anni: nei testi degli autori capaci di evitare le note fasulle del folclore populista o del bozzettismo coloristico, lo scenario napoletano diventa il reagente che meglio illumina le contraddizioni laceranti di uno sviluppo malgovernato, sempre in bilico fra ansie di regressione nostalgica e fughe verso una modernità equivoca.
In questo orizzonte tanto più allora risalta l’opera di Ermanno Rea, La dismissione. Fedele alla cronaca e alle atmosfere vesuviane, lo scrittore del Mistero napoletano compie una scelta audace, al limite della provocazione. È Bagnoli, non Milano o Torino, lo scenario privilegiato su cui proiettare le vicende epiche e frustranti di una grande fabbrica nazionale: negli altiforni delle colate continue dell’Ilva si celebra l’etica del lavoro produttivo, anche e soprattutto nel momento in cui se ne illustra il declino irreversibile. Con la stessa determinazione coraggiosa, Rea si affida agli strumenti inusuali dell’analisi sociologica per allestire una fiction coinvolgente che rinviene i propri nuclei tematici e strutturali nella ricostruzione puntigliosa degli eventi che hanno condizionato la nascita, lo sviluppo e la crisi della comunità operaia di «Ferropoli».
Il romanzo, che rievoca la lunga stagione di smantellamento dei padiglioni e macchinari dell’acciaieria, ribalta gli stereotipi diffusi della napoletanità: non solo e non tanto perché mette in scena i ritmi e le fatiche delle officine, le lotte sindacali, le prevaricazioni dei molti capi e la lungimiranza di alcuni dirigenti, ma perché dà visibilità e coscienza a chi in quello stabilimento ha cercato e trovato le norme del comportamento esistenziale, le regole della convivenza quotidiana, persino le forme contorte per esprimere sentimenti e emozioni. Un Bildungsroman industriale, in cui l’operaio tecnico Vincenzo Bonocore, nel percorso verso la maturità, non solo lavorativa, conosce fallimenti e gratificazioni, incontra donne forti e ragazze fragili, si interroga sulle svolte generazionali, mentre accanto a lui si muove una schiera di compagni persi e ritrovati, di colleghi gelosi e solidali, di antagonisti pronti a tramutarsi in amici fidati.
A garantire la tenuta dell’opera è la tensione dialogica che l’innerva sin dall’esordio: il narratore, controfigura non esibita dell’autore reale, interloquisce con il protagonista, e delega alla sua voce l’intera responsabilità del racconto, sia nell’articolazione dell’intreccio sia nella raffigurazione dei personaggi. In una stagione narrativa in cui l’appello al «tu» suona insistente cifra d’enfasi suasoria (dal sublime pamphlettistico della Fallaci all’empatia fastidiosamente manieristica di Non ti muovere della Mazzantini), la scrittura di Rea ci restituisce, su cadenze lente e nel contempo serrate, l’urgenza del fervore comunicativo, l’ansia della confidenza autentica; cosicché anche i silenzi in cui poco napoletanamente si chiude Vincenzo (e assieme a lui la moglie Rosaria e il funzionario cinese) acquistano risonanze forti: nella fedeltà muta a un lavoro fatto «a regola d’arte» è custodita l’eredità del padre artigiano; nei gesti misurati, quasi maniacali, di una sbullonatura notturna si cementa l’amicizia con Chung Fu, l’ «uomo strano e colto» inviato dal partito a Bagnoli per sovrintendere al trasporto delle macchine a Meishan; nell’impossibilità di una confessione (l’attrazione repressa per Marcella) traluce l’inettitudine sentimentale della virilità adulta. Infine, ma con esito non meno significativo, la difficoltà di chiarire le ragioni vere che hanno portato allo smantellamento dell’Uva suona accusa esplicita alla classe dirigente non solo locale. La dismissione si può allora leggere come la risposta letteraria e politica al libro che con maggior impegno e energia espressiva si era calato Nel corpo di Napoli: ai rovelli crucciosi dei protagonisti di Montesano, capaci solo di crogiolarsi nell’indolenza logorroica, nel narcisismo intellettuale, nei fideismi superstiziosi, Vincenzo Bonocore replica con l’orgoglio severo del lavoro e dell’azione concreta e fattiva, con il rispetto sincero delle culture e idee diverse, persino con la solitudine ombrosa della reticenza. Allo stile raffinato e straniante del giovane scrittore, Rea contrappone la prosa asciutta dell’inchiesta romanzesca che non rinuncia ai moti dell’identificazione simpatetica.
Suggerisce il confronto anche l’immagine fotografica che in entrambi i libri occupa per intero la copertina: le ciminiere degli altiforni di Bagnoli, affacciate su un mare grigio e desolato. La scelta paratestuale in un caso è dettata da sofisticate ragioni antifrastiche, nell’altro da evidenti intenti realistico-documentari. E nondimeno l’analogia, per quanto casuale, sollecita nel lettore un medesimo assillante interrogativo: quale modernità persegue questo paese i cui governanti non sanno orientare i processi di sviluppo produttivo e pervicacemente rifiutano di farsi carico della questione meridionale?