Gli affabulatori inquietanti

Il giallo, il noir, il thriller a tinte apocalittiche sono i tipi romanzeschi che oggi prevalgono. Sul terreno dell’intrattenimento, essi esercitano una palese attrazione all’indirizzo di generi come la fantascienza e come il racconto sentimentale. In modi diversi, attingono a una tale modellistica Nicoletta Vallorani, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Gabriella Magrini. Sempre più, il gusto del lettore di massa è solleticato da scenari bui, truculenti. E anche chi si affida alle risorse del romanzo storico, come Valeria Manfredi, non sembra sfuggire alle suggestioni di una civiltà morente.
 
«La gente ha bisogno di credere nel male e nella possibilità che esso possa coagularsi in una sola persona»: scrive così, di passaggio, Nicoletta Vallorani nel suo ultimo romanzo Eva. E davvero al riparo del noir, del thriller apocalittico e degli omicidi a luci rosse si dispone larga parte della più recente narrativa di intrattenimento. Quasi che i generi un tempo preposti al racconto fantasioso, capace di relax per via umoristica o d’ avventura, di lontananze siderali o struggimenti d’amore, stiano subendo una sensibile polarizzazione nel segno dell’angoscia controllata: del filtraggio privatistico di un diffuso disagio mediatico e sociale. Eva ci conduce ad esempio in un futuro vicinissimo, la Milano aggressivamente multietnica del 2023, dove agisce un detective anomalo, Nigredo, un quasi cinquantenne con oscuri trascorsi da dinamitardo fanatico, capace tuttavia di calcare la scena criminale con il candore di un adolescente: «per me inseguire le tracce di un assassino era come innamorarsi». Ad accoglierne le gesta, e il cupo rovello esistenziale che per altro verso lo caratterizza, è un mondo umano a un passo dalla definitiva catastrofe. C’è stata una guerra – non chiarita nelle sue ragioni strategiche -, e quanto resta sono rovine, inquinamento radioattivo e marasma istituzionale. La morte violenta appare in simili latitudini un dato di quotidianità insignificante, non fosse per un misterioso Artista, un killer dotato di sarcasmo e di senso estetico, capace di trasformare una serie impressionante di corpi maciullati in altrettante «installazioni»: opere materiche che una volta deposte sul lettino dell’anatomopatologo restituiscono la mappa della vecchia Iugoslavia, antecedente efferato, barbarico, da cui si è ingenerata la lunga agonia europea.
Se possibile più crudo e conturbante risulta però il fantanoir concepito da Valerio Evangelisti in Black Flag. Come di consueto, lo scrittore bolognese predilige un montaggio “sporco”, frutto di due piani narrativi tra di loro distanti e in qualche misura concorrenti. A un primo livello, diciamo teleologico, abbiamo il 2999; epoca tormentata dal grande conflitto che si scatena tra umanità del Profondo e umanità delle Stelle, tra individualismo violento, schizoide, e anarchismo solidale, romanticamente incline alla contestazione antisistema. A un secondo livello, senz’ altro più efficace, sta il Sud degli Stati Uniti nel 1871, durante la guerra di Secessione, che deve valere come il vero, decisivo antefatto del mondo di domani. Va da sé che ad avvantaggiarsi sono le schiere del male, della protervia tecnologica e del mondialismo cruento, a cui tuttavia si oppongono Pantera, un meticcio messicano con doti stregonesche, e Lilith, la nostra futura e disincantata vendicatrice che ne raccoglie il testimone. In un clima di diffuso magismo, Evangelisti predispone un immaginario bellico e neogotico, così da far emergere il cuore avventuroso e più ancora fantastico che pulsa nel subcontinente americano: dove uomini lupo e scienziati deviati, condottieri crudeli, prostitute, banditi affamati di scalpi interloquiscono, si azzannano, si stuprano conferendo alla pagina un ritmo serrato e di sicuro effetto orripilante.
Lo stesso obiettivo che sembra perseguire Giuseppe Genna con Nel nome di Ishmael. Anche qui le vicende si dispongono su due piani cronologicamente divaricati: da un lato il 1962, nei giorni in cui muore il tychoon dell’ENI Enrico Mattei; dall’altro gli albori ben poco radiosi del nuovo secolo, compendiabili nella figura di uno stanco ma pur sempre mefistofelico Henry Kissinger. Certo il romanzo genniano appare meglio connesso del precedente; non sempre scorrevole, non sempre vibrante di emozioni, ma senza dubbio più progettato. Ishmael – sia esso persona singola o setta, ente o cifra infausta dei tempi – vi compare in quanto creatore e distruttore, è «un nuovo Cristo», non però votato alla salvazione dell’uomo, anzi «Cattivo», enigmaticamente omicida. I due ispettori che a distanza di decenni ne inseguono le tracce, Montorsi e Lopez, per quanto infine vittoriosi, non possono che prendere atto della sua enormità indicibile, della sua ineffabilità demiurgica. Alfieri poco convinti di una giustizia ormai chimerica, si muovono per motivi individuali in un mondo regolato sugli istinti più distruttivi, dove a contare sono le prestazioni sadomaso e i traffici pedofili, la «carne venduta», i «pezzi», le «macchinette» da uno a sei anni destinate al sacrificio sull’altare del Male.
C’è poco da stare allegri: nel passato, nel presente, nel futuro. E non di meno i romanzi di Evangelisti e della Vallorani ci dicono qualcosa a proposito delle crescenti difficoltà incontrate dal genere fantascientifico. Detection e ambientazione storica, cronologie parallele, recupero di temi già cari all’imagerie sette-ottocentesca, appaiono per molti riguardi scelte difensive. Benché dotati di fervore avveniristico, gli scrittori nostrani si rivolgono alle tecniche dell’ibridazione multigenere quasi prendendo atto della contingente impotenza del codice fantascientifico a intercettare le ansie che pervadono la moltitudine indifferenziata dei lettori. Esito paradossale, se pensiamo alla capacità della fantascienza di illustrare anticipatamente gli orizzonti di civiltà in cui si inscrive l’Occidente moderno; eppure esito inequivocabile: la science fiction rincula, arretra, sedotta da codici affini (il fantastico); ovvero familiarizza con tipi difformi (il noir, il giallo) allo scopo di rinsaldare una compagine testuale altrimenti votata a un mero profetismo di tono didascalico e millenarista.
Sembrerebbe questo il dato saliente del quadro: il desiderio di nobilitazione, e di riorientamento funzionale, proprio di generi ancora oggi colpiti da un pregiudizio estetico, grazie al supporto di modelli narrativi senz’altro graditi a un pubblico di massa, ma che hanno raggiunto nel corso dell’ultimo decennio un assetto autorevole. A darcene conferma per altra via è un romanzo come La voce delle sirene di Gabriella Magrini. Qui il racconto rosa e il poliziesco di ambientazione metropolitana si fronteggiano brillantemente, si compenetrano senza eccessive forzature. Non che tutti i conti tornino – in chiusura di volume, un cadavere resta inspiegato -, e tuttavia il doppio registro viene tenuto con estrosità degna di encomio. Credibile è la protagonista femminile, la ventenne Katia, giornalista avventizia, un tipo di donna «spaventosamente consapevole», lucida, meditativa; adeguatamente sbozzati anche i maschi che la attorniano: dal «dandy attempato» Max von Bulack, psicologo e bestsellerista trovato ucciso nel pieno di una performance erotica; all’ispettore Arcangeli, uomo fedele, affidabile; sino al giovane Fabrizio, immaturo ma affascinante esempio di una media borghesia meneghina che adeguatamente orientalizzata – un periodo in India, le suggestioni di un guru – sa rinunciare ai privilegi di casta per riprendere contatto con una vita forse meno ambiziosa ma più proficua dal lato dei sentimenti. Ad alimentare il meccanismo narrativo è certo l’inchiesta condotta dall’indomita Katia; ciò non toglie che al centro della «telenovela noir» resti il difficile rapporto tra i sessi: o meglio ancora la grinta polemica a cui ricorre la narratrice tratteggiando «un angusto mondo di uomini», tutto preso dal «piccolo cabotaggio del sesso», e però in grado, dopo una doverosa cura riformatrice, di corrispondere alle aspirazioni di una donna intraprendente e laicamente consapevole del proprio ruolo.
Il tentativo di mescidare giallo e racconto rosa non è d’altronde del tutto nuovo nella tradizione nostrana. Si potrebbe ricordare in proposito un romanzetto come A scuola si muore, composto da Brunella Gasperini e pubblicato da Rizzoli nel 1975 . Diversa, e di matrice anglosassone, è invece la modellistica a cui si ispirano gli scrittori già menzionati: Evangelisti ha indubbiamente tenuto presente nel suo lavoro Cormac McCarthy di Meridiano di sangue; inevitabile, per la Vallorani, il richiamo al Philip K. Dick di Cacciatore di androidi; James Ellroy di American Tabloid è l’idolo letterario dichiarato dal giovane Genna.
A presidiare il romanzo storico all’italiana, ma con evidenti innesti di epica bretone, resta infine Valerio Manfredi di L’ultima legione. Anche in questo caso lo sfondo è catastrofico: siamo nel 476 d.C., i goti di Odoacre hanno preso possesso dell’impero, il tredicenne Romolo Augustolo è braccato, e solo alla dedizione eroica di un esiguo manipolo di combattenti si devono le sue speranze residue di libertà. La ricostruzione dei fatti e dei luoghi appare filologicamente fiabesca, il romanzo si caratterizza per forti pimenti avventurosi – molti i duelli, le fughe, le battaglie, i sortilegi; ma molti anche gli indizi di melodramma: amnesie, passioni, vendette da consumare. Dà Ravenna, capitale d’Occidente, il racconto si sposta a Capri, nelle Gallie, nella Bretagna celtica, dove il giovane imperatore ha infine la sua apoteosi, rifondando un regno che i predecessori romani avevano abbandonato. È evidente il tema tutto odierno e pulsante dello scontro di culture. Il collasso dell’eterna Roma favorisce facili allegorie: «non possiamo non dirci romani», dichiarano i protagonisti, «l’impero è l’unico mondo in cui vale la pena di vivere», e se anche minato alle fondamenta, va difeso con «fede incrollabile nel diritto e nella civiltà». Manfredi, come si vede, non indulge all’apocalisse che atterrisce, che getta nello sconforto compiaciuto, si affida piuttosto a una pseudodialettica della storia, per cui alla catastrofe fa sempre seguito la rinascita. In obbedienza a una genealogia leggendaria, da Romolo Augustolo discenderà il bretone Romolo Pendragon, e da lui il mitico Re Artù. La rovina di un edificio plurisecolare su impulso di civiltà più arretrate è certamente un’immagine buia; nulla può motivare però il risentimento nichilista. «In questa storia – spiega l’autore – ho cercato di rendere quell’evento nella sua enorme valenza epocale, ma anche di mettere in rilievo il sorgere di nuovi mondi, di nuove culture e di nuove civiltà dalle radici ancora vitali del mondo romano».
Impero del Bene, Impero del Male; Roma antica, gli USA: sono queste le icone che ci viene proponendo la narrativa di intrattenimento targata 2002. La presenza di motivi ideologici e politici è più che avvertibile, in Manfredi come anche in Genna, e soprattutto in Evangelisti, nella Vallorani. Con circospezione ambigua, l’ombra dell’Islam fondamentalista aleggia su molte di queste pagine, insieme all’immagine delle Twin Towers crollanti. E tuttavia chi, e in che modo, riesce a contrastare tanta catastrofe? Sono gli eroi del mistero e dell’ascesi, della sapienza premoderna: Pantera, lo stregone meticcio di Black flag, e il santone indiano, maestro di vita immaginato in La voce delle sirene; o ancora il sacerdote druido che accompagna il giovane imperatore in L’ultima legione; senza dimenticare Nigredo, il protagonista di Eva, che ci ricorda il primo stadio delle trasformazioni alchemiche. Di fronte a tutti costoro sta comunque Ishmael, «l’Annientatore», «L’Artefice», che fra le altre cose caduche e ignobilmente materiali si è reso responsabile del cosmo nel quale ci tocca di vivere.