Tra esistenza e storia

Da una parte la pulsione etico-esistenziale della lirica di Fiori e Dal Bianco; dall’altra la tensione etico-civile dei rap di Arbasino e della poesia di De Signoribus. Da un lato la comunicatività della decantazione assorta, una certa stilizzazione antinarcisistica dell’io, un senso spiccato per tutto ciò che va oltre il soggetto; dall’altro versi impegnati sulla contemporaneità dallo stile fonicamente marcato e marchiato nel segno della sgraziatezza pregnante o della concentrazione espressiva e ritmicamente battente.
 
La volontà di discorso che muove i testi di cui intendo parlare discende da una spinta morale: da una pulsione etico-esistenziale nel caso di La bella vista di Umberto Fiori e Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco, da una pulsione civico-politica in quello di Rap! e Rap 2 di Alberto Arbasino e nella Memoria del chiuso mondo di Eugenio De Signoribus. L’esigenza morale può tenere a distanza l’attualità, cancellandola quasi del tutto (Dal Bianco) o !asciandola scivolare in secondo piano, defilata ma percepibile (Fiori), o può invece scegliere di confrontarsi direttamente con il «costume dei tempi», come dice la Nota conclusiva del testo di De Signoribus, in forma estensiva o intensiva: immergendovisi con piglio aggressivo-mimetico nei rap di Arbasino, o cercando di metterne a fuoco un unico evento capitale, la guerra in Afghanistan, come registrazione, documento, «memorietta».
TI lungo componimento che apre e·dà il titolo al nuovo volume di Fiori riserva una doppia sorpresa: l’abbandono di quegli scenari urbani che sono stati sin qui uno dei tratti più tipici della scrittura dell’autore e la rinuncia alla consueta misura breve per quella più distesa del poemetto. Ma gli spazi cittadini tornano in primo piano nelle successive sezioni della raccolta (Idoli e Statue), mentre al centro .del paesaggio assolato che avvia il testo iniziale scintillano «le lamiere nuove nuove / di un motorino». Segno che lo spostamento verso la natura non sottintende rimozioni.
Il teatro della Bella vista è la costa alta fra Lerici e Bocca di Magra. Qui si svolge l’avventura conoscitiva e morale che Fiori descrive fondendo racconto e meditazione, soliloquio e dialogo. La bella vista narra di un rivelarsi del mondo. L’io poetante dice come una volta, in un paesaggio marino inondato di luce, visto dall’alto, il mondo gli si sia presentato aperto, evidente, organico («I monti e i motoscafi / ho visto quello / che li teneva insieme»), e come quella vista sia stata per lui, da allora, pietra di paragone – che aiuta a rendersi conto, che chiede conto- e fonte di forza per vita e scrittura. Si tratta dunque della storia di un’epifania, ma secca, senza compiacimenti. L’eccezionalità dell’esperienza non è in alcun modo indice dell’eccezionalità dell’individuo che l’ha vissuta. Quel momento d’intesa con le cose era tutt’uno con il senso dell’alterità e della vastità del mondo, di quanto sia irriducibile alle misure del soggetto. Nessuna posizione di privilegio per l’io, soltanto un posto fra gli altri: «Edera, vespe, nuvole, io, benzina, / raggi, lamiere, infanzie, / pali, ragionamenti, boschi, tracce / di ruote e di animali». E l’incontro con il mondo nemmeno può ridursi a dialogo chiuso fra il poeta e la bella vista, proprio da lei viene infatti un perentorio invito a guardare oltre i confini del sé: «Non sei solo con me. C’è un aiuto, / una minaccia, un ingombro. / C’è un disturbo, una compagnia».
In quest’orizzonte non c’è spazio per virtuosismi («il premio che tu eri / non c’è bravura / che possa meritarlo»), la forza dell’espressione letteraria sta nella sua capacità di farsi semplice, nuda, di riscoprire parole nette, vicine a quelle del discorso quotidiano. Anche in polemica con il linguaggio orgoglioso, impoverito, querulo dei nostri giorni: «Ricordami che oltre questo vocìo / di cognomi, di insegne, / oltre questo litigio di facce e macchine che strepitano io! io! / c’era il tuo panorama». La lingua effettivamente impiegata da Fiori riesce a non tradire i presupposti dichiarati. La tessitura retorica della pagina è spoglia ma fitta, usa con parsimonia la rima, anche distanziandone gli elementi o dissimulandoli in mezzo al verso, affida gli effetti di ripresa e di eco in sottofondo a una rete di allitterazioni e di assonanze, e in primo piano a un frequente gioco di ripetizioni (in anafora o con una disposizione più mossa). Fiori approfitta dell’ampia campata del poemetto per ottenere una maggiore varietà di movenze, con un gioco costante di misure (di verso, di strofa) e di modalità discorsive (enunciazioni ferme, domande, invocazioni), secondo un’idea «linguistica» di ritmo poetico enunciata di recente nel secondo numero della rivista «Materiali di estetica» (un ritmo che nasce «dall’articolazione del discorso, dai suoi movimenti e dalle sue stasi, dalle sue esitazioni e dai suoi slanci, dalla tensione verso uno scioglimento del senso»). Variano anche i registri: ai momenti più assorti succedono quelli più critico-comici, come le sezioni in cui l’io che scrive ragiona sui nomi e cognomi della gente, rimuginandoli, saggiandoli con la mente e con la lingua, per spremere desideri e vanità di chi li porta (e qui la scrittura si fa più nervosa, più lavorata da metafore e giochi fonici).
Il libro di Dal Bianco mostra verso il linguaggio un atteggiamento in parte analogo a quello di Fiori. L’esigenza, la volontà di comunicare si accompagnano a una cautela verso la propria parola, un sospetto: «non mi fido delle mie parole», si legge nella Poesia che ha bisogno di un gesto. Quella di Ritorno a Planaval è, in modo diverso ma affine a quel che avviene in La bella vista, una comunicatività della decantazione, non dell’immediatezza, della facilità. Ad accomunare i due libri sta anche una stilizzazione antinarcisistica dell’io, il senso spiccato di tutto quel che va oltre il soggetto. La tendenza a osservare, a osservarsi, procede con pacatezza, l’introspezione si presenta come presa d’atto di sé, di un sé quasi sempre posto in uno spazio determinato che lo relativizza: «in ambienti precisi, sempre visti un po’ di sbieco», come ha notato Mengaldo, la casa, una stanza, la finestra. Così se il moscerino vola descrivendo traiettorie tutte interne allo stesso piano ideale, usando solo due dimensioni, «anch’io sono su un piano, il quarto, / vivo nella mia fetta d’aria, / sopravvivo e quando voglio / guardo e respiro dalla finestra». Così La poesia di oggi, composta di quattro brevissime prose descrittive che ritraggono la casa del poeta e della sua donna con e senza le loro presenze, dice quella provvisorietà dell’individuo altrove enunciata esplicitamente («non avrei creduto che sarei durato»).
Del resto, al termine del libro e all’inizio dell’esperienza dell’io di cui si traccia il «diario» sta una perdita. Ritorno a Planaval si dipana quasi come un viaggio, un itinerario fra due luoghi e due tempi, nel presente e nel passato. Prima c’è il mondo cittadino in cui l’io lirico è venuto ad abitare: Luna e antenna è la prima poesia della sezione iniziale intitolata La vita nuova. Il sommesso gioco d’attrito fra titoli, tra prosaicità moderna e reminiscenze della tradizione poetica, indica l’intenzione di trovar la via per un classicismo contemporaneo, o per un suo «sfondamento» senza oblio. Qui e nelle due successive sezioni (La distrazione e Fuori di casa) si racconta e descrive un nuovo spazio – l’appartamento, gli esterni cittadini – e una nuova disposizione mentale-affettiva all’insegna di una capacità ritrovata di «riconoscere il profilo e il colore delle cose». Poi, dopo l’intermezzo dedicato alle Marine e attraverso il preludio delle Famigliari, il percorso si conclude con un ritorno al mondo naturale, alpino di Planava!, che è anche il luogo di un trauma originario, la perdita di Nelly.
Il tratto stilistico e strutturale più appariscente del testo è l’alternanza di prosa e versi, anche all’interno dello stesso componimento o della stessa lassa, che Dal Bianco pratica in una gamma di soluzioni diverse: con gusto della regolarità (coppia di lasse prosastiche-coppia di strofe, verso-prosa-verso) oppure con effetti quasi d’informale; per lo più senza segnalare nel discorso le transizioni, ma anche dichiarando l’inserimento. La formula del prosimetro, la compresenza di versi e oratio soluta ha un significato di bilanciamento, di contrappeso, serve a trattenere la parola da eccessive accensioni liriche, a non farle perdere contatto con il mondo delle cose, con i lettori.
I libri (due, finora) che raccolgono i rap di Arbasino sono incorniciati, e attraversati, da nette dichiarazioni di poetica, un po’ ricette d’autore, un po’ istruzioni per l’uso. La scelta è quella di farsi cronista, di «registrare / di corsa, a caldo, in fretta / le testimonianze in presa diretta», per monitorare le oscillazioni del costume politico, intellettuale, quotidiano sulla scorta di una capacità di giudizio che gli viene dalla memoria (nell’incipit di Rap 2 si dichiara subito parte di un drappello di «Vegliardi, anche schivi»). Della forma rap gli interessa l’attualità, la natura argomentativa («ho scelto la forma del rap», dice in una bella intervista a Oreste Pivetta, «perché è la poesia tipica del nostro tempo e perché i versi a volte possono dire le cose meglio della saggistica», «l’Unità», 10 settembre 2002), il basso livello di codificazione con le relative elasticità formale e apertura verso gli oggetti più bassi. L’autore ci offre istantanee in serie di una società essenzialmente brutta, moralmente informe, ambigua, in cui «nessuno è soltanto una cosa. È una cosa ma anche l’altra, anti pro filo contro: controcorrente, irriverente, contromano, contropiede, controsenso, controprova, pro patria, filodiffusione…» (si legge ancora nell’intervista a Pivetta). Nel dar conto di questa Italia, affollata e confusa, molteplice e omologata, Arbasino ricorre a una scrittura omeopatica, fonicamente marcata e marchiata nel segno della sgraziatezza, quasi come un Toti Scialoja inacidito, infastidito, disamorato. Fino all’estremo della volgarità esposta con piattezza e del conio, come ha notato Gramigna, di «mostriciattoli grafici» che simulano un eloquio dialettale sfatto. Qui la voluttà dell’elenco, la nevroticità accumulatoria, tipica della percezione arbasiniana del mondo, trova uno spazio congenialissimo. La coerenza del progetto e della sua realizzazione è alta, ma proprio per questo, mi pare, il risultato è a tratti tagliente e pregnante, in altri casi non può che essere sciatto e sgradevole.
Anche la poesia di De Signoribus si impegna sull’oggi ma per tutt’altre vie, punta – con esiti notevoli – sulla selettività e sulla concentrazione espressiva. Se il contenuto affrontato, il destino dell’Afghanistan, la guerra «riparatrice», è grande e tragico, le forme prescelte vanno nel senso della riduzione, dell’asciugatura, dell’abbassamento: Memoria del chiuso mondo è un piccolo poemetto di ventidue strofe di sei ottonari che danno al testo un ritmo regolare, cantilenante, martellante, da filastrocca triste. Il fuoco della rappresentazione è l’Afghanistan, nazione-organismo, vivente e sofferente, come dichiara la metafora iniziale; «un corpo riarso e fitto / di montagne e di caverne / di petrose piste e case / senza smalti e senza antenne». Le procedure riduttive cui ricorre la voce poetica sono anche indice di un tentativo di assumere nel proprio sguardo alcuni tratti della prospettiva dei «popoli inermi e spaventati» protagonisti senza averlo deciso di questi eventi. E dei più esposti fra di essi, i bambini e i vecchi, non a caso le prime figure a entrare in scena, più volte menzionate: «ora tremano i bambini / con i vecchi nelle soste / ora vanno nella notte / sui carretti a somarelli / ora a piedi e cenciarelli / verso un luogo di frontiera». Qui come altrove il ritmo battente è rafforzato dall’uso della rima baciata e dall’impiego costante di strutture binarie, quasi a voler meglio imprimere le immagini nella memoria del lettore e ribadire il legame di queste genti con un destino non voluto e ineludibile.