IL gran castello di Meneghello

Nell’ultimo decennio Luigi Meneghello si è definitivamente imposto come uno degli scrittori più importanti della sua generazione: un ruolo consolidato da Rizzoli, che ne ha monumentalizzato la produzione prima coi due volumi delle Opere (privi però della saggistica e dei testi di materia inglese) e ora coi tre delle Carte, nei quali precipita una vastissima congerie di materiali (appunti, progetti, esperimenti, abbozzi, ragionamenti, aforismi).
 
Malo, come Parigi, canbia:
ma gninte ’te le stanse de la mente no se ga movesto. La forma dei paisi change plus vite, hélas,
la canbia pì sguelta dei nostri quori.
Le Carte, III, p. 355
 
Coi tre robusti volumi delle Carte, sortiti a cadenza annuale da Rizzoli tra il 1999 e il 2001, Luigi Meneghello ha innalzato un castello immenso: e solido. Solo c’è il rischio di perdersi,-tra stanze d’ogni risma per oltre 1500 pagine, da assommare alle quasi 2000 complessive dei due volumi delle Opere (1993 e 1997), che pure non comprendono la saggistica né i volumi di materia inglese, dal Dispatrio in poi. Vale dunque la pena di fare il punto. La collocazione delle Opere nella collana d’élite rizzoliana, i «Classici Contemporanei» (in compagnia di Bilenchi, Landolfi, Soldati), con pregevoli apparati a cura di Francesca Caputo, giunge a valle dei consensi della critica più avvertita, rinsaldati nella medesima sede dalle prefazioni firmate rispettivamente da Cesare Segre e Pier Vincenzo Mengaldo. Del resto sin dagli anni ottanta il moltiplicarsi di saggi e interventi, unitamente alle ristampe in tascabili e al fioccare di premi e attestazioni, aveva lasciato intuire come Meneghello fosse prossimo a entrare stabilmente nel club riservato ai pochi autori della sua generazione che si stagliano nell’ancora fluido panorama della narrativa e memorialistica italiana del secondo Novecento: Primo Levi, Calvino, Sciascia, Fenoglio, Pasolini.
Oggi, registrato anche il film di Daniele Luchetti da I piccoli maestri (1 998), a completare l’operazione canonizzante manca soltanto un deciso apporto dell’istituzione scolastica, per quanto nei testi per le medie superiori Meneghello vada acquisendo un peso crescente, secondo una tendenza inaugurata da Remo Ceserani e Lidia De Federicis in Il materiale e l’immaginario. L’irruzione nelle aule dello scrittore veneto sembra peraltro favorita dalle caratteristiche della sua pagina, che da un lato si presta assai bene alle dissezioni antologizzanti, dall’altro racchiude vaste e utilissime riserve di comicità. In quest’ottica, tuttavia, ciò che più conta è naturalmente il lucido acume con cui Meneghello, da una specola appartata, ha saputo affrontare i grandi snodi della società italiana dal Ventennio agli an del boom, passando attraverso il fuoco della Resistenza. Dialetto di Malo, veneto e inglese: europeo, regionale e locale. Eppure così profondamente italiano. Non si saprebbe accostargli un autore altrettanto adatto ad accompagnare l’incipiente processo di doppia devolution, nell’evolversi dell’identità culturale della penisola. Senza dire dell’eccellente specchio che può fornire agli studenti una riflessione spregiudicata e vivace sulle modalità e gli scopi dell’apprendere, comunicare, rapportarsi a una comunità, all’altro sesso o al mondo adulto. Giustamente i due volumi delle Opere sono spartiti non in ordine cronologico, ma in base alla materia: e se il primo – ristampato e aggiornato nel 1997 – verte sul natio cosmo paesano (in specie Libera nos a malo, Pomo pero, Maredè Maredè… ), il secondo si impernia sull’educazione scolastica, resistenziale e politica (I piccoli maestri, Fiori italiani, Bau-sète, ecc. ).
A battere in lungo e in largo i medesimi sentieri provvedono ora anche Le Carte, frutto dell’ostinazione con cui Meneghello dal 1963 al 1989 accumulò migliaia di fogli, raccolti in faldoni, dai quali nei tardi anni novanta ha trascelto – modificando liberamente – meno della metà del materiale, venuto a costituire tre tomi di circa cinquecento pagine ciascuno: Anni Sessanta, Anni Settanta e Anni Ottanta. Gli originali, conservati, giacciono a disposizione di chi un domani «Volesse divertirsi a fare il confronto» (I, p. 6): il che accadrà senz’altro, sebbene apprezzando tanto l’ironia quanto l’obbedienza a un gran precetto del popolo – non si butta via niente – sacramento! verrebbe scherzosamente da esclamare, con appropriata inflessione. D’altronde è un altro semplice comandamento popolare (o meglio della tradizione artigiana) a far funzionare senza posa la lima: per primo essere bravo e operoso nel proprio mestiere, che la gente ti riconosca come tale. E di sicuro nessuno, nel villaggio delle belle lettere, potrebbe negare a Meneghello la qualifica di virtuoso della penna, per la quale non teme di rasentare la grafomania: un sospetto che affaccia lui stesso, salvo respingerlo subito, con significativa excusatio non petita: «sono purtroppo [.. .] uno che non riesce a scrivere quanto dovrebbe, per sventurata passione perfezionistica e congenita scontentezza esistenziale, o più semplicemente per un infausto eccesso di pretese» (I, p. 5).
Nelle Carte è stipato un po’ di tutto: appunti, progetti, esperimenti, abbozzi e tutto quanto abbia lampeggiato nelle occasioni della quotidianità. A ogni blocco testuale è appesa una data, in modo da comporre – più che un diario – uno zibaldone nel quale si accomodano stili e temi che non avranno seguito, al pari di maniere, ricerche e meditazioni che torneranno invece buone per libri a venire: ad esempio, preludio a Fiori italiani sono gli Appunti per un «Libro di Claudio» (II, pp. 3 07 -327); a Bau-sète! gli Appunti per un saggio sul dopoguerra (m, pp. 15-35 ). Memorabili sono quasi tutte le rare sequenze che insistono su un argomento, come Padri e figli (I, pp. 16-33), Una cronaca, dolentissima (II, pp. 547-557 ), Frammenti per un trattato inedito sullo «sport» (III, pp. 371-378). Di regola tuttavia si assiste ad avvicendamenti senza alcun assetto: una moltitudine di scampoli sfusi e autosufficienti, di esigue dimensioni (calanti nel tempo), interrotti ora da ragionamenti più articolati ora da aforismi fulminei. Sottratta la coerenza tematica, brilla insomma nella fucina il movente peculiare delle opere di Meneghello, costruite per accostamento di rimuginazioni germogliate da soprassalti memoriali o impressioni estemporanee. Gli stessi episodi possono perciò riverberarsi a molti anni di distanza e da diverse angolature, come è per il singolare incontro con un biologo greco (I, p. 404 e n, p. 382) o per la morte di Sir Jeremy, che si affaccia più volte nel secondo e terzo volume. La vena funebre, a ben vedere, infesta ogni recesso, tesa a investire persone, costumi e istituzioni, saggiando l’intero spettro dei toni sotto il segno del Cygne baudelairiano, poesia-amuleto chiamata di continuo a confortare «quiconque a perdu ce qui ne se retrouve / jamais, jamais !».
Di stampo ossessivo è anche l’incessante dialettica tra il nascondersi e l’esibirsi, saltando da finte proiezioni di sé in terza persona, sotto svariati nomi e nomignoli, a un io che spesso e volentieri non coincide con lo scrivente. Costante resta l’attitudine ad analizzare senza posa limiti e valori di ciò in cui si è creduto, chiarendone il perché di un tempo ma senza giungere a confronti espliciti col presente. È come se tutto fosse già successo, sullo sfondo. L’attualità politica e sociale entra solo di scorcio o indirettamente, magari tramite le opinioni di un’ allieva esuberante. In effetti, tra le più godibili attrattive delle Carte si contano i numerosi incontri con characters magistralmente profilati in poche righe, catturando lacerti di discorso, una frase, una parola, un gesto, vagliati e soppesati con piglio da etologo e fatti oggetto ora di sincera ammirazione, ora di perplessità, ora di virulenti sbocchi di bile. Peraltro, la frequente preoccupazione di camuffare i riferimenti cifrando, sostituendo, inserendo puntini, toglie mordente alle molte sentenze feroci nei riguardi di personaggi celebri (inoltre, le tipiche scariche di corrente in chiusa risultano inevitabilmente attutite dalla brevità delle misure: tre, quattro scosse per pagina danno in breve assuefazione). Meneghello ha spesso sostenuto, con un efficace paradosso, come abbia imparato a scrivere in italiano ascoltando gli inglesi: qui e altrove tuttavia rientra dalla finestra, per un eccesso di confidenza, un vizio sovente rimproverato alla prosa nostrana, l’oscurità. L’impressionante quantità di rimandi, nozioni, contesti – anche molto personali – dati per presupposti, fanno delle Carte un oggetto tanto fascinoso guanto esigente, destinato alle premure di specialisti, filologi e appassionati. Certo anche il pubblico comune vi può trovare il suo bene, a patto però che sia disposto a imitare l’autore, cambiando liana a ogni momento, volteggiando qua e là, maneggiandole in definitiva come un duttile livre de chevet. In tutti, comunque, resterà invincibile la tentazione di capovolgere la domanda di Meneghello: «A te, lettore carissimo, l’autore chiede perplesso: ma chi diavolo sei?» (II, p. 60).