Baricco e la nostalgia della modernità

L’accusa è sempre quella della «bella pagina» e di essere autore di maniera, pronto a compiacere le ambizioni estetiche di un pubblico dalle pretese non eccelse. Ma sotto la scrittura «patinata» di Alessandro Baricco, c’è il Leitmotiv del rimpianto. Un sentimento nostalgico dell’avvento della modernità, retrospettivo e introspettivo, incline alle sfumature patetiche, anche se reso con una narrazione dal ritmo incalzante, brioso, talvolta indiavolato. Le fissazioni melodrammatiche dei personaggi più riusciti svelano il loro ruolo di sognatori di utopie. E restituiscono il piacere affabulatorio di uno scrittore profondamente, inguaribilmente «letterario».
 
Capita, non di rado, che la fortuna critica di uno scrittore dipenda da un aggettivo. Un aggettivo che gli viene assegnato o inflitto, a volte come un’onorificenza, più spesso come un’etichetta o un marchio, di fabbrica o d’infamia. Così è accaduto ad Alessandro Baricco. Dopo i primi libri, apprezzati da lettori di vaglia quali Grazia Cherchi, Geno Pampaloni, Goffredo Fofi, si è aperta una forbice tra il consenso di ampi settori del pubblico e il giudizio severo di molti studiosi (l’uno e l’altro verosimilmente condizionati, in diverso senso, dal successo di alcune performances televisive dello scrittore). Valga come esempio di questa scarsa sintonia con la critica la discussione innescata da Baricco su «Repubblica» (1° marzo 2006), che accusava Giulio Ferroni e Pietro Citati di pungerlo con allusioni sprezzanti e liquidatone mentre parlavano di tutt’altro, anziché dedicargli articolate stroncature. Purtroppo per Baricco, Ferroni aveva già recensito Questa storia sul n. 8 di «Giudizio Universale», dicembre 2005 (poi, ad ogni buon conto, l’ha più meticolosamente stroncato nel volumetto collettivo Sul banco dei cattivi, edito da Donzelli).
Ebbene, l’aggettivo del quale Baricco rischia di non riuscire più a sbarazzarsi è «patinato»: cioè disinvolto e superficiale, facilmente o falsamente elegante, sostanzialmente aproblematico, palatabile e vacuo, e appariscente solo in virtù del nitore artefatto di manipolazioni esteriori. Tale sarebbe la pagina di Baricco: carta di qualità modesta, mascherata (più che impreziosita) da additivi, pigmenti e collanti, e così resa idonea a compiacere le ambizioni estetiche di un pubblico dalle pretese non eccelse, poco incline alla riflessione, pago di spettacolari quanto gratuite esibizioni di bravura formale. Ora, non si può negare che a questo genere di riserve Baricco, con certe sue prove {Seta, Senza sangue), abbia prestato il fianco. Ma l’accusa di essere nulla più che un opportunista talentuoso e spregiudicato, abile soprattutto a captare le mode, mi pare ingiusta. Il Baricco migliore, il Baricco di Castelli di rabbia o di Questa storia, è uno scrittore mosso da un’ispirazione tutt’altro che banale, sincera, e «letteraria» quant’altre mai: tanto che una parte non piccola della sua macchina stilistica sembra mirare proprio, se non a occultarla, a dissimularne pudicamente l’importanza.
Il primum di Baricco è la nostalgia. Una nostalgia profonda, e, nelle sue opere di maggiore tenuta (fra cui andrà incluso anche il monologo teatrale Novecento), precisa e consapevole. Baricco è, per dirla nel modo più diretto, un nostalgico dell’avvento della modernità: di quella fase aurorale della nostra civiltà tecnologica in cui tutto sembrava possibile, in cui l’innovazione si coniugava naturalmente con l’entusiasmo, le scoperte con le speranze, e nuovi destini parevano offrirsi agli spiriti liberi e coraggiosi che si lasciavano contagiare dalla passione per la novità.
Tale nucleo emotivo non necessita, credo, di riferimenti culturali specifici. Ma in un’ipotetica «ricerca delle radici» di Baricco un ruolo decisivo potrebbe spettare alla pagina di Cent’anni di solitudine in cui José Arcadio Buendia scopre il ghiaccio («E la più grande invenzione del nostro tempo»). Baricco trapianta l’euforica stupefazione e lo slancio visionario del genio di Macondo in contesti meno favolosi, tratti dalla recente storia d’Europa. Nessuna sorpresa che il miglior terreno di acclimatazione si sia rivelato l’origine dei moderni mezzi di trasporto: la locomotiva nel romanzo d’esordio, l’automobile nell’ultimo libro. L’epifania del nuovo è in primo luogo la conquista della velocità. Correre, ecco il grande mito otto-novecentesco: superare i limiti, abbandonarsi a una vertigine (ilynx, nella classificazione dei giochi proposta da Roger Caillois) che non deriva da estasi religiose o sostanze allucinogene, ma è figlia diretta e legittima dell’invenzione razionale e dell’immaginazione scientifica: insomma, del Progresso.
Vale la pena di notare, per inciso, che la narrativa di Baricco è debitrice più di quanto non sembri a dati concreti. Se è vero, come leggiamo nelle pagine conclusive, che lo scrittore torinese ha messo mano a Questa storia intorno al 2002, ci troviamo di fronte a un romanzo «automobilistico» concepito proprio negli anni più difficili della Fiat, quando pareva prossima la fine dell’industria delle automobili in Italia. Tanto non basta, peraltro, per fare della storia di Ultimo (così si chiama il protagonista) un omaggio tardivo o propiziatorio all’azienda che più di ogni altra ha segnato nello scorso secolo la vita della città. Il sogno di Ultimo infatti non sono tanto le macchine, quanto le strade. Ed è qui che il nucleo ispiratore di Baricco si fa più scoperto.
Sia o no superficiale come dicono, Baricco è ben lungi dal vagheggiare le scaturigini del moderno con la pompa celebrativa del ballo Excelsior. Al contrario: il mito della modernità, inteso anche nel concretissimo senso sociale dell’emancipazione dallo status di contadino (il padre di Ultimo vende le sue ventisei mucche fassone per trasformare la stalla nel «Garage Libero Parri», e si delizia nell’inalare un’aria che non saprà più di letame), il mito della modernità, dicevo, si presenta come un’illusione precocemente, quasi pregiudizialmente perduta. Non a caso, il prologo {Ouverture} rievoca la «corsa della morte» del 1903, la Parigi-Madrid, interrotta a Bordeaux dopo un primo giorno di gara costellato di incidenti e di vittime fra piloti, spettatori e ignari curiosi. E un ulteriore incidente pone simultaneamente fine, nel primo capitolo, alla carriera agonistica del meccanico Libero Parri, alla vita del pilota conte D’Ambrosio, suo amico e sodale, e all’infanzia di Ultimo, che nel dramma apprende come il cuore della madre fosse diviso fra i due (il figlio postumo del conte, fratellastro di Ultimo, sarà un minorato). Si direbbe quindi che la velocità, immessa bruscamente nella vita reale, produca soprattutto disastri. A salvarsi è solo il desiderio primigenio e innocente di «progresso». Il principio astratto del moto, la nuda idea di corsa: il movimento puro, svincolato dalla costrizione di una meta, ovvero rivolto a un traguardo che coincide con il punto di partenza. Se vogliamo, come l’approdo alla tonica, in cui è destino si adagi e si plachi l’inquieto travaglio di ogni melodia.
Tale il sogno di Ultimo: una strada che non porta da nessuna parte. Una inimitabile pista di diciotto curve eretta a emblema o mandala del suo destino, e insieme a cifra o quintessenza di un mondo nuovo che è impossibile inverare nella realtà, rendendone partecipi i propri simili. Va da sé che il confine tra ideale e ossessione si fa qui pressoché impercettibile: la pista di Ultimo, disegnata nell’area di un aeroporto militare abbandonato in una zona remota del Sussex, verrà ritrovata e ricostruita molti anni dopo da una donna di origine russa, con cui il protagonista aveva condiviso la stagione di un giovane amore possibile e mai realizzato recapitando pianoforti a noleggio nel Midwest. L’ormai anziana Elizaveta spende una fortuna per ripristinare il tracciato, lo percorre (grazie a un pilota collaudatore) a velocità inebriante, quindi ordina di distruggerlo. Così – per riprendere le parole del capocameriere che nel 1903 a Madrid doveva presiedere alla mai celebrata festa dell’arrivo del Grand Prix – «si chiude il cerchio delle cose non accadute, che nel nostro mestiere, come nella vita, custodisce il segreto, e il significato più profondo, di tutto ciò che è».
Nostalgia, si diceva. Nostalgia schietta: e non immune da tentazioni crepuscolari, tramata com’è da un desiderio di perfezione da contrapporre all’insignificanza del caos. Senonché Baricco alla nostalgia non si concede. Al contrario: la camuffa, le mette la sordina: a volte riesce perfino ad azzerarne le risonanze. Questo è, credo, l’elemento decisivo della sua strategia stilistica. Abitato da un sentimento contiguo al rimpianto, retrospettivo e introspettivo, incline alle sfumature patetiche, soggetto a intenerirsi e ammorbidirsi, Baricco reagisce impostando il suo narrare su un ritmo incalzante, brioso, talvolta indiavolato: serrate sequenze di enunciati, uso accorto di segmentazioni e dislocazioni, frequenti ellissi, ripetizioni che suggeriscono un martellìo più che un indugio. Quando la velocità fa parte della vicenda narrata, il gioco riesce particolarmente bene: «Una donna, ad Ablis, era mezz’ora che sentiva quel gran rumore, uscì di casa e andò a vedere. Neanche posò le uova, due, che aveva in mano, per faccende di cucina. Dal centro della strada aspettò la prossima nube di polvere, per capire. Quella arrivò a una velocità che la donna non conosceva. La donna si mosse a una lentezza che il pilota aveva dimenticato. La mano si chiuse sulle uova. Lo scricchiolìo dei gusci lo sentì un dio, forse, mentre la Panhard-Levassor di Maurice Ferman stracciava via la donna dalla vita, rimbalzandola qualche metro più in là, dove la donna prima soffrì, poi morì di una morte teoricamente fuori dalla sua portata».
Ma procedimenti analoghi sono mobilitati anche per revocazione di momenti riflessivi, talvolta in forma dialogica: «Mi capisce, professore? / Forse, gli dissi. / Per me le strade sono state quello che per lei son stati i numeri, mi disse. / Allora capii. La promessa di un ordine alla portata del nostro genio». Paradossalmente, la Stimmung nostalgica alimenta cadenze di allegretto; l’avvicendarsi delle prospettive e delle voci narranti (ma meglio sarebbe dire: delle voci recitanti) inibisce la possibilità di stabili identificazioni emotive con i personaggi; anticipazioni e retrospezioni concorrono alla retorica della brevitas, le une notificando spicciative gli esiti più fatali e remoti, le altre colmando lacune con spedita noncalenza, senza pause o cali di ritmo. Discorso a parte meriterebbero i flashback su fatti già narrati, che vengono man mano circonfusi di un’aura leggendaria: sì che il racconto finisce per guardare più indietro che avanti, serbando tuttavia il passo di chi si sta affrettando alla conclusione.
L’abilità tecnica di Baricco è indubbia. Ma di per sé varrebbe poco se non servisse a un intento espressivo, che mi pare si possa definire così: celebrare o commemorare personaggi fuori del comune, che della loro fedeltà a un’idea (poco importa se balzana, velleitaria, assurda) si sono fatti uno scudo contro il disincanto che il mondo implacabilmente riserva a chiunque speri che una passione possa renderlo migliore. Questa posizione può essere condivisa, oppure no. A me pare comunque significativo che essa contenga un rifiuto dell’adattamento all’esistente, sia pur nella forma di fissazioni maniacali e vagamente melodrammatiche; che il segreto Leitmotiv del rimpianto non sia giocato sul terreno dell’effusione commossa, ma venga rasciugato in emozioni nette, e tradotto in una serie di gesti perentori (ancorché un po’ enfatici); che i personaggi acquistino rilievo soprattutto in quanto portatori di scelte, titolari di un’autonomia tenacemente, fieramente difesa, e impermeabile alla commiserazione; che dalla storia – e della Storia – venga salvaguardata almeno la capacità di sognare utopie. Se poi è destino perdere, che almeno si perda a testa alta (dopo tutto, uno non è tifoso del Toro per niente). O che si trovi una dimensione – non importa se marginale, clandestina, autistica – in cui portare a termine la propria solitaria, irripetibile gara.
Di contro, il rovescio della nostalgia – o se si preferisce, l’esorcismo alternativo – sarà considerare il presente come aurora di un’epoca nuova, mutante, straniante, da day after, all’indomani del crollo dell’impero di cui siamo stati cittadini orgogliosi e illusi. Tale il tema dei Barbari, il saggio-feuilleton pubblicato su «Repubblica» a partire dal maggio 2006. Il mondo è cambiato più di quanto non ci siamo resi conto, nuove popolazioni spadroneggiano fra le rovine dei templi della nostra cultura: alieni, forse, o forse nostri simili, in cui stentiamo (sinceramente?) a riconoscerci. Dalla velocità delle macchine da corsa a quelle del web surfing’, un’altra storia, senza dubbio, una storia altrui. Ma la radice del narrare consiste sempre nel medesimo slancio: la presunzione – classica, cioè propria (o di non lontani ascendenti) e perduta, o «barbarica» (dei figli, dei fratelli minori), e vertiginosamente aleatoria – di possedere il futuro. Una presunzione della quale chiunque sia stato giovane negli anni settanta fatica a dimenticarsi, per quanto spoliticizzato o smaliziato nel frattempo si sia.