Poesie d’amore, poesie di successo

A parziale smentita dell’adagio per cui la lirica non vende, si infittiscono le iniziative editoriali dirette a un pubblico meno tradizionalmente circoscritto dei lettori specialisti, ma altrettanto avido di poesia. Il successo più corposo arride alle antologie tematiche, tra cui spiccano per diffusione quelle di argomento amoroso. Due, e antitetiche, le principali declinazioni del fenomeno: la raccolta di una pluralità di voci liriche, a costo di offuscare i profili individuali dei singoli poeti, e lo sfruttamento intensivo di un unico nome di richiamo, a potenziarne una popolarità già vasta.
 
A prestare ascolto a quanti periodicamente lamentano il colpevole disinteresse del pubblico per la poesia, il mercato delle opere poetiche verserebbe in condizioni rovinose: la lirica non avrebbe altri lettori che i poeti stessi.
In realtà, se osservato dalla specola di un orizzonte d’attesa più largo dei lettori specialisti, il panorama editoriale induce a diagnosi sullo stato di salute della produzione poetica assai più sfumate, e di certo meno fosche; di fatto, gli ultimi anni hanno registrato contraddittori fermenti, nonché discontinui episodi di dinamismo. Beninteso, nulla di natura o dimensioni tali da mettere davvero in questione il risaputo deficit di vendibilità che condanna i volumi di versi: eppure, l’impressione è che la poesia non solo si possa vendere, ma si venda in misura molto maggiore di quanto non accadesse in passato.
Si può cominciare a ragionare su un dato empirico, oggettivamente riscontrabile soffermandosi davanti allo scaffale delle opere poetiche in qualsiasi libreria italiana mediogrande. Concediamo pure che il nostro scaffale subisce dislocazioni innumerevoli, e il più delle volte dobbiamo andarlo a cercare nelle zone più decentrate e nascoste del negozio. Allo stesso tempo, tuttavia, proprio i criteri di organizzazione della merce esposta suggeriscono altre considerazioni, di tenore più problematico. Se fino a poco tempo fa la «sezione poesia» pareva una sorta di sacrario di valori poetici canonizzati, dove alle glorie tràdite si affiancavano poche elette novità, spesso di raffinata fattura, ultimamente questo carattere di riserva indiana tende a venire meno: anche il settore delle opere in versi pare conformarsi alla legge del rapido turnover, da tempo imperante negli altri reparti librari.
Certo, non si può negare che l’assiduo rinnovamento dei titoli sia in parte addebitabile a uno scarso impegno produttivo da parte di molti editori, spesso, purtroppo, a danno di opere che avrebbero meritato ben maggiore visibilità. E tuttavia, il fenomeno è anche segno di un fervore propositivo che sarebbe miope disprezzare a priori.
Se si giudica positivamente la crescita di iniziativa editoriale in un mercato notoriamente chiuso e malagevole, non si vede perché questa stessa spinta debba essere fatta oggetto di strali quando è mossa dalla ricerca di un più vasto consenso, nel tentativo di sintonizzarsi con un bisogno di poesia evidentemente diffuso.
Tra le sigle storiche e i grandi gruppi che hanno modificato il proprio catalogo poetico in direzione di un pubblico di massa, il più attivo risulta senz’altro Mondadori. L’esperienza dei «Miti Poesia», che più di tutti aveva scommesso sulla possibilità di un allargamento del numero dei fruitori di lirica, si chiude con la fine degli anni novanta; tra gli ultimi titoli pubblicati si segnalano Hikmet, Altre poesie d’amore (1997), e l’antologia Fiori di fuoco. 100 poesie d’amore maledetto (1998). Sono libri che ben si prestano a esemplificare una linea operativa che Mondadori porterà avanti negli anni successivi, seguito a ruota da tutti i principali editori. D’altronde nell’ambito della produzione in versi le classifiche di vendita parlano chiaro: a risultare costantemente in cima all’apprezzamento di un vasto numero di lettori sono le raccolte antologiche, con una spiccata predilezione per le opere costruite su criteri tematici.
Non è questa la sede per un discorso, d’altronde assai complesso, sulla recente straordinaria fioritura del genere dell’antologia poetica, divenuto a tutti gli effetti il principale strumento di socializzazione della scrittura lirica. Basti qui osservare che le operazioni rivolte a un pubblico meno circoscritto sembrano patire l’identico paradosso in cui si dibattono i tentativi di campionatura di livello medioalto: più che selezionare i testi sulla base di criteri verificabili, la forma antologica tende a esibire una pluralità pressoché infinita di voci, accostate secondo un estro tanto casuale da rischiare l’arbitrio. Le 100 poesie d’amore maledetto accostano indifferentemente testi di Catullo a citazioni di Sylvia Plath, Emilio Praga convive con Shakespeare, Bartolo Cataffi fiancheggia Villon. In questo quadro, la tenue dispositio in senso cronologico è un ben modesto argine allo svuotamento intrinseco della logica che informava la tradizione poetica: in luogo di un’assiologia storicamente sedimentata e provvista di crisma istituzionale, ci troviamo di fronte a un repertorio quanto mai oscillante di citazioni su un tema.
Non c’è del resto da stupirsi se le zone basse del mercato poetico risentano dello stato di crisi del canone lirico tràdito. Andrà semmai osservato che rispetto ai sintomi confusionali e al permanente conflitto delle interpretazioni che si registra nell’ambito delle sillogi a vocazione didattica e militante, il panorama della «poesia per tutti» manifesta forse tratti di coerenza più netta. Un dato macroscopico s’impone su tutti: nell’affollarsi delle proposte antologiche di indole tematica, la parte del leone la fa sicuramente il motivo amoroso.
A Milano, la libreria Mondadori di corso Vittorio Emanuele ha addirittura allestito una zona appositamente destinata all’esposizione delle «poesie d’amore», in un’area contigua ma separata enclave dei restanti libri di versi. Si tratta di uno spazio particolarmente gremito, nonché soggetto al più alto indice di mobilità dei titoli: inutile dire che tutte le sigle editoriali immaginabili si sono cimentate nella compilazione di miscellanee liriche a dominante sentimentale, e sarà perciò arduo dare conto di tutti.
Per Mondadori, la chiusura dei «Miti Poesia» ha comportato il dirottamento di criteri operativi simili sugli «Oscar»: l’esito è stata la quasi totale sparizione della poesia dalle edicole, e il cedimento dell’iniziativa in questo campo ai libri allegati ai quotidiani. Un esempio congruo degli effetti del passaggio dai «Miti Poesia» agli «Oscar» è costituito da Thè Love Book. Le più belle poesie d’amore di tutti i tempi, riedito nel 2003 per «Oscar Varia». Rispetto al modello editoriale antecedente, permane l’aggressiva grafica di copertina e la titolazione a effetto, mentre viene meno un punto di forza dei «Miti», ovvero l’esiguo numero di pagine, e dunque di poesie riportate, che assicurava al prodotto una disimpegnata maneggevolezza. Le ben 329 pagine di Thè Love Book sono il prevedibile esito della vera e propria furia citatoria che insidia il paradigma dell’antologia a tema, ma insieme esemplificano anche l’evanescenza di qualsivoglia criterio ordinatore. Scorrendo i nomi dei 120 poeti censiti, appare abbastanza evidente la rinuncia del curatore a farsi carico di indicazioni orientative forti: alla smisurata dilatazione dell’assortimento fa del resto riscontro la scelta di raggruppare le poesie in ulteriori sottosezioni pseudotematiche (Bellezza, Passione, Desiderio, Sensi, Tormento ecc.) che vorrebbero dare conto delle multiformi declinazioni del sentimento amoroso, ma che finiscono per offuscare ulteriormente i profili individuali delle voci ospitate.
Considerazioni analoghe possono applicarsi al compendio di Poesie d’amore pubblicato da Rizzoli, giunto nel 2001 alla sesta edizione e attualmente accolto nella collana dei «Classici Bur»: anche qui troviamo il consueto affastellamento di nomi, apparati critici inesistenti o ridotti all’osso, e infine l’opzione di coprire la massima estensione diacronica possibile (qui addirittura il primo autore è un Anonimo egiziano del VI secolo a.C.) parzialmente contraddetta da un forte squilibrio complessivo a favore della modernità otto-novecentesca. La medesima discrasia si rinviene del resto nel dosaggio delle rappresentanze poetiche nazionali: anche in questo caso, alle velleità di mappatura onnicomprensiva delle più diverse tradizioni liriche, i cui esemplari sono presentati in assenza del testo in lingua originale, fa riscontro il maggior spazio proporzionalmente concesso ai poeti patrii.
La breve introduzione preposta alla silloge «Bur» chiarisce altresì molto bene a quali attese e convinzioni diffuse tenti di rispondere questa clamorosa esplosione di sillogi di poesia amorosa. Per un lettore criticamente avvertito è in effetti abbastanza sconcertante leggere affermazioni come questa: «Nel libro lirico dell’umanità, la grande poesia è sempre poesia d’amore». E tuttavia, è difficile negare che l’assunto in questione rifletta, con perentorietà un po’ brutale ma con un buon margine di esattezza, un’idea di poesia molto forte, e storicamente tutt’altro che immotivata: nell’immaginario collettivo contemporaneo, la pratica poetica si identifica senza residui con lo spazio dell’effusione sentimentale.
Il trionfo di una fruizione della parola poetica in chiave eminentemente privatistica presenta del resto implicazioni autoterapeutiche tutt’altro che banali; e soprattutto si dimostra efficace, se è vero che le raccolte di poesie d’amore risultano tra i libri più letti e materialmente consunti nelle biblioteche delle carceri.
Pur declinato in infinite combinazioni citatorie, lo sfruttamento intensivo del genere centonistico è tuttavia di per sé un’operazione ad alto rischio di saturazione: affatto privi di un progetto interpretativo riconoscibile, i prodotti librari di questo tipo finiscono per assomigliarsi troppo tra di loro per non ingenerare sazietà anche nel più accanito consumatore di repertori lirico-amorosi. Ma è poi anche chiaro che quasi solo colossi editoriali come Mondadori o Rizzoli sono provvisti di un catalogo sufficientemente ampio da permettere il reperimento agevole di una congrua varietà di voci; e sempre solo i grandi gruppi sono in grado di sostenere i costi economici dei diritti di pubblicazione, ove sia opportuno inserire autori altrui nel piano antologico.
Anche in reazione a questi vincoli oggettivi, le strategie editoriali dominanti sembrano prevederne un parziale aggiramento. Per chi vuole vendere poesia, il mezzo più semplice resta comunque quello di non abbandonare a nessun costo la strada della lirica d’amore. E si capisce: chi mai potrebbe immaginare una formula dalla pervasività potenzialmente tanto illimitata, fondata com’è su costanti antropologiche? Una miscela in grado di coniugare l’universalità del sentimento amoroso al piacere estetico, altrettanto universale, suscitato dalla parola poetica.
In alternativa ai florilegi che accostano numerose voci, la prassi più diffusamente seguita consiste nell’affidarsi a un unico autore; dalla produzione in versi del poeta prescelto si estraggono poi i componimenti a dominante erotica, ed ecco confezionata la nostra silloge. Per quanto un simile procedimento possa apparire discutibile, esso ha pur sempre il merito di essere aperto anche a editori di media o anche piccola statura; sarebbe inoltre onesto riconoscere che sotto il confortevole ombrello del logoratissimo titolo Poesie d’amore trovano spesso ospitalità esperienze poetiche fondamentali, nonché prodotti editorialmente tutt’altro che disprezzabili. Valga ad esempio il caso di Guanda, che recupera poeti di catalogo come Prévert e Neruda e confeziona due volumi ben curati proprio giocando sul parallelismo dell’intitolazione: Poesie d’amore e di vita di Neruda e Poesie d’amore e libertà di Prévert, proposti nelle «Fenici tascabili», sono entrambi corredati da testo a fronte, e il primo libro si avvale di un’introduzione di Giuseppe Conte. Il riscontro delle vendite pare del resto positivo, se si considera che Neruda è giunto nel 2006 all’ottava edizione, mentre Prévert riesce a fare ancora meglio arrivando alla nona nel 2005.
Nel confronto con i repertori a più voci, andrà opportunamente rilevato il deciso mutamento di segno del taglio sotteso a simili progetti antologici. Mentre il pot-pourri di autori vari e disparati tendeva programmaticamente a vanificare, nella percezione del destinatario, l’autonomo stagliarsi delle individualità autoriali, indirizzando ogni attenzione sui testi, in questo caso il primo fattore di coesione è dato dalla singolarità inconfondibile di una sola voce poetante.
È pertanto indubbio che la scommessa si giochi proprio sulla personalità del verseggiatore oggetto di elezione: per assicurarsi una non troppo incerta probabilità di successo, l’iniziativa deve preferibilmente puntare su un nome di vasto richiamo, e/o rilanciare qualcuno che sia comunque riuscito, in opere precedentemente edite, a conquistare un certo consenso di pubblico.
Simili dettami paiono seguiti fin troppo alla lettera quando si prendano in considerazione gli stupefacenti esiti librari dei rapporti tra una figura come Alda Merini e alcuni editori di nicchia. Sulla scorta di eccellenti risultati di vendita, sotto il nome della poetessa nel 2003 sono stati pubblicati la bellezza di sedici titoli; e non si tratta di un’annata eccezionalmente prolifica, perché i libri della Merini sono sette nel 2004, dodici nel 2005, mentre ne contiamo già tre nei primi mesi del 2006. In cotale falange, gli espliciti riferimenti al tema amoroso fanno bella mostra di sé nella maggior parte dei titoli, di cui si dà una parzialissima esemplificazione: Canzone dell’ultimo amore (Aquaviva, 2006), Io dormo sola (Aquaviva, 2005), domini miei (Frassinella 2005), Ca volpe e il sipario. Poesie d’amore (Rizzoli, 2004), Alla tua salute, amore mio! Poesie e pensieri (Aquaviva, 2003). Una tanto pervicace insistenza editoriale sulla semantica dell’affettività erotica non manca di sorprendere, tanto più se si considera che, in ogni caso, il vagheggiamento amoroso raramente difetta alla vena della poetessa. Con tutta evidenza, l’espediente mira a inquadrare da subito il prodotto nella categoria di genere dominante, al fine di potenziare oltre ogni limite il fascino di una voce che, per le note e dolorose vicende biografiche, ben si presta a incarnare lo stereotipo del poetico agli occhi di un pubblico di massa. Tecniche di sfruttamento del nome che impallidiscono, se si pensa che molti recenti testi della Merini prendono forma a seguito di un’inconsueta modalità di editing: la poetessa improvvisa oralmente lacerti poetici nel corso di conversazioni telefoniche con i redattori, i quali si occupano poi di assemblare il materiale. Spiace dire che gli esiti di tanta fiducia nei poteri oracolari dell’ispirazione lirica sono spesso ben miseri.
Al di là del caso Merini, che nelle sue peculiarità ai limiti del pittoresco riguarda in gran parte piccoli editori non in grado di assicurare una reale capillarità distributiva (ma la riedizione 2006 di Fiore di poesia, targata Einaudi, è da settimane ai primi posti delle vendite del reparto poesia), sul fronte dell’utilizzo sagace del nome d’autore il colpo più fruttuoso è stato ancora una volta messo a segno da Mondadori. Le poesie d’amore di Nazim Hikmet, il poeta che ogni editore sogna di annoverare nel proprio catalogo, non cessano di suscitare un massiccio apprezzamento di pubblico. L’esclusione dei canti di argomento politico, che pure costituiscono una parte cospicua della produzione dell’autore turco, non sembra insomma avere nociuto alle sorti dell’antologia: dopo l’assaggio di alcune liriche nei «Miti Poesia», l’opera ha furoreggiato nell’edizione «Oscar classici moderni» nel 2002, tanto da essere riproposta nel 2006 direttamente negli «Oscar bestsellers» con tanto di sontuoso apparato iconografico, per l’occasione costituito dalle leziose fotografie a tema amoroso di Robert Doisneau. Unita a un’intonazione nobilmente icastica, l’affabilità comunicativa di queste liriche ha saputo evidentemente soddisfare le attese dei lettori non specialisti, che sono avidi di poesia tanto quanto la ristretta cerchia del pubblico dei colti.
Potrà spiacere ai cultori di una parola lirica che si proclama tale anche in forza di un elitarismo intrinseco; di certo, assieme a pochi altri nomi (Neruda, Lee Masters, Kerouac) anche Hikmet si appresta a entrare in una sorta di anticanone, o canone poetico novecentesco costruito dal basso, che appare sicuramente più compatto, e in certi casi più vitale, di una tradizione alta pericolosamente in bilico tra irrigidimento scolastico e conflittualità permanente.