Quando il bestseller non è americano

Se per gli addetti ai lavori editoriali azzardare previsioni sull’orientamento del pubblico in materia di narrativa di largo consumo è sempre stato difficile, oggi il compito si profila se possibile come ancora più arduo. Dopo il megaseller di tutti i tempi quale sarà la nuova, prodigiosa invenzione di quella inarrestabile fabbrica di campioni d’incasso che è l’editoria nordamericana? Dopo Dan Brown, a chi toccherà la prossima volta il difficile ruolo di interpretare in forme narrative ampiamente godibili i sogni, le speranze, i fantasmi e le emozioni dell’audience globale?
 
Dopo l’inatteso e incontrollabile successo del Codice da Vinci in tutto il mondo, era inevitabile che, negli Usa come da noi, l’editoria di acquisizione della fiction straniera intraprendesse un momento di verifica delle proprie certezze e consuetudini. Intendiamoci, la narrativa ha fatto ancora saldamente la parte del leone nei fatturati delle principali case editrici di tutto il mondo e nulla lascia pensare che la situazione sia destinata a mutare in tempi brevi. Di certo però esistono segnali, cui peraltro già arridono interessanti riscontri di pubblico, di un interesse, che forse a questo punto è anche un bisogno, di uscire dai propri orizzonti e di perlustrare nuovi territori. Da un lato ovviamente agisce il dato, acquisito pienamente da qualche tempo, di un pubblico della narrativa sempre di più connotato come femminile. In questo senso tra l’altro si è fatta strada in molti la convinzione che la formula esplosiva trovata da Dan Brown con il Codice risiedesse almeno in parte nell’avere saputo coniugare la partitura ritmica del thriller, genere «maschile» per eccellenza, con tematiche culturalizzate più congeniali al bestseller al femminile. Sempre più libri per donne, dunque, parrebbe dire il mercato. Il che infatti sta accadendo, se pensiamo solamente al detonante successo di alcuni esordienti assoluti degli ultimi anni come la Tracy Chevalier di La ragazza dall’orecchino di perla o il Carlos Ruiz Zafon di L’ombra del vento. Tuttavia è un altro elemento, oggi certo più sotterraneo ma sicuramente foriero di imprevedibili sviluppi, a indicare il cambiamento potenzialmente più dirompente in materia di acquisizione di titoli ad alta tiratura: ed è una prudente ma reale apertura a nuovi mercati di acquisizione. Anche su questo punto occorre ovviamente intendersi. Sarebbe infatti perlomeno imprudente, sfogliando le più autorevoli classifiche dei bestseller d’oltreoceano (ossia quelle del «Publishers Weekly» e del «New York Times»), supporre che la «dream machine» americana stia dando segni di cedimento. Da James Patterson a John Grisham, da Nora Roberts a Patricia Cornwell, anche il 2006 made in Usa sembra infatti avere goduto della sua consueta e in un certo qual modo rassicurante autarchia culturale, che in parte si è puntualmente riflessa anche da noi. Se però dovessimo cercare in un titolo le tracce di una correzione di rotta rispetto ai percorsi usuali del successo librario, senz’altro le potremmo individuare in The Kite Runner di Khaled Hosseini, pubblicato negli Usa con una poco convinta prima tiratura in hard cover di 50.000 copie, e che oggi ha superato i tre milioni di copie in edizione tascabile, avvicinandosi alla centesima settimana di permanenza in classifica. Il caso è tanto più interessante per il fatto che, assieme a Crypto, proprio Il cacciatore di aquiloni – questo il titolo in italiano – è stato il romanzo-evento dell’estate 2006 anche nel nostro paese, con più di 400.000 copie vendute. E difficile stabilire, né è questa la sede per farlo, le ragioni di un simile successo. Senza ombra di dubbio Il cacciatore di aquiloni riproduce efficacemente la formula quanto mai collaudata del romanzo di formazione intrecciato al motivo dell’amicizia infantile (si pensi soltanto, tra i precedenti di grande successo del genere, a L’amico ritrovato di Fred Uhlman). Con una cruciale novità, tuttavia: il fatto cioè che l’intensa, a tratti drammatica vicenda affettiva dei due protagonisti si snoda sullo sfondo di un paese, l’Afghanistan, e di una cultura, quella islamica, che in Occidente sono ormai da tempo sinonimi di urgenze conoscitive, paure, speranze e pregiudizi alla cui verifica o smentita non è più dato sfuggire. In sede più specificamente editoriale è ovviamente di grande interesse in sé il fatto che il romanzo di un esordiente afgano, pur trapiantato in America, arrivi nelle nostre librerie di rimbalzo da un’editoria altamente educata al bestseller come quella statunitense. Ciò da un lato ci conferma un effettivo mutamento delle aree di interesse del pubblico di massa in un paese per noi di riferimento. Dall’altro però questo libro, con il suo travolgente successo, pare anche preludere alla possibilità, in un indeterminato ma non remoto futuro, di un vero e proprio decentramento del mercato di acquisizione della fiction straniera. Va ovviamente precisato che, rispetto agli Stati Uniti, Hosseini per certi versi rappresenta meno una novità per il pubblico italiano, per nulla afflitto da problemi di autarchia culturale, e caratterizzatosi piuttosto nell’ultimo cinquantennio per una spiccata esterofilia di gusto, magari non sempre giustificata. Nessuno insomma si stupisce che le nostre classifiche registrino immancabilmente i successi dei nuovi romanzi di Isabel Allende, Michel Houellebecq, Banana Yoshimoto o Luis Sepulveda. In realtà però occorre registrare anche nel nostro paese un’ulteriore evoluzione del successo editoriale non anglosassone, testimoniata per esempio da un’offerta crescente di autori europei che si muovono ormai con grande sicurezza nel territorio della narrativa di genere, un tempo appannaggio semiesclusivo degli scrittori americani. E il caso dei gialli storico-esoterici delle spagnole Julia Navarro e Matilde Asensi, delle dolenti detection dello svedese Henning Mankell, o, più di recente, dei garbati casi «provenzali» della francese Fred Vargas. Assieme a questi esempi, il grande successo anche in Italia del romanzo di Hosseini sembra testimoniare dunque di un ulteriore livello della questione, ossia di un concreto interesse da parte del pubblico, e dunque inevitabilmente dell’editoria, a sondare culture e mondi immaginativi (e quindi mercati) fino a oggi del tutto marginali, e che per varie ragioni salgono alla ribalta delle curiosità e delle proiezioni dei lettori. Se 11 cacciatore di aquiloni può dunque ancora essere considerato un fenomeno editoriale ampiamente determinato e gestito dall’editoria occidentale, è vero anche che sempre più numerose si accumulano ormai all’orizzonte le avvisaglie di consistenti fenomeni editoriali di massa, ancora tutti da comprendere, che provengono per esempio dai paesi di lingua araba e/o di cultura islamica. Da una parte è dunque una piacevole sorpresa il successo, seppur relativo a un segmento di pubblico in qualche modo scelto e ristretto, che di recente arride alle opere dello scrittore turco Oran Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006; sarà però forse ancora più interessante osservare come il pubblico occidentale reagirà a Lanat Al Riyhad (traducibile come Le ragazze di Riad) della giovane Rajaa al-Sanie, romanzo-scandalo che getta luce sulla vita quotidiana delle donne saudite contemporanee e che inevitabilmente richiama il travolgente successo nostrano di Volevo i pantaloni. Se poi è vero che le rotte editoriali sono inevitabilmente destinate a spingersi con maggiore decisione verso oriente, in questo senso le Colonne d’Ercole da varcare sono di certo rappresentate da quello che, con definizione assai fortunata, il giornalista Federico Rampini ha definito L’impero di Cindia. India e Cina naturalmente non rappresentano per l’editoria due enigmi in egual misura insoluti. Com’è ovvio, l’India conserva un lascito postcoloniale, la lingua inglese, che costituisce da sempre un medium privilegiato per la comprensione della sua letteratura. Tuttavia, a fronte dell’attuale espansione economica e culturale del subcontinente indiano, è indubbio che Salman Rushdie, Vikram Seth, o le più recenti Arundhaty Roy e Anita Nair rappresentano ormai solo la punta di un iceberg editoriale destinato a sorprendere sempre più spesso l’Occidente. E stato il caso del lancio sul mercato mondiale del romanzo-fiume Sacred Games dello scrittore Vikram Chandra, libromondo sull’identità e il significato, per la società globale contemporanea, della megalopoli Bombay, sullo sfondo di una detection degna della miglior tradizione hard boiled america
na. Se guardiamo poi alla Cina è indubbio che ci troviamo di fronte a un bacino creativo e a un mercato editoriale tanto affascinanti quanto oggettivamente di difficile lettura. Tale condizione è peraltro testimoniata dal fatto che i rari libri di narrativa cinese pubblicati finora nel nostro paese si sono immancabilmente caratterizzati per un posizionamento di marketing utile a identificarli o come prodotti orgogliosamente arciletterari o come frutti delle più aggiornate tendenze culturali. Tutto ciò non ha impedito peraltro a un’intera stagione cinematografica cinese dal sapore decisamente più popolare (da La tigre e il dragone di Ang Lee a La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou) di farsi baldanzosamente avanti negli ultimi anni, conquistandosi un’accoglienza in Occidente tutt’altro che trascurabile. Per quanto riguarda l’editoria, l’incuriosita segnalazione nel corso del 2006, dalle pagine dei giornali occidentali, di Lang Tuteng (Il totem del lupo) di Jiang Rong, uno dei primi bestseller cinesi di cui si abbia tangibile testimonianza, sembra confermare le promesse di un panorama librario a oggi quasi del tutto sconosciuto. E del resto sulla base di queste promesse che giganti editoriali americani come HarperCollins o Thè Reader’s Digest Association hanno cominciato a stringere joint venture e iniziative di scambio, nel tentativo di colmare un gap linguistico-culturale che rischia di ritardare gli indubitabili vantaggi insiti in una reciproca penetrazione di mercato. In questo complesso e ancora del tutto fluido panorama spetterà all’editoria italiana il compito di ritagliarsi un ruolo non passivo, approntando prima di tutto al proprio interno una serie di adeguamenti strutturali che vanno dall’allargamento al cinese e all’arabo delle lingue consuetudinarie di acquisizione, alla graduale comprensione dei meccanismi che regolano il mercato di paesi con storie non solo editoriali, ma anche economiche tanto diverse dalle nostre. In questo la diversità culturale e linguistica dei paesi europei potrebbe giocare un ruolo decisivo rispetto ai limiti della monoculturalità dell’editoria americana, peraltro poco avvezza a essere mercato di acquisizione dall’estero. La sfida è sul tavolo. Non raccoglierla sarebbe cieco.