Il creazionismo tricolore langue

Ci hanno provato l’ex ministro Letizia Moratti e i fondamentalisti cattolici vicini all’allora cardinale Ratzinger. Ma la tesi della «Progettazione intelligente» non ispira – neppure Antonino Zichichi o Giuseppe Sermonti –, e il mercato editoriale langue: in libreria non si trovano novità a difesa della dottrina creazionista, neppure in traduzione. Al contrario, fioriscono le pubblicazioni darwiniane, di grandi firme della scienza come pure di giovani ricercatori: dai classici Boncinelli e Dawkins ai volumetti di Manzi e Pievani, che portano la teoria dell’evoluzione nella collana «Farsi un’idea».
 
«Il creazionismo in Italia» suggerito un anno fa dal curatore di questo annuario come tema mi pareva eccellente. Quale miglior occasione per leggere testi dissidenti, anticonformisti, forse geniali? Dopo aver chiesto aiuto invano ad amici librai che, temo, mi credono ora affetta da Alzheimer, sono stata soccorsa da Paolo Coccia, curatore di Pikaia, il portale dell’evoluzione. Ma anche la sua bibliografia era scarna, nessun testo scritto da uno scienziato che fosse uscito dopo le calende greche. Confidavo in una nuova bordata di Antonino Zichichi, della cui scarsa fisica e grande carriera Carlo Bernardini fa una sintesi luminosa in Fisica vissuta (Codice editore, 2006). Ripete tuttora di «credere in Dio che ha creato il mondo», ma non lo scrive più da allora. Si limita a bofonchiare urbi et orbi che l’evoluzionismo è campato per aria e la biologia non è una scienza o si esprimerebbe in linguaggio matematico come voleva Galileo. Il quale ha la scusa di aver inventato il telescopio, mica il microscopio. Zichichi no, e dice il falso forse involontariamente, perché non sa scrivere biologia matematica nell’apposito riquadro e cliccare «cerca con Google».
Speravo anche nell’ex «grande» genetista Giuseppe Sermonti. Purtroppo anche la sua produzione antidarwinista è ferma al secolo scorso, adesso preferisce reinterpretare favole. Va precisato che «grande», per citare un editorialista del «Foglio», egli è stato per breve tempo negli anni sessanta, quando lavorava sullo Streptomyces coelicolor A3 e per altri trent’anni ha vissuto di rendita. Quel batterio – giustamente, è un gioiello – aveva colpito lui, la sua signora e soprattutto David Hopwood, un giovane inglese che li aveva raggiunti e si sarebbe poi rivelato grande sul serio. Tant’è che appena tecniche e metodi nuovi hanno consentito di sequenziare tutti i geni dello streptomicete celeste, non il professore ma il suo ex dottorando firmava al posto d’onore (l’ultimo di decine di ricercatori coinvolti nell’impresa) la pubblicazione del genoma «grezzo» su «Nature», il 9 maggio 2002. E su «Nature Biotechnology» del maggio 2003 il commento dell’autorità in materia a ulteriori ricerche, notevoli anche per le implicazioni farmacologiche.
Il creazionismo tricolore langue, malgrado gli sforzi meritori di «L’Avvenire», «Il Foglio», «Il Giornale» assecondati da giornali e fogli più confidenziali e confessionali. Volevano lanciarne la moda, hanno rigirato Zichichi e Sermonti in salsa «Intelligent Design» americano con il sostegno dell’allora signor ministro Letizia Moratti. La mayonnaise n’a pas pris. Al contrario, è montata la controffensiva. Mai i Darwin Days – conferenze che si svolgono in diverse città di solito attorno al 12 febbraio, data di nascita di Charles – sono stati così affollati in tutto il paese. Centinaia di giovani ricercatori hanno fondato a Ferrara la Società italiana di biologia evoluzionistica e ora sparano raffiche di pubblicazioni nelle riviste che contano. Nel senso che facilitano l’accesso ai finanziamenti europei. L’editoria va dietro agli scienziati. Nel giro di 18 mesi ha pubblicato una cinquantina di saggi uno più darwinista dell’altro, tutti di grandi firme: Juan Luis Arsuaga (Luce si farà sull’origine dell’uomo, Feltrinelli, 2006), Francisco Ayala (Le ragioni dell’evoluzione, Di Renzo, 2005), Edoardo Boncinelli (una nuova edizione di Le forme della vita, Einaudi, 2006, più altri volumetti), Ernst Mayr (L’unicità della biologia, Cortina, 2005), Matt Ridley (Il gene agile, Adelphi, 2005) ecc. (per l’elenco con note critiche, cfr. Pikaia, il portale dell’evoluzione, www.eversincedarwin.org). Per non dire delle celebrazioni, lungo l’intero 2006, per il trentennale del Gene egoista di Richard Dawkins (Mondadori, 1994). Va detto invece che nella cinquantina spiccano due libri smilzi della collana «Farsi un’idea» del Mulino, sezione scienza e ambiente: Homo Sapiens di Giorgio Manzi e La teoria dell’evoluzione di Telmo Pievani. Entrambi sono scritti in italiano contemporaneo, diretto, non in manualese, non dall’alto. Manzi ha fiducia nel lettore, lo tratta come un amico che saprà condividere entusiasmi e dubbi; Telmo Pievani è chiaro, pacato, ironico al suo solito. Chi li conosce li ritrova, gli altri avranno voglia di incontrarli per farci una chiacchierata. E spicca, a parte qualche minuscola svista, Perché l’orso polare è bianco? Devoluzione e la storia della vita di Bas Haring (Dedalo, 2006) per i bambini dagli 8 agli 88 anni. Così imparano come certi orsi bianchi hanno macchie brune e l’omosessualità, parrà strano, ma è un fatto di natura.
Tutto quel ben di dio non nasconde il mio fallimento: in libreria non ho trovato la benché minima novità creazionista, neppure in traduzione. Ne deduco che manchi una tradizione e forse un mercato per la «fintascienza» (non saprei come tradurre diversamente trash-science) italiana. Così mi spiego l’assenza di un Boncinelli sull’altra sponda che riduca Charles Darwin a un babbeo, Thomas Morgan a una vittima di illusioni ottiche, Theodor Dobzhanski a un russo ortodosso quindi eretico, Richard Lewontin a un comunista quindi pericoloso. Ci vorrebbe, invece. Anche se non raggiunge le vette pretenziose e arzigogolate che scatenano il fou rire alla lettura di Michael Behe o William Dembski, autori rispettivamente di Darwin’s Black Box (Thè Free Press, 1996) e No Free Lunch (Rowman & Littlefield, 2002), i due bestseller americani della Progettazione Intelligente. Anche folcloristica, casereccia, a raccontare una «Progettazione intelligente» («Intelligent Design», detto anche Disegno intelligente, mi attengo a «progettazione» come Benedetto XVl) che abbia creato la razza padana superiore alla piemontese, per esempio.
Eppure nell’estate del 2005 si profilava la riscossa. Il 7 luglio Christoph Schoenborn, un tempo studente prediletto di Joseph Ratzinger, scriveva sul «New York Times» che «per la Chiesa l’evoluzione neo-darwinista non era compatibile con la fede nello scopo e nel disegno della Creazione divina». L’affermazione opposta, fatta all’Accademia pontificia delle scienze nel 1996 da Giovanni Paolo II, sosteneva il Cardinale, «era vaga e priva di importanza». Alcuni fondamentalisti cattolici ne furono imbaldanziti. Ne dedussero di avere l’appoggio del nuovo papa che, oltrettutto, chiamava l’umanità il frutto di «progettazione divina» durante un discorso pubblico. Si mormorava di pamphlet in preparazione da parte di «scienziati di fiducia» che avrebbero distrutto le argomentazioni dei miscredenti. Purtroppo sulla rivista «Thè Tablet» apparve uno stupendo articolo di George Coyne S.J., astrofisico del Big Bang e perciò specialista dell’origine non divina dell’universo nonché direttore della Specola vaticana. Rintuzzò la critica al defunto Papa e il silenzio fu (l’articolo, che parla inoltre del rapporto tra scienza e fede e della trascendenza di Dio, dovrebbe interessare anche i miscredenti. Si trova sul sito della rivista: www.thetablet.co.uk).
Dispiace perché, quanto a spunti, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Le aggiunte alla teoria darwinista non si esauriscono, né le polemiche fra scuole diverse; come al solito la scienza procede per correzione incessante delle vecchie glorie da parte dei giovani turchi, di Newton da parte di un impiegato all’ufficio brevetti di Berna. Darwin non sapeva dei geni. Adesso si sa e si scoprono caratteri ereditari che non passano dal loro dna. E così si litiga sull’importanza rispettiva delle variazioni nei meccanismi molecolari: rna che interferisce il dna invece di essergli subordinato? Sequenze di dna non codificanti per una qualche proteina, ma «regolatrici» dell’attività di geni? E, visto che ci siamo, che cos’è un gene? (la domanda era posta nel titolo di un articolo uscito su «Nature» nel maggio 2006. Qui si leggeva di genetisti convocati a un workshop in California per darne una definizione accettabile. Ne sono usciti con: «un gene è una regione localizzabile di una sequenza genomica, che corrisponde a un’unità di ereditarietà ed è associata a regioni regolatone, trascritte e/o altre della sequenza funzionale». Tanta vaghezza evoca Anything goes, la canzone di Cole Porter applicata alla ricerca scientifica da Paul Feyerabend in un capitolo di Contro il metodo). Si discute su quello che di un organismo andante ne fa uno più dotato per sopravvivere e generare prole con la stessa caratteristica. O gli rifila la mutazione maledetta che lo toglie di mezzo. O una che non gli fa né caldo né freddo eppure rimane lì a raccontare una storia che ancora non si conosce perché nell’ambiente non è stato ancora identificato l’agente, predatore, inquinante, grande freddo, grande caldo, terremoto, tsunami, infezione o coinfezione virale o batterica, che l’ha accesa in un passato remoto o l’accenderà. E se è l’agente ad attivare la mutazione, non sarà per caso l’ambiente il protagonista della selezione naturale? O suggerirlo puzza di lamarckismo? E quanto conta la «scelta del partner», la selezione sessuale che concede un potere spropositato, ammettiamolo, al penchant delle femmine per i bei fusti? E se i geni sono egoisti e pur di diffondersi pronti a sacrificare l’organismo che li porta, perché esiste la sessualità? L’unisex garantisce al patrimonio genetico di passare intero alla prole, invece di dimezzarlo nel matrimonio. Non è contraddittoria l’esistenza di un sesso maschile e di uno femminile? D’accordo, in due producono un rimescolarsi dei geni che aumenta la diversità e quindi la gamma delle scelte proposte alla selezione naturale. Ma allora perché non ce ne sono dieci, cento, mille?
La teoria evoluzionistica è piena di domande senza risposte (come la teoria della relatività generale, e tante altre, eppur funzionano), il che dovrebbe stimolare la verve creazionista. Forse è scoraggiata dal fatto che quella teoria si vede sotto il microscopio, in azione nei virus e nei batteri, o a occhio nudo nei moscerini e le farfalle. Per provare a confutarla servono quindi audacia e fantasia, due doti presenti nei signori che corsiveggiano sui Fogli. Coraggio, provino a diluire i propri argomenti per un centinaio di pagine e vedranno che successo, in America. Dove ci sono case editrici specializzate e premi milionari.