La ragazza che scelse la politica

Protagonista di una «avventura di molti» la ragazza del secolo scorso ce ne racconta le diverse stagioni con spavalda fierezza intellettuale e brusco fervore politico, fedele a uri intonazione che rivendica il rigore lucido delle idee e delle posizioni di allora nel momento in cui delega alla prosa testimoniale il riconoscimento della loro fallacia. Senza sentimentalismi né effusioni nostalgiche il libro di Rossanda schizza, sullo sfondo della guerra e del dopoguerra, il ritratto di una donna colta e affascinante che ai buoni studi ha preferito la militanza nel Partito comunista. Poi l’ha lasciato: ma il dopo non conta.
 
Il secolo breve è ancora più breve per Rossana Rossanda: si chiude, alla fine degli anni sessanta, con vent’anni d’anticipo rispetto al crollo del muro di Berlino, e trenta prima del passaggio di millennio.
L’autobiografia di una prestigiosa dirigente politica – «la più giovane fra gli uomini del Pei» – si arresta nel 1969: al momento in cui, cioè, si spezza il filo tenace che a partire dal 1943 ha tenuto legata la promettente allieva di Antonio Banfi al più grande partito comunista occidentale, il partito di Gramsci e Togliatti. L’epilogo ne dà conto con una frase secca e lapidaria: «Non era, o non era più, il Pei», quasi a suggerire con il tono di alterezza impavida che domina l’intero libro, che non era lei, o il gruppo del «manifesto», a «essere fuori, essere altra cosa» ma piuttosto quel Comitato Centrale che ne aveva deciso la radiazione.
Nata per rispondere alle assillanti domande dei più giovani: «perché sei stata comunista? Perché dici di esserlo? Che intendi? Senza un partito, senza cariche, accanto a un giornale che non è più tuo?», la narrazione illustra le ragioni profonde e irrinunciabili di una «condizione» attuale che acquista valore nella ricostruzione del passato: «essere un comunista in Italia dal 1943, comunista come membro di un Partito, non solo come un momento di coscienza interiore». Ad animare l’opera, concepita fuori da ogni intento documentario – affidarsi a carte e appunti «sarebbe come cercare il proprio senso nel dizionario» – è l’urgenza testimoniale di chi vuole raccontare un’avventura appassionante in cui l’esperienza dell’io si esalta nella militanza politica di un partito, di quel partito: «Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in un’avventura di molti». Così Rossanda commenta la decisione presa nell’autunno del 1943, quando si era scoperta «fuscello nel precipitare del mondo». Al suo pubblico elettivo chiede un’inclinazione di lettura interessata non all’ordine meticoloso della cronologia ma allo svolgimento coinvolgente di una trama di ricordi: in questa luce, l’adesione al comunismo resistenziale diventa sintetica chiave interpretativa del ventesimo secolo. La memoria, si sa, è «stravagante e imbrogliona… quel che è avvenuto si fa fluido ma ne resta la coloritura». Più e meglio dei critici, i lettori hanno apprezzato la vivezza suggestiva delle «tonalità» con cui la narratrice ripensa gli anni passati, accogliendo il libro con favore sorprendente: tiratura dichiarata dall’Einaudi 250.000 copie; permanenza in classifica per oltre dieci mesi.
La ragazza del secolo scorso è un titolo azzeccato: indica implicitamente il termine del percorso memoriale, e insieme chiarisce l’osservatorio privilegiato da cui gli eventi sono raccontati: le memorie di un’ottuagenaria hanno il timbro baldanzoso di una donna ancora nel pieno della vita. Nel 1969 Rossanda ha quarantacinque anni; l’acme della sua parabola esistenziale («andare sui quaranta è piacevole – finite le inquietudini della giovinezza, quelle della maturità tenute a equa distanza, la vecchiaia lontana») coincide con uno snodo cruciale della storia dell’Italia e del Pei: quella, per usare un’espressione ricorrente, «fu l’ultima stagione nella quale la storia parve andare con noi».
Il fulcro dell’intero libro ruota intorno agli anni sessanta: da quel decennio, «il più interessante» perché chiude con il dopoguerra e le sue categorie interpretative, la memoria, pur ammaccata e sfuocata, ricava slancio narrativo e vigore strutturante: «nell’ascolto del rombo dello sviluppo, che muta campagne villaggi e città e prometteva e dava lavoro», la protagonista ricostruisce lo scenario di un paese investito dalle dinamiche della modernità matura: mentre i costumi si liberano dalle oppressioni materiali e dal perbenismo ottuso (viva gli antibiotici, gli elettrodomestici e i tampax), i moti impetuosi del progresso aprono una «conflittualità ricca, dentro una trasformazione che moltiplicava energie», sullo sfondo di sconvolgimenti planetari, «Quel che finì negli anni sessanta fu la Guerra fredda». In questa stagione, in cui tutto precipita, la scelta compiuta nei mesi drammatici del 1943 trova conferma e inveramento: vi confluiscono le esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza, scandite sui ritmi di un’educazione privilegiata, l’incontro decisivo con Antonio Banfi, maestro di libertà e di comunismo, il tempo «lungo e scomposto» della Resistenza, il lavoro politico nella Federazione milanese, la guida «mitica» della Casa della Cultura, e infine il trasloco sofferto a Roma, «città ostile». In quello stesso decennio, apice della parabola individuale e collettiva, matura e scoppia il grumo di contraddizioni storiche del movimento operaio italiano e internazionale. «Nei sessanta eravamo il meglio della sinistra, il sale della terra»; già «allora ci togliemmo tacitamente l’Urss di dosso – questa è la verità»; «Se c’era un momento da afferrare per il ciuffo era quello»; ma proprio «Allora il Pei arretrò», rompendo il rapporto fiduciario fra il gruppo dirigente e l’élite intellettuale progressista che aveva caratterizzato il difficile ma esaltante periodo postbellico e tramato l’esperienza esistenzial-politica della protagonista. Dopo «è un’altra storia», che per la ragazza del secolo scorso non vale la pena di raccontare.
Si può, anzi si deve discutere l’interpretazione storica offerta dal libro; allineare, come la maggior parte delle recensioni ha fatto, lacune sviste persino strafalcioni e abbagli; fors’anche raddrizzare la prospettiva parziale e sfasata con cui sono disegnati fatti e persone. A patto però di riconoscere la coerenza profonda di un progetto di scrittura che vuole offrire al lettore non un saggio o un pamphlet ma il racconto in soggettiva di una vicenda appassionante, che è stata un’«avventura di molti». Grazie all’ottica rigorosamente univoca dell’autobiografia intellettuale, la progressione d’intreccio si sviluppa con una tensione costante che culmina nei Sixties (persino Rossanda inciampa nell’anglismo di moda). E allora il paradosso dirompente della Ragazza del secolo scorso non riguarda il giudizio sulle vicende interne del Pei, l’oscuramento di alcuni protagonisti, la sottovalutazione delle altre forze politiche l’elenco redatto dai recensori è lungo e puntiglioso -, ma l’abrasione netta dell’evento che suggella appunto il decennio cruciale: a un mese esatto dalla radiazione del gruppo del «manifesto», nei pressi dell’università dove Banfi aveva insegnato, scoppiano due bombe: è la strage di piazza Fontana, l’avvio della strategia della tensione. Siamo nel cuore della città in cui la ragazza aveva maturato la sua scelta politica, e da cui aveva attinto il patrimonio di idee che l’aveva orientata nella sua azione di dirigente nazionale (il confronto fra la cultura ambrosiana, germinata dalla «crisi della coscienza europea, e scusate se è poco», e lo storicismo meridionale di Alicata e Sereni emerge con chiarezza abbagliante). Ma chiudere il libro sul fragore delle bombe fasciste, saldando l’uscita dal Partito con la risposta reazionaria all’autunno caldo, significava gettare un’ombra cupa sull’intero percorso autobiografico; soprattutto ammettere che lo scacco individuale andava retrodatato: «il mio scacco come persona politica è totale soltanto da una ventina d’anni. Nei tempi d’una vita non è poi un granché». La spudoratezza di Rossanda è davvero stupefacente, soprattutto quando confessa smacchi e fallimenti; e non sono pochi quelli, più o meno «fatali», allineati lungo il racconto: «infilavamo una sconfitta dopo l’altra»; «…e perdemmo sempre»; «non avevamo capito… l’errore era stato grande». Eppure, il fascino del libro risiede anche e soprattutto in questo tono di arroganza audace, di spavalda parzialità: il favore concesso dai lettori nasce dall’apprezzamento per il cocciuto orgoglioso senso di appartenenza che, in tempi di assordanti revisionismi e di autentici lutti storici, La ragazza del secolo scorso esibisce senza timori di smentita: «ma chi si crede quella? Quella si credeva moltissimo. Schiattava di buona fede. Dava non ordini ma direttive. Si considerava una giusta» (p. 213). La scrittura memoriale, mentre denuncia defaillance incomprensioni sbagli clamorosi, li riscatta alla luce di un fervore concettuale che non concede alibi compensatori o recriminazioni fatte con il senno di poi. A cancellare ogni titubanza e perplessità basta un’energica, ribattuta clausola: «A me almeno è andata così», «Basta, a me è andata così».
Da questa intonazione che rivendica il rigore lucido delle idee e delle posizioni di allora nel momento in cui delega alla prosa testimoniale il riconoscimento della loro fallacia, l’autobiografia di un’intellettuale che scelse la politica ricava i tratti di coerenza compositiva e di efficacia espressiva.
Il protagonismo autoriale con cui è condotta la narrazione governa, innanzitutto, il montaggio dei ricordi: nella prima macrosequenza, la rievocazione degli anni della giovinezza si affida a tonalità di nitore struggente, tanto più arioso quanto meno intriso di rimpianti nostalgici: basta un aggettivo, un tratto a delineare la personalità dei familiari: il silenzio malinconico del padre, la leggerezza festevole della madre, la sintonia forte con Mimma, che subisce la sorellanza prepotente. Poi i capitoli condotti con lo stesso ardore impaziente di chi, nel pieno della bufera, ha rifiutato cecità e silenzi per schierarsi dalla parte giusta, con i comunisti, i più seri «i più sicuri, i più solidi»; quindi l’alacre stagione postbellica, in cui «un’allegrezza bellissima» si intrecciava al faticoso impegno per l’egemonia culturale nell’Italia democristiana. Anche quando sul proscenio si affacciano i protagonisti del movimento operaio, il criterio ordinatore non cambia: figure ed eventi si dispongono intorno alla protagonista e dalla sua esperienza ricavano un suggestivo spessore di verità: l’amarezza caustica di Pajetta, in una notte di Natale; la signorilità inscalfibile di Amendola, il «perfetto elefante di seta grigia»; o la «curiosità» che suggella il ritratto di un Togliatti inatteso: «Rimase curioso, anzi lo divenne maggiormente con il tempo, malgrado l’arroganza che gli era propria, come di tutti noi del Pc – sotto sterzo ma convinti di essere i più forti e i più intelligenti, cosa che non aiuta a capire» (p. 288).
Allorché il personaggio esce dal raggio di luce della memoria scompare e non se ne sa più nulla: solo a Banfi spetta un ultimo affettuoso saluto, quando «partito e università e allievi e tutta Milano, e un mare di contadini in bicicletta venuti dal cremonese» si raccolgono insieme per i solenni funerali.
Se ne avvalora una scelta espressiva che privilegia la sintesi scorciata agli approfondimenti psicologici: pochissime le pause di meditazione autoriflessiva, suggellate, quasi raggelate da asserzioni irrefutabili: «Non me ne vanto, non me ne pento»; «“Vivevate nelle certezze” – che stupidaggine». Ancor più rari gli indugi sulle motivazioni di scelte e comportamenti assunti dai tanti compagni di viaggio, poco importa se incontrati nella zona del privato, o in quella più affollata del pubblico. In questo montaggio brusco, sempre retto dalla sicurezza fiera del giudizio intellettuale, le sequenze più faticose riguardano il maggio francese e l’autunno caldo: neanche tanto paradossalmente, nelle scene di movimento e di massa, vacilla la demiurgia autoriale, il discorso si arruffa, aggrovigliando la stessa sintassi (persino i tempi verbali confondono la scansione cronologica dei moti studenteschi e delle lotte operaie). Poi nell’epilogo, la narratrice recupera l’urgenza imperiosa di una prosa antieffusiva che scandisce i ritmi delle scelte ineludibili.
La ruvidezza scabra di una voce che suona forte e chiara, sempre pronta a ostentare un’immodestia scontrosa per scansare le trappole della rimemorazione postuma e del ripensamento tardivo, è il tratto stilistico dominante del libro: le frasi incisive, uniproposizionali, con il verbo per lo più al perfetto, condensano il senso di una decisione, il nodo di un conflitto politico: «Quel giorno finì l’infanzia»; «Ne fui oltraggiata»; «Fu tremendo»; «Non facemmo errori»; «Fu un fulmine»; «Mi suonò insopportabile». La scrittura veloce, quasi a mimare il corso inarrestabile della storia che «ti si srotola addosso», predilige la retorica della concisione tagliente; le inflessioni conversevoli evitano ogni nota di cordialità affabile, di amabilità intrigante a favore della complicità spigolosa con un lettore a cui poco importano dettagli o digressioni. Bagliori di sintesi cadenzano l’onda lunga dei ricordi: dal primo riconoscimento – «Rimasi fulminata. Se d’un rapporto ero sicura, era quello con mia sorella e invece avevo sbagliato tutto» (p. 15) – all’ultima identica ammissione: «Rimasi fulminata… Nel partito non ero niente e fuori del partito non contavo affatto» (p. 329).
Una simile scelta espressiva ha fatto storcere il naso ai cultori della letterarietà ufficiale, non ultimi i giurati del premio Strega che le hanno preferito un romanzo rispettoso dei precetti del bel narrare. Peccato, perché questo stile, ai margini della trasandatezza sbrigativa, accusa intenzionalmente l’attaccamento di Rossanda alle proprie moderne radici culturali: per chi è nata a Pola, il rifiuto dell’eleganza forbita, della ricercata «distinzione», nell’accezione propria dell’amato Bourdieu, è dichiarazione di sintonia con lo «scriver male» di Svevo e degli autori triestini; forte dell’appartenenza alla tradizione ambrosiana, l’allieva di Banfi non può che adottare illuministicamente una lingua fatta di «cose, non di parole». Questa scorbutica, franta sintassi che accompagna, senza mai ostacolare, l’impegno di lettura, conferma la coerenza compositiva dell’opera autobiografica. Per intonazione e ordito espressivo, La ragazza del secolo scorso si pone agli antipodi dei libri di memorie scritti, negli ultimi anni, da intellettuali e politici di sinistra: dal primo, e più intrinseco al gruppo del «manifesto», Luigi Pintor, che in Servabo proietta il vissuto esistenziale nella luce assorta dello snobismo raffinato, all’Alberto Asor Rosa dell’Alba di un mondo nuovo dove l’intreccio romanzesco è tramato di levigata e controllata nostalgia, fino al più corrucciato Romano Luperini i cui Salici sono piante acquatiche inclina verso i toni cupi e depressivi della confessione testamentale. Alle rammemorazioni di chi si volge indietro per recuperare infanzie remote, sulla soglia di una saggezza matura che non vede spiragli di futuro, La ragazza del secolo scorso oppone il racconto di una vita in tanto interessante in quanto testardamente fedele alla scelta compiuta in quel lontano 1943: «Sentirsi tassello intelligente di un mosaico mobile, intrisi nelle esistenze e nei bisogni altrui, disinteressati e convinti di usare il proprio briciolo di gerarchia per il bene comune, è un’esperienza forte». L’intelligenza profusa a piene mani, non aliena dai timbri di sicumera «antipatica» e di «orgoglio luciferino», rifugge, nondimeno, dalle note dell’intellettualismo elitario che, in nome del libero agone delle idee, svilisce la militanza organica in un partito. Perché ancor oggi, nel tempo della scrittura, l’iscrizione al Pei è riconosciuta come «una marcia in più. Ci dette la chiave di rapporti illimitati, quelli cui da soli non si arriva mai, di mondi diversi, di legami fra gente che cercava di essere uguale, mai seriale, mai dipendente, mai mercificata, mai utilitaria» (p. 213).
E con un ulteriore ostentato sberleffo alla subalternità politica e culturale delle donne, il protagonismo femminile della ragazza del secolo scorso vince l’ultima sfida, rompendo con la convenzione cardine della letteratura di genere: le memorie di Rossanda non concedono nulla alla sfera dell’intimità privata: i pochi quadri di interni familiari hanno l’asciuttezza aspra di chi sa che il conflitto non risparmia lo spazio domestico. Con determinazione ancor più energica, la scrittura memoriale rigetta ogni inclinazione all’effusione elegiaca e sentimentale: «È ripugnante». Sempre nei cruciali anni sessanta, c’è «l’incontro con il femminile». Anche in queste sequenze, la narratrice non patisce dubbi o titubanze; la consapevolezza del limite nella gestione del potere, «quell’impulso a fuggire» che gli uomini non conoscono e che è iscritto nella storia secolare di gender, si capovolge in rinnovata coraggiosa rivendicazione di superiorità: «Sacrificata? Ma via. Di una stanza tutta per me non ho sentito la mancanza avendo per me il mondo e potendo perfino recederne». Per raccontare l’identità femminile, «stratificata come una pasta sfoglia», non solo non è praticabile la cara vecchia antitesi della Austen, ragione e sentimento, ma soprattutto occorre evitare di «mettere le viscere sul tavolo». Anche in forza di questa costante spavalderia, che ammette «il far politica come l’ho fatta io è folle di appropriazione, anche se gravido di sconfitte», il libro che rievoca una «vicenda finita così malamente» consegna ai lettori e alle lettrici un appello energico affinché quella storia, germinata nei giorni della Resistenza, «vittoriosa» anche se «non vincente» (p. 117) non cada nel vuoto.