Italiani, carne da canzone

Non bastavano gli outing autocoscienziali e non richiesti dei nostri cantautori, contro i quali verrebbe da invocare il garante della privacy (nostra). La serata del Festival di Sanremo 2011 dedicata al 150° dell’Unità d’Italia alimenta un fuoco fatuo di polemiche pretestuose sul tema Patria&Canzone, ma rischia di risolversi nell’ennesima agiografia del Paese dei Cantautori, sulla linea della beatificazione postuma inaugurata con Tenco e proseguita con Battisti e De André. Non ci resta che un’antologia della canzone umoristica napoletana come antidoto all’enfasi – e al rischio di prendersi un po’ troppo sul serio?
 
Difendersi dalle canzoni, in Italia, non è facile. Ma ancor più difficile è proteggersi dall’intimità dei loro autori-interpreti. Gli amori, i tradimenti, i divorzi, le sostanze che assumono o smettono di assumere, le crisi esistenziali che attraversano, bussano ai nostri cervelli con la petulanza di un promotore telefonico. Forse il garante per la privacy, oltre a vegliare sulla nostra, dovrebbe cominciare a salvaguardarci da quella dei nostri beniamini. Nel corso degli ultimi mesi quasi nessuno, nel Paese dei Cantautori, ha potuto ignorare che: 1) la cinquantaseienne signorina Nannini Gianna era incinta; 2) padre del concepito era un anonimo donatore di seme (professione cui Woody Alien dichiarò anni fa di aspirare massimamente); 3) la piccola era una femminuccia, e si sarebbe chiamata Penelope; 4) la gravidanza procedeva bene (vedi foto con pancione: le ecografie ci sono state risparmiate); 5) finalmente, la Figlia era venuta al mondo; 6) la Madre le avrebbe dedicato un disco e un tour.
Povera Penelope, carne da canzone già dal concepimento. (E poi – detto tra parentesi – che nome impegnativo. Un’abbreviazione sarà inevitabile. Ma se ogni Federica diventa Fede, quale freudiano diminutivo attende il frutto della sbandierata partenogenesi?). Lorenzo Cherubini-Jovanotti ci aveva già messo a parte di un lutto in famiglia qualche anno fa, presentando il suo cd Safari. Nel 2011, in occasione dell’uscita dell’ultimo disco, Ora, veniamo a sapere che anche la mamma è venuta a mancare. Che dire? Sentite condoglianze. Pittori, poeti, compositori, queste cose le tengono per sé; quanto più aperti e generosi sono i cantautori. Ma come conciliare un evento tanto triste con «un disco di gioia»?
«Ho cercato di metterci molta musica allegra, quella che piaceva a mia mamma», spiega l’autore a «la Repubblica» (25/1/2011). Ah, ecco. «L’album è spumeggiante» conferma Gino Castaldo «un vero fuoco pirotecnico equamente distribuito tra richiami all’Africa, tecno-sperimentazioni, pezzi d’amore e tranches di filosofia contemporanea». Già, avevamo dimenticato che il Cherubini, oltre a tenere famiglia, è uno dei più eminenti filosofi del nostro tempo, secondo (forse) solo a Rocco Buttiglione. La conferenza stampa milanese gli dà l’opportunità per alcune fulminanti considerazioni estetico-metafisiche: «Mi piacciono i grattacieli», dichiara il pensautore. «La vista dei grattacieli mi ha sempre fatto pensare al futuro, e il futuro è importante». Era ora che qualcuno lo dicesse.
Italiani, carne da canzone. Ogni giorno suona la carica e noi «Savoia!» – fuori dalla trincea, a offrire il petto agli hits e alle notizie bomba che piovono da innumerevoli postazioni mediatiche. Festival di Sanremo 2011: le batterie danno inizio al fuoco di sbarramento già a metà del 2010. All’Ariston, per festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia, si canterà Bella ciao, ma – per par condicio – anche Giovinezza (in effetti, gli assassini di Matteotti hanno dato un grosso contributo alla nazione. Se esistesse un inno della mafia, o degli evasori fiscali, bisognerebbe far cantare anche quelli).
La provocazione funziona. Le munizioni durano mesi. Si canterà, Giovinezza! Non si canterà? Alla fine no, non si canterà. «Nessuno la voleva cantare», spiega Gianni Morandi durante una conferenza stampa (23/12/2010) che dovrebbe concludere la scoppiettante diatriba. «Io veramente qualcuno l’avrei trovato» si affretta a precisare il coorganizzatore, Gianmarco Mazzi. Purtroppo, Mazzi non fa nomi; sarebbe interessante sapere chi sia il fine interprete disposto a misurarsi con quei versi surreali, pieni di sottile ironia: «Nel Fascismo / è la salvezza / della nostra libertà».
Resta comunque l’idea di una serata dedicata alla Patria. Al Bano riproporrà Va’ pensiero, Anna Oxa canterà ’O sole mio, Davide Van De Sfroos Viva l’Italia di De Gregori (prodotto anaforico a norma UE, garantito non nocivo). Luca Madonia e Battiato rivisiteranno La notte dell’addio, Giusy Ferreri Il cielo in una stanza. Ma che ci azzeccano (direbbe Di Pietro) questi due pezzi con l’Unità d’Italia? Lo scopriremo solo vivendo. Comunque, almeno per questa volta, All’armi siam fascisti ci è stata risparmiata. Leggo però che in una scuola media di Vicenza un prof di musica insegna ai suoi alunni Faccetta nera (per flauto dritto, immagino); l’indimenticabile evergreen rispunta mesi dopo in un istituto di Lecce, dove le suore Marcelline lo inseriscono in una celebrazione musicale dell’Unità d’Italia. La senatrice Adriana Poli Bortone, autorevole esponente di Io Sud, definisce «stupida» la polemica suscitata da questo esperimento educativo, e ci ricorda che «le suore Marcelline sono solitamente illuminate e molto rigorose». Non oso pensare cosa faranno cantare le loro consorelle oscurantiste e approssimative.
A chi voglia approfondire il rapporto fra Patria e canzoni segnalo due libri: il ponderoso studio di Paolo Prato La musica italiana. Una storia sociale dall’Unità a oggi, che si presenta anche come utile manuale di consultazione, e un bel saggio di Marco Santoro, Effetto Tenco. L’intento di Santoro non è quello di proporci l’ennesima agiografia del cantautore piemontese, bensì (come recita il sottotitolo) di delineare una genealogia della canzone d’autore. Ma perché partire proprio da Tenco, e non – poniamo – da Paoli, da Guccini o da De André? La scelta del sociologo non comporta un giudizio artistico: la sua tesi è che il suicidio di Tenco, avvenuto nel 1967, costituisca l’evento inaugurale di una sacralizzazione della figura del cantautore che sarà il tramite per la progressiva legittimazione artistica (consécration, nei termini di Bourdieu) della canzone d’autore come genere. A partire da quello che Santoro chiama «trauma culturale», l’«effetto Tenco» si riversa sull’intera produzione dei cantautori e gradualmente penetra nella coscienza del pubblico, trasformando un genere musicale fra i tanti nel santo recinto ove si custodiscono l’autenticità, la bellezza, l’arte, la poesia. Quello di Tenco si configura a poco a poco come un martirio, violenta testimonianza di un’idea più disperata ma anche più vitale di che cosa sia scrivere canzoni. Interpretazione riduttiva, che però è Tenco stesso a suggerire, con il famoso messaggio d’addio: «Faccio questo […] come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che chiarisca le idee a qualcuno». Nemmeno il più scafato degli uffici stampa sarebbe riuscito a inventare un congedo tanto didascalico, univoco, massmediaticamente spendibile. La canzone con le stimmate: erano anni che il pubblico italiano la stava aspettando.
Il processo giunge al culmine trent’anni dopo, tra il novembre del 1998 e il gennaio del 1999, quando – a distanza di pochi mesi – muoiono (di morte naturale, stavolta) Lucio Battisti e Fabrizio De André. Lo spazio e le lodi che i mass media dedicano ai due artisti sono senza precedenti; ma ancor più significativo è che a celebrarli pubblicamente, oltre ai colleghi e ai critici del settore, siano scrittori, poeti, uomini politici, compositori, personaggi pubblici di ogni sorta. Il Paese dei Cantautori (e del «sàntò-sù-bi-tò») si mobilita, pronuncia orazioni funebri che nemmeno Garibaldi o Padre Pio seppero meritarsi; a Lucio e a Faber il popolo vuole intitolare viali, piazze, giardini, scuole, stadi, conservatori. Le tappe, i meccanismi e i motivi di questa beatificazione, e della inavvertita ma profonda perestrojka che la cultura italiana ha attraversato negli ultimi cinquant’anni, Santoro ce li racconta lucidamente, senza cedere ai clichés del cantautorismo, ma anche senza troppo infierire sulle smanie agiopoietiche dei nostri compatrioti.
Ancora di quegli anni ci parla – stavolta dall’interno, e con indubbia autorevolezza – un libro-intervista dedicato a Nanni Ricordi (Ti ricordi Nanni?), corredato di numerosissime testimonianze di artisti e operatori del settore, da Lucio Dalla a Luis Bacalov, da Dario Fo a Ennio Morricone. Il sottotitolo – IL uomo che inventò i cantautori – suona obliquamente polemico. Le cronache dicono infatti che a «inventare» la categoria sia stato Enzo Micocci, quand’era funzionario della RCA (di una sua autobiografia ci siamo occupati a suo tempo su queste pagine); a Micocci, in effetti, va attribuita la paternità del termine «cantautore»; ma è innegabile che il contributo più decisivo e coraggioso alla crescita e alla diffusione della «canzone d’autore» sia venuto dall’ultimo erede di Casa Ricordi. Nanni (classe 1944) non è un discografico o un produttore qualsiasi, ma un intellettuale di vasta cultura, musicalmente agguerritissimo, curioso, aperto a ogni genere di novità. Il suo ruolo va ben al di là di quello di un dirigente aziendale: è lui a scoprire e a sostenere artisti come Sergio Endrigo, Enzo Jannacci e Paolo Conte, ma anche a far conoscere, nei primi anni sessanta, la ricerca del Nuovo Canzoniere Italiano, invitando al Festival di Spoleto lo storico spettacolo Bella ciao (con seguito di scandali e polemiche). Della storia della canzone italiana la sua intervista – brillantemente guidata dal nipote, Claudio Ricordi – ci dà un’immagine viva, disincantata e appassionata, lontanissima dagli stereotipi correnti.
Come si ride a Napoli!, libro-dvd sponsorizzato da Renzo Arbore, propone un’antologia della canzone umoristica napoletana con particolare attenzione alla produzione «classica» del primo Novecento. Nella prima parte del volume, Carlo Missaglia presenta gli autori e gli interpreti più notevoli, da Ferdinando Russo ad Armando Gill, da Nicola Maldacea a Totò a Nino Taranto; la seconda parte è un canzoniere dove accanto ai classici (A casciaforte, Agata, Ciccio Formaggio, Io mammeta e tu) troviamo antologizzate e commentate canzoni meno note come Chitarra accatarrata o Chiara, in cui l’erre moscia di un innamorato trasfigura il nome della bella fino a generare ammuina. Nel dvd, il repertorio comico napoletano rivive grazie alla voce e alla mimica di Vittorio Marsiglia, che ripropone il suo spettacolo Cosa sono, cosa faccio, dove vado.
Nella prefazione Arbore, ricordando di passaggio che il primo pezzo inciso su disco in Italia è una canzone comica (A risa, di Bernardo Cantalamessa), sottolinea l’importanza di questo genere «minore» nella storia della musica leggera italiana. In effetti, la «macchietta» creata da Ferdinando Russo e Nicola Maldacea è alle radici non solo della nostra canzone propriamente umoristica – penso a Rascel, a Carosone, a Buscaglione – ma anche della canzone «d’autore» più interessante, da Enzo Jannacci a Giorgio Gaber a Paolo Conte. In una prospettiva storica, l’umorismo si rivela come il più efficace antidoto agli sdilinquimenti e ai birignao della canzonetta italiana. Dalle pontificanti egolatrie di cui si alimenta il Paese dei Cantautori una risata – forse – può ancora salvarci.