Grandi emozioni nel condominio soap

In un momento di forte crisi della soap opera e di complessivo ridimensionamento del genere sul mercato televisivo, Un posto al sole continua a raccogliere il gradimento di un pubblico vasto e trasversale. A decretarne il successo concorrono diversi e ben dosati ingredienti: le scaltrite tecniche di fidelizzazione degli spettatori si accompagnano alla presenza inedita di tematiche sociali, mentre a una sceneggiatura modulata sulla varietà dei generi corrisponde un sistema dei personaggi tanto compatto quanto duttilmente articolato.
 
La fiction televisiva a cadenza quotidiana e lunga serialità, o soap opera, ha una forte tradizione in ambito anglosassone e in genere nei paesi con una robusta storia di radio-televisione pubblica, mentre è poco radicata altrove. In Italia la sperimentazione autoctona di soap è un fenomeno piuttosto recente: dopo decenni di importazione di serial soprattutto americani, le prime fiction prodotte e ambientate nel nostro paese appaiono sui teleschermi tra la seconda metà degli anni novanta e i primi anni zero. E questo il periodo d’oro della soap italiana: dopo la nascita di Un posto al sole nel 1996, Mediaset inaugura Vivere e quindi Centovetrine, mentre la televisione pubblica, accanto a esperimenti sfortunati destinati a durare una sola stagione, mette in onda una fiction di largo successo come Incantesimo, trasformata in daily soap dopo dieci anni di programmazione. Già alla fine del decennio, tuttavia, la presenza dei prodotti italiani sui palinsesti si è notevolmente assottigliata: nel 2008 ha chiuso Vivere, l’anno successivo è stata sospesa anche Agrodolce, la fiction quotidiana ambientata in Sicilia lanciata solo un anno prima con grande enfasi di stampa e altrettanto dispendio di fondi pubblici; mentre scriviamo pare assai probabile anche la prossima definitiva cancellazione di Centovetrine, ultima soap di produzione nazionale in onda sulle reti private. Del resto il genere è in crisi dappertutto, a partire dalla sua patria d’elezione, gli Stati Uniti, dove ormai lo spazio del day time dedicato alla messa in onda di serial continui è ridotto di un quinto rispetto a quanto accadeva negli anni settanta e ottanta. L’evento emblematico di questo declino è stata la cessazione definitiva, nel 2009, della soap più antica e durevole di tutte, Sentieri (Guiding Light), nata negli anni trenta come soggetto radiofonico e diventata sceneggiato televisivo all’inizio degli anni cinquanta. Di fatto, la lenta ma inarrestabile perdita di egemonia della televisione generalista rende le soap un prodotto non più competitivo nel rapporto tra indici di ascolto e costi di realizzazione.
Da noi, l’offerta nazionale di soap opera si riduce oggi alla programmazione di Un posto al sole. La prima e più longeva soap italiana si distingue dagli esperimenti analoghi per popolarità e durata: con uno share tra il 9% e il 10% e una media di due milioni e mezzo di spettatori a puntata, è senz’altro un prodotto che funziona, e attualmente l’unico a resistere alla crisi del genere sul mercato televisivo.
Un posto al sole è nato dalla trasposizione di un format anglosassone, la serie australiana Neighbours, mutuandone in parte il cronotopo strutturante: uno stesso luogo che riunisce una serie di famiglie, divenendo centro di interazione tra i personaggi e cornice unitaria dei diversi filoni d’intreccio. Ma il modello è stato declinato con originalità efficace: l’ambientazione napoletana di Un posto al sole, il settecentesco Palazzo Palladini a Posillipo, è uno degli elementi di forza della soap e un ingrediente strategico del suo successo. Lo sfondo partenopeo consente una caratterizzazione locale assai forte, facendo leva sui tratti peculiari della napoletanità come realtà nazionale molto connotata, allo scopo di corroborare la verosimiglianza realistica del racconto. Al tempo stesso la scelta di una location scenograficamente fascinosa e aristocratica, separata e lontana dagli spazi gremiti della Napoli reale, sollecita il coinvolgimento di un pubblico vasto e non regionalmente circoscritto. Agli spettatori viene offerta una rappresentazione della città promozionalmente accattivante e insieme sufficientemente asettica, senza che troppo realistici riferimenti agli eccessi di invivibilità caotica della metropoli meridionale interferiscano con l’ordinata messa in scena delle passioni private.
Ciò tuttavia non significa che Un posto al sole manchi di affrontare vicende e argomenti di indole sociale; se l’artificialità patinata del set risponde ai paradigmi rappresentativi del genere, senz’altro eccentrica rispetto alla morfologia della soap opera è invece la tendenza a uno sguardo più aperto e problematico su temi di portata collettiva. Ancorché variamente edulcorata, la rappresentazione di situazioni di disagio ed emarginazione è anzi iscritta nei fondamenti della sceneggiatura: la soluzione narrativa principale – ma non l’unica – prevede che alcuni protagonisti lavorino come assistenti sociali in un centro di servizi, e si trovino dunque a fronteggiare, di volta in volta, storie problematiche e tragici episodi di cronaca. Si tratta di uno stratagemma che permette di coniugare la vocazione all’impegno con il racconto del vissuto quotidiano dei personaggi, fondamentale nel ritmo continuo della soap; con il vantaggio non secondario di accrescere il tasso di patetismo delle vicende narrate. Ma la scelta di un punto di vista interno alle istituzioni e alla società civile si rivela cruciale soprattutto in funzione didascalica, come appello forte al solidarismo altruistico e messaggio di sensibilizzazione della pubblica opinione; pur offrendosi esplicitamente come un prodotto di intrattenimento, Un posto al sole mantiene radicate ambizioni di servizio pubblico. Naturale dunque che l’ambientazione napoletana induca riferimenti più o meno articolati alla presenza della malavita camorristica nel tessuto sociale. Nella modulazione della sceneggiatura, le declinazioni del tema mafioso si rifanno alla ormai corposa tradizione nazionale di fiction televisive su soggetto analogo; ma in Un posto al sole a prevalere sugli effetti spettacolari è sempre un forte intento di educazione alla legalità democratica. Ne è un esempio, tra i molti possibili, la scelta di ambientare alcune recenti puntate nella sede della fondazione Pol.i.s., strumento operativo della Regione Campania per la gestione dei beni confiscati alla camorra e il sostegno ai familiari delle vittime della criminalità organizzata.
La presenza di un filone narrativo di carattere sociale, che si alterna e spesso si fonde con le più canoniche trame amorose, è una delle radici dell’allargamento della cerchia dei fruitori. Del resto il successo durevole di Un posto al sole si deve proprio al coinvolgimento di un’utenza più vasta di quella tradizionale del genere, storicamente circoscritta a una platea di casalinghe: non solo oggi il pubblico della soap in onda su Rai3 è anche maschile, ma è soprattutto interclassista e intergenerazionale. Se sul gradimento trasversale del prodotto influisce certo la programmazione in fascia oraria serale, a motivarlo sono principalmente precise scelte di sceneggiatura, declinate secondo un’interpretazione innovativa di alcuni archetipi del genere.
Un primo punto di forza la soap lo trova nell’articolazione delle classiche tecniche di fidelizzazione dello spettatore, in special modo per quanto riguarda l’organizzazione temporale. La regolarità di trasmissione del programma, alla stessa ora di tutti i giorni feriali, autorizza la finzione di coincidenza tra il trascorrere del tempo della fiction e quello della realtà. E questa una strategia cruciale per garantire la continuità di ascolto sulla lunga durata: chi guarda sarà istintivamente portato a familiarizzare con vicende che si sviluppano con l’identico ritmo che scandisce la quotidianità della vita reale. A corroborare questa sincronia, in Un posto al sole vige la tecnica, mutuata da molte soap anglosassoni, di menzionare giorni significativi del calendario nella data corrispondente alla messa in onda della puntata. Ovviamente deve trattarsi di eventi prevedibili, dal momento che il girato precede di circa quaranta giorni la messa in onda; ma anche in questo modo è possibile far sì che i personaggi condividano con lo spettatore il tempo stagionale, ricorrenze e festività importanti, eventi sportivi di grande popolarità (come accade con le partite della nazionale durante i campionati mondiali di calcio) oppure, ancora una volta con intenti di educazione civica, celebrazioni istituzionali (per esempio il Giorno della Memoria che commemora l’Olocausto).
Agli artifici volti a valorizzare gli aspetti di familiarità rassicurante dell’universo rappresentato fanno riscontro i procedimenti che ne enfatizzano i tratti di imprevedibilità avventurosa. Sul piano della gestione del tempo, caratteristica del serial continuo è un particolare senso di futuro, dovuto all’incessante rimandare lo scioglimento dell’intreccio. Nella soap gli eventi narrati non sono mai conclusivi, e ciò permette di rinnovare costantemente gli effetti di suspense. Di qui anche la relativa parsimonia nel somministrare ai protagonisti la morte violenta, evento ad altissima intensità drammatica perché l’unico in certa misura irreversibile nella soap: non per nulla, nella gestione del fisiologico tasso di ricambio degli attori, l’espediente preferito per rappresentare l’uscita di scena di un personaggio consiste di solito in un suo allontanamento da Napoli.
Nel dosare gli effetti di coinvolgimento emotivo degli spettatori allo scopo di accrescerne l’efficacia, fondamentale si rivela inoltre un’altra tecnica tipica del genere, ovvero l’intreccio di diversi plot: è qui probabilmente che Un posto al sole ha sviluppato le soluzioni più originali rispetto ai prodotti omologhi. Anziché limitarsi a coordinare orditi narrativi molteplici, ma tutti accomunati da un’omogenea matrice intimistica, la soap partenopea sfrutta al massimo grado l’architettura complessa dei plot per accostare generi differenti: alle venature di impegno sociale si alternano le vicende sentimentali, alle tonalità drammatiche o tragiche gli episodi comici o leggeri, in una gamma piuttosto vasta di gradazioni che va dalla commedia degli equivoci alla rappresentazione umoristica del quotidiano. In quest’ultimo caso, la produzione ha opportunamente messo a frutto l’esperienza teatrale di alcuni attori storici della soap, come Patrizio Rispo e Marzio Honorato, formatisi all’interno della tradizione della commedia napoletana e del cabaret. D’altra parte, la presenza costante di sketch comporta numerosi vantaggi. Sul piano dell’organizzazione produttiva, velocizza e semplifica un lavoro di scrittura portato avanti a ritmi febbrili, lasciando agli attori un margine consistente di improvvisazione; facilita inoltre la cattura del pubblico occasionale, o di chi non è al corrente degli ultimi sviluppi della trama; ma soprattutto permette di alleggerire opportunamente, interrompendolo, un continuum di seriosità drammatica altrimenti insostenibile – o almeno stucchevolmente monotono – sulla lunga durata della serialità protratta.
Al tempo stesso, mentre fa appello ai gusti e alle preferenze di un pubblico stratificato, la varietà di toni all’interno di una stessa puntata è la prima garanzia della solidità narrativa della soap, perché consente di valorizzare di volta in volta, per contrasto, un solo plot dominante.
Alla molteplicità dei piani diegetici corrisponde un’omologa complessità del sistema dei personaggi. E proprio a partire dalla costruzione di fisionomie accattivanti, destinate a evolvere e mutare in modo convincente sul tempo lungo della continuità seriale, che si gioca la prima scommessa di coinvolgimento del pubblico. Ma a questo scopo non meno decisiva si rivela la messa a punto di un sistema di relazioni tanto duttile quanto compatto, di cui il cronotopo napoletano rappresenta l’indispensabile elemento coesivo. E proprio la trovata di concentrare quasi tutti i personaggi all’interno di Palazzo Palladini, un condominio di lusso abitato da figure eterogenee per ceto sociale, età, cultura e provenienza, a garantire la ricchezza variegata della sceneggiatura: prestando attenzione all’organizzazione dei tipi e dei ruoli, si potrebbe osservare che Un posto al sole condensa almeno tre tipologie distinte di soap opera. Vi è anzitutto il modello dinastico, che favorisce il disporsi dei personaggi in base a una rigida griglia classista: questa morfologia si riscontra nelle vicende della nobile famiglia dei Palladini, proprietari del palazzo, e delle figure che contendono loro denaro e potere con iperbolica spregiudicatezza. Di qui gli infiniti intrighi e conflitti, sceneggiati a partire da una rappresentazione dell’universo delle classi alte di tipo melodrammatico: non solo questi personaggi sono di norma esclusi dai ruoli comici o leggeri, ma significativamente, e a differenza di quanto accade per tutti gli altri, non ci si sofferma nemmeno sui dettagli spiccioli della loro quotidianità. A risaltare è semmai la lotta incessante per la supremazia, mentre tuttavia le dinamiche del gioco non rispondono a concreti interessi materiali o a criteri di razionalità economica, bensì a una rete inestricabile di passioni arroventate: per cui il rivolgimento delle fortune di un’azienda è di solito dovuto a ragioni di amore o odio, gelosia o vendetta. Poiché però Un posto al sole non è Beautiful, al coté dinastico si affianca e si sovrappone un paradigma rappresentativo di tipo comunitario, incentrato sulle vicissitudini delle famiglie medio e piccolo borghesi che abitano nel palazzo. E senz’altro questa la struttura dominante della soap, ed è quella che permette di raccontare la quotidiana fatica del lavoro e degli impegni familiari secondo un’ottica di realismo: in quest’ambito rientra anche la costante attenzione alle dinamiche intergenerazionali, e ai conflitti tra genitori e figli.
Infine, Un posto al sole mutua da un’ormai vasta tradizione di fiction giovanili la rappresentazione degli avvicendamenti sentimentali di ragazzi e ragazze, intrecciando le storie di diverse giovani coppie fra amori, separazioni e tradimenti. Se la tipologia comunitaria costituisce l’asse portante della sceneggiatura, l’interscambiabilità delle coppie è il modello che più agevolmente permette di gestire l’uscita di scena di vecchi personaggi e l’ingresso di nuovi, garantendo l’automatico rinnovamento degli script attraverso la continua inserzione di storie fresche.
Da ultimo, vale la pena di notare, perché qui sta un altro motivo di peculiarità non banale della soap, che il debutto di singole figure da principio estranee alla comunità condominiale di Palazzo Palladini si rivela la via privilegiata per dare dignità rappresentativa anche agli strati sociali oggi in difficoltà: a entrare in scena sono per lo più giovani senza radici familiari e con un passato turbolento, le cui vicende illuminano in modo non completamente cauteloso condizioni di vita dominate dalla precarietà lavorativa e dal bisogno economico. Non era affatto scontato che una soap opera italiana ci raccontasse tutto questo, e gliene va dato atto.