«Il futuro sarà come il passato». Strategie melodrammatiche su sfondo familiare

Uno degli aspetti caratteristici della narrativa italiana recente riguarda il patetico, offerto al lettore apertamente oppure disciolto entro trame efferate. Ne offrono testimonianza scrittori diversi come Ammaniti, Mazzucco, Mazzantini. Il racconto verte solitamente sulla vita dei coniugi, sul rapporto genitori/figli. Le tecniche di amplificazione, i sondaggi coscienziali, lo stile e l’aspetto drammaturgico delle scene intervengono a esaltare il lato nostalgico e struggente.
 
Come dio comanda, proposto nel 2005 da Niccolò Ammaniti, Un giorno perfetto di Melania Mazzucco (stesso anno) e Nessuno si salva da solo di Margaret Mazzantini (2011) sono organismi testuali diversi, che assegnano al pessimismo cupo della rappresentazione, al desiderio di denuncia o di provocazione etico-estetica una misura non omogenea. Condividono però un tema, destinato a tornare più e più volte nelle recenti annate letterarie: quello del rapporto doloroso tra genitori e figli, che a sua volta sottende le lacerazioni non di rado drammatiche a cui è dannata la dimensione coniugale. Il rifiuto di attingere secondo procedure di medietà realistica a un quadro di amorevolezza eterosessuale e intergenerazionale dà spazio a opere che inclinano al sangue, al truculento, comunque a perturbazioni psichiche di lunga durata: divorzi, violenze vendicative, stupri, insanie, suicidi. Ma non perciò ne viene smentita la centralità della vita domestica, sia pure nei suoi aspetti di degenerazione senza scampo e lungo la china di un sentimentalismo nostalgico esasperatamente centellinato.
Il romanzo ammanitiano insinua il patetico su uno sfondo di efferatezze raccapriccianti: qui sta la sua trovata maggiore e insieme il suo arduo equilibrio. In realtà non da ora Ammaniti si sforza di lasciare indietro il sarcasmo cinico delle origini (Branchie, 1994; Fango, 1996; molti tra i racconti compresi nel Momento è delicato, 2012), e di inserire spunti di affettuosità e di melodramma eccentrico in un ambito di devianza, o catastrofe sociale, solitamente delimitato da una produzione a tinte noir (Ti prendo e ti porto via, 1999, e Io non ho paura, 2001, potrebbero segnare a riguardo altrettanti punti di svolta).
Anche nel nostro caso il contesto antropico e geografico è poco rasserenante. In un Veneto appena stilizzato, dove elevatissima è la media dei redditi, l’occhio può contemplare un paesaggio rurale giusto ieri trasformato in paese di Bengodi: ai lati di stradoni anonimi, scherza il narratore, «si stendeva un chilometro e mezzo di magazzini, rivendite all’ingrosso e al dettaglio, outlet, autolavaggi fai da te, stock-house, luminarie colorate, insegne che pulsavano offerte e ribassi. C’era pure una moschea». Qui albergano un alcolizzato responsabile per la morte della figlioletta treenne, un balordo semidemente che si macchia di stupro, omicidio e finisce impiccato, un bullastro con la moto, un assistente sociale fedifrago, un piccolo imprenditore avvezzo allo sfruttamento schiavistico e giovinette di buona famiglia devote a una trasgressione confortevole.
Entro un mondo siffatto, descritto con il gusto per l’iperbole e tramite un metaforismo insistito, di tono basso, anche disgustoso, sale però alla ribalta la coppia amorosa costituita da Rino e Cristiano Zena. Padre di scarsa occupazione lui, trentaseienne, single, di fede naziskin; figlio adolescente l’altro, ciecamente legato al genitore e disposto a tutto pur di preservarne l’onore.
Ammaniti sembra compiacersi nell’allineare contenuti che contrastano vistosamente con un assennato tirocinio educativo. L’ammaestramento di Cristiano corre all’insegna del razzismo xenofobo, dell’orgoglio ribelle, di una familiarità diuturna con la violenza e la sopraffazione. Il ragazzo accusa una commozione profonda al ricordo del proprio cane straziato dalle ruote di un camion, ma non ha ancora tredici anni quando il padre gli mette in mano una pistola per liquidare nottetempo il lupo molesto dei vicini. Un affetto disperato, esclusivista e nascostamente eslege vige tra i due, a tinteggiare il quale intervengono non di rado gli stilemi consueti del pulp e del noir. Al solo pensiero che i tribunali possano privarlo della paternità su Cristiano, per indigenza o condotta disordinata, Rino smarrisce a un tratto la linea dell’orizzonte e ogni ostentazione virilista, quasi che «un vortice di terrore lo avesse risucchiato nella tenebra».
E in questo quadro di fragilità emotive e di impulsi prevaricanti che si annida il sentimentalismo melodrammatico concepito da Ammaniti: un sentimentalismo arcaico, se vogliamo, estraneo o precedente ai dettami di una polis evoluta, ma non perciò meno diffuso. Il personaggio maggiore cui il romanziere mette mano, Rino, appare sì come un imbarazzante campione di misoginia e altre virtù incivili; tuttavia in obbedienza a un mannello di valori malsani è pur capace di proteggere gli emarginati, di rifiutare l’aborto, la droga; e, lui stesso ai margini, di levare alta la propria protesta contro un mondo involgarito («Non avevano più rispetto per niente in quel cesso di televisione»). Il lettore, scosso da un simile disordine, non può che restare intrigato dall’affidamento estremo e reciproco esibito dalla coppia Rino-Cristiano. Anche perché al fondo di tanta dedizione, spiega il padre, sta un credo impavido e fiduciosamente cristiano:
 
Semplice: io non ho paura di morire. Solo chi ha paura muore facendo stronzate come camminare su un ponte. Se a te di morire non te ne frega niente puoi stare tranquillo che non cadi. La morte se la piglia con i paurosi. E poi io non posso morire. Almeno fino a quando lo deciderà il Signore. Non ti preoccupare, il Signore non vuole che ti lascio solo. Io e te siamo una cosa sola. Io ho te e tu hai me. Non c’è nessun altro. E quindi Dio non ci dividerà mai.
Mentre in altro luogo il figlio, con analogo trasporto amoroso:
Tutta la rabbia che Cristiano aveva dentro si sciolse come la neve che era caduta quella notte. Ed ebbe una voglia terribile di abbracciare suo padre, ma disse solo con un groppo in gola: «Io non ti tradirò mai. Tu mi devi credere, papà, quando ti dico le cose».
Dinnanzi a un fraseggio tanto atipico e struggente, romanzi come Un giorno perfetto e Nessuno si salva da solo sembrano ricondurre le dinamiche familiari verso esiti di ordinario dissolvimento e di cronachistica follia. Tra i due, è certamente il primo a distendere la tela maggiore: personaggi più numerosi, intreccio plurimo di destini, varietà d’ambienti. Ma anche qui, a campeggiare incontrastato è un dato patetico e psicologico di ordine brutalmente regressivo. Abbandonato dalla moglie, e single da oltre due anni, il poliziotto Angelo Buonocore, quarantaduenne, caposcorta di un politico romano, non trova altra via che ripristinare il già noto, anche a costo di scatenare una violenza omicida che travolge infine i figli adolescenti e se stesso: «Voglio stare dove sono già stato – immagina di dire all’amata di un tempo -. L’unica novità che cerco: tornare con te»; «Il futuro sarà come il passato, tutto sarà di nuovo in ordine».
Non già che il personaggio concepito dalla Mazzucco si attenga a un impulso uniforme, monolitico nel suo esito atrocemente distruttivo e autodistruttivo. Preda di un rimpianto senza fine, Angelo sembra almeno in parte consapevole del rischio a cui si espone, lo suggeriscono alcune preci metaforicamente stinte: «Oh Signore, aiutami a dimenticare tutto questo, a dimenticare lei, i bambini, la casa. Aiutami a svegliarmi domani senza questa nostalgia andata a male come un gelato scaduto». Il suo è tuttavia un rovello prevedibile, dal decorso ovvio, che il prologo d’opera lascia d’altronde intuire.
 
In Un giorno perfetto tutto cospira all’acme finale, di tono sanguinario, stragistico. Ma non prima che il lettore abbia assaporato a lungo i turbamenti e le buie sollecitazioni passionali che giacciono nell’animo del personaggio preminente. Poco c’è da fidarsi, invero, degli intenti progettuali dichiarati in nota dalla Mazzucco, risoluta a «scrivere con verità la sconosciuta filologia della vita quotidiana». E il vortice dei sentimenti, non l’analisi motivazionale, a prevalere nel romanzo; o meglio ancora: è il melodramma, sia pure cupo e funesto, che prende campo sul tragicismo cruento del congedo.
In questo senso, maggiore nitidezza e coesione documenta il lavoro della Mazzantini. Qui l’affresco noir metropolitano è ridotto abilmente a duetto postconiugale, di ambientazione sempre romanesca ma più dettagliatamente borghese. A dividersi le battute aggressive, le memorie di una felicità sepolta, le frustrazioni e le consuetudini erotiche di un tempo sono Gaetano e Delia: l’uno, sceneggiatore di bassa forza («all’epoca […] non sapeva che avrebbe finito per sbattere le corna in tv a pisciare scalette»); l’altra, exanoressica, divenuta con gli anni una stimata nutrizionista (new-ager, orientaleggiante); accanto a loro i figli, Nico e Cosmo, scompartiti tra i genitori per affinità elettive. Un ritratto di famiglia debitamente pessimista, insomma, entro il quale però la nostalgia d’amore prevale di un buon tratto sulle diagnosi di fallimento sentimentale.
La Mazzantini fa di tutto per rendere più mediocre e più remoto l’antico fondamento d’affetti. L’impiego di un greve turpiloquio a base di merda, culo, cazzo, cacca, bordello, inculati, sputtanare ha da testimoniare nella mente e nelle parole degli odierni separati il senso di un indecoroso disincanto. Ma in sostanza non è che l’osceno contrappunto di una linea tradizionalmente lirica ed effusiva, sulla quale si dispongono martellamenti anaforici, metonimie, costrutti sinestetici e metafore struggentemente goffe del tipo: «Le ciglia sembravano bisonti che correvano e poi si fermavano a bere nei suoi occhi». E col rinforzo, se del caso, di un finale diversamente mèlo, rappresentato dal vecchio malato di cancro che, involontario testimone del conflitto di coppia, si congeda dagli astanti invocando il loro sostegno solidale: «Pregate per me».
Davvero Nessuno si salva da solo non ci va leggero col patetico; indugia a lungo sul disamore per riaffermare l’imprescindibilità di un sentimento condiviso; sconsacra il ménage a due per celebrarne i fasti possibili. Nulla di nuovo, nulla di male. Va d’altronde riconosciuto alla scrittrice romana un tocco di felicità espressiva, particolarmente da individuarsi sul terreno sintattico; là dove primeggia la brevità, la brachilogia, e dove un indiretto libero frazionatissimo tende a farsi salmodiante, secondo cadenze alterne e quasi a rinfaccio:
 
Hai ragione. Sai di avere ragione. Anche lei sa di aver ragione.
Invece non c’è più nessuna ragione.
Anche i bambini sanno di non essere una buona ragione.
 
In realtà più di un tratto architettonico accomuna i lavori di Ammaniti, Mazzucco, Mazzantini. Il patetico, in ciascun membro della triade, muove da una macrostruttura narrativa a carattere concentrato: Come dio comanda si svolge in sei giorni; annovera un Prologo, un Prima e un Dopo; lasciando al centro, come spesso in Ammaniti, la megascena apocalittica, in cui tutto o quasi si compie («quella notte sembrava che fosse arrivata la fine del mondo»). Un giorno perfetto, dal canto suo, dispone ventiquattro capitoli per ciascuna ora e poi li raggruppa in quattro parti: Notte, Mattina, Pomeriggio, Sera. La Mazzantini riduce ulteriormente la rappresentazione allo spazio di un incontro al ristorante, da cui si irradia una sorta di pulviscolo memoriale insieme ripartito e convissuto.
Data questa mossa prioritaria, è vero che Ammaniti e Mazzucco insistono sul montaggio alternato, conferendo al resoconto il senso di un’ariosità prismatica e policentrica. Ma tutti e tre fanno perno su artifici anche esasperanti di amplificazione e rallentamento; basano cioè i rispettivi romanzi su focalizzazioni interne, spesso di tenore psicologico, e su azioni o microazioni da ribalta teatrale. Il melodrammatico dei nostri anni trova una più chiara espressione qui: in una voce narrante scarsa, quasi snervata, cui fanno da corredo la pausa descrittiva e la mimesi scenica. In altre parole, la ricerca di un’unità ristretta, pochi giorni, un giorno, un singolo evento focale, favorisce il pathos anziché l’epos, agevola l’urto plateale dei sentimenti piuttosto che la storia quanto si voglia conturbata di un amore. E a queste latitudini davvero emblematico sembra proprio il romanzo della Mazzantini, che a un frastagliato monologare assomma un tempo presente e una minuziosità di gesti in cui resta tracciato sia pure alla brava uno stato d’animo: «Gae tira su un sorso di vino. La conosce, ha bisogno di essere squassata nel profondo. La vacuità del benessere l’annoia, la spegne».