Quel babbeo di David Copperfield

Difficile formarsi, se si è già perfettamente maturi sin da piccoli. Difficile essere realisti, se il reale è solo apparenza oscena. Pratiche letterarie di questo tipo sono contrastate in particolare dalla non fiction di formazione «meticcia» Timira, e dai personaggi falliti di Davide Orecchio, narratore controfattuale. Da qui un interrogativo: è ai limiti della finzionalità che si collocano – oggi in Italia – le crescite letterarie più convincenti (ed emozionanti)?
 
Una cosa è assai probabile. A Babi e Step, e ai giovani protagonisti di Acciaio, personaggi come Wilhelm Meister e David Copperfield, ma direi anche come Julien Sorel, devono sembrare degli sfigati. Che noia quel Guglielmo! Non gli capita mai nulla di eccitante, e alla fine si accontenta di così poco… E poi avete presente gli errori che Copperfield ripete per centinaia di pagine, continuando a non capire fino a che punto lo stanno minchionando, quanto patetici sono gli adulti che lo circondano e quali erano le tipe con cui avrebbe potuto concludere subito senza troppi problemi, al primo appuntamento? E quel Sorel lì, che bisogno c’è di farsi tante storie per la Storia: per una storia di politica, intanto, e per una storia poi anche di donne, oltretutto con una vecchia? La realtà – lo capissero una buona volta – ce l’abbiamo tutta davanti fin dall’inizio, non c’è possibilità di cambiarla, e i torti si fanno o si patiscono, non se ne esce, come diceva quell’altro che ci han fatto studiare a scuola: che però non era d’accordo con il concetto, e infatti gli è andata malissimo. Le avete ben viste le Twin Towers: un altro mondo è impossibile. Godetevi quello che avete, a spalle dritte e con gli abiti giusti.
Nell’eterocosmo, nel mondo possibile dei personaggi letterari, i ragazzi in crescita dell’ipereccitata (ma soprattutto – come vedremo – eccitante) narrativa sui giovani dei nostri tempi vivono in uno spazio nettamente separato da quello dei confratelli di più antica tradizione, se non altro perché denunciano una sicurezza di valori personali e pubblici che li rende estranei alla possibilità di maturare o di trasformarsi davvero. E forse non c’è bisogno di insistere troppo su un simile concetto, che rischierebbe di portarci alle soglie di sociologismi dilettantistici, anche se, probabilmente, non del tutto inutili. Diciamo: quando è cominciata la scollatura mondo adulto/mondo giovanile che oggi spinge sempre più spesso gli autori di fiction a puntare sulla figura del puer senex, del giovane che non matura perché i valori si (ap)prendono qui-e-ora in blocco, senza bisogno di incertezze, inutili rovelli, filosofemi? (Del resto, come ci ha insegnato Curtius, al bambino dalle fattezze dell’adulto nella tradizione occidentale si accompagna l’immagine del vecchio rimasto giovane: che però nel sistema odierno implica sempre qualcosa di ridicolo o di insopportabilmente patetico, declinandosi nelle forme di padri bavosi e/o velleitari, e di madri in disarmo e/o portatrici di ideologie defunte…) O forse, più esattamente: chi, quale (bio)potere ci sta suggerendo che è meglio rassegnarsi a un’esistenza in cui l’unico possibile cambiamento è quello fisiologico, e che dei bei pettorali o un bel culo sono l’unico lasciapassare per la vita? In definitiva: perché noi lettori dovremmo appassionarci a una realtà di quel genere, tanto diversa da quella in cui realmente viviamo? Qui infatti – almeno dove sto io – tanti dispositivi simbolici mi convincono invece della straordinaria fluidità, liquidità dei confini: e che – poniamo – anche gli esseri decrepiti maturano, non solo negli ambienti virtuali, e che la trasformazione «seria» del giovane può confrontarsi con l’«irresponsabilità» dei padri, magari riscattandola. E via ibridando.
Proviamo dunque a limitarci allo specifico letterario, come suol dirsi. E parliamo di tecniche. In un romanzo come Acciaio (ma qualcosa del genere si può cogliere nelle opere di Giorgio Faletti, Fabio Volo, e in parte anche in quelle di Federico Moccia; Saviano richiederebbe un discorso a sé, ma ha molto a che fare con la questione), quel tutto qui-e-ora ha una notevolissima corrispondenza rappresentativa, e quasi automaticamente si traduce in forme. Cioè: siamo di fronte a qualcosa di più di un autore onnisciente, al punto che potremmo chiamarlo onniemotivo (onnipatetico) perché la sua è una strategia al rialzo coattivo della temperatura passionale. Come spesso accade nelle migliori serie tv americane soprattutto di azione, quel vero e proprio meganarratore che parla nel romanzo di Avallone si colloca ovunque. Ha una posizione debolmente omodiegetica (nei luoghi che racconta c’è stato e ha conosciuto i personaggi), ma è in grado di vedere quel che più gli aggrada, interpretando i più profondi pensieri dei suoi eroi (di fatto, quasi tutti coloro che hanno un minimo peso narrativo godono di questo diritto: e che a fare eccezione sia una portatrice di handicap, credo non abbia bisogno di commenti); soprattutto, restituisce volta per volta l’ottica, il filtro percettivo, l’angolatura ideologica in grado di tenere alto il tono emotivo della storia. Se ci sono da vedere dei bei muscoli, dei begli attributi, che li si inquadri bene e in chiara luce, se bisogna indagare sulla mente di un depravato o di una frustrata, per favore si esaurisca il discorso apertis verbis, e se uno resta spappolato sotto un caterpillar, si dica almeno due volte quanto è irriconoscibile e informe ciò che resta di lui. E così via. Si potrebbe parlare di un melodramma dello sguardo. Essendo il mèlo nel mondo occidentale quell’istanza che teatralizza tutto, anche ciò che non si dovrebbe percepire, che ci rassicura intorno al fatto che non esiste l’ineffabile poiché ogni evento è traducibile in parole, e in quanto tale è risolvibile, se solo si avesse la pazienza di mettersi d’accordo. Che poi è l’impressione in fondo rassicurante che provo quando a distanza di anni mi ritrovo davanti a spezzoni o a puntate intere di Beautiful’, il mondo è difficile, certo, tutti litigano, tutti tradiscono; ma con un po’ di buona volontà, suvvia… Appunto: lo spazio simbolico del melodramma è per definizione senza inconscio.
Non per caso, fenomeni del genere sono riscontrabili anche in romanzi (in senso lato di formazione) di natura – non sto dicendo: di qualità – molto diversa da quelli appena ricordati. Così, la strana autofiction realizzata in un’opera come La cospirazione delle colombe di Vincenzo Latronico (Bompiani, 2011) implica un narratore interno capace di gestire competenze (macro)economiche e finanziarie stupefacenti, e insieme di monitorare aspetti dell’altrui interiorità apparentemente inaccessibili. E, sulla stessa linea di un promettente filone di «romanzo di (de)formazione accademica», il Filippo D’Angelo autore della Fine dell’altro mondo (minimum fax, 2012) filtra i fatti del G8 genovese attraverso la percezione di un aspirante ricercatore universitario di francesistica, che aveva subito capito tutto, e – sebbene nerd e depoliticizzato – sotto gli occhi del lettore spiattella un’analisi ineccepibile degli eventi in corso di svolgimento. Per esempio:
Ludovico stentò a crederci: in caso di scontri, veniva chiesto ai manifestanti di farsi ordinatamente massacrare dai poliziotti appostati alle loro spalle. L’ineluttabilità del conflitto fisico non gli pareva doversi spingere a tanto. […] L’unico esito possibile del confronto era lo scoppio liberatorio di violenza.
Non solo. Curiosamente, ma non contraddittoriamente, è possibile puntare su un procedimento opposto, ma altrettanto effettistico (in definitiva anticlassico). Penso ad Aldo Nove che nella sua autofiction La vita oscena (Einaudi, 2010) viceversa compie una restrizione di campo, e si limita a dire della propria vita solo quel tanto di zozzo e impresentabile che può eccitare il lettore, resecando con grande abilità sia tutte le tracce dell’Antonio Centanin intellettuale in formazione, sia la possibilità offerta a tutti i soggetti narranti di razionalizzare i propri errori, nel presente della narrazione. Se si tratta di épater il lettore, di giocare con la pruderie di massa, di paternizzare il testo, ecco pronto un sé osceno privo di contesto e di giustificazioni, da esibire nell’arida meccanica di eventi – interni o esterni indifferentemente – che l’hanno separato dall’io.
Certo. E nell’anno 2011 uno splendido libro di critica come Sema trauma di Daniele Giglioli (Quodlibet) ci ha insegnato a capire, meglio di quanto non lo avessimo fatto in passato, la differenza che corre tra realtà e reale (in senso lacaniano): la differenza, a dirla alla maniera di Lukàcs, fra la strategia che coglie le tipicità della Storia, e quella che il mondo solo descrive cedendo alle veneri dei fenomeni irrelati (anche se variamente gustosi, efficacemente spettacolarizzati). Non per caso, forse, entro la galassia del New Italian Epic già da tempo si è imposta una forma di racconto tutto a picchi, cliffhangers, ganci e agganci emotivi, spesso favorito da uno stile contratto e nominale, pausatissimo, che appunto mira a ottenere la massima attenzione del lettore con un massimo di sottolineature enfatiche, in climax. Così, per esempio, nel pur (mediamente) composto Lucarelli, alla fine di un capitolo si ottiene l’effetto di stigmatizzare un serial killer e di scaldare fino al calor bianco l’interesse del lettore (cito Ottava vibrazione, Einaudi, 2008):
 
C’era stato un bambino quasi decapitato a Marradi, l’anno prima, e una bambina a Prato, aperta in due dal collo alla pancia, pochi mesi dopo. E adesso anche questo, a San Frediano. La sua idea era giusta.
Un assassino di bambini.
Che fosse un ufficiale dell’esercito, però, se ne era convinto soltanto dopo.
Un ufficiale dell’esercito. Un maggiore.
 
Ora – ed è questo il punto a mio avviso decisivo – è curioso osservare che un romanzo (in senso lato) di formazione tra i più interessanti usciti nel 2012, vale a dire Timira. Romanzo meticcio di Wu Ming 2 e Antar Mohamed (Einaudi), racconta una vicenda personale, reale e drammaticissima, senza indulgere a questi artifici. Strano: la bellissima meticcia Isabella Marincola, italiana ma di madre somala, sorella di un martire partigiano, attrice cinematografica con De Santis, fuori posto in tutti i luoghi in cui ha vissuto (Italia e Somalia indifferentemente), ma borghesemente educata in un liceo classico e insegnante anche di italiano e latino, sembra essere l’epitome dell’avventurosità, il sintomo facile da denunciare di un sistema di ingiustizie che solo una donna nera può subire nel contesto dell’ipocrita post-colonialismo italiano. Al contrario, gli autori di Timira, anche a costo di essere noiosi, puntano sulla normalità, addirittura sui difetti della protagonista (beona, moglie infedele, madre poco responsabile, capricciosa…) in qualche modo frustrando le nostre attese di belle vicende. Quella vecchia con dentiera, obesa e infantile, capace di litigare con tutti, non ci emoziona direttamente (questo semmai lo fa la storia di suo fratello così come è stata «epicamente» raccontata da Wu Ming 4 nel reading-concerto Razza partigiana, più volte messo in scena dal 2009 in poi). La maturazione accidentata di Isabella, le sue non sempre nobili trasformazioni, devono semmai indurci a una risposta più storica che estetica, a un investimento di conoscenza, a un’indagine su che cosa l’Italia ha veramente (non) fatto per uscire dal colonialismo e su perché ancora oggi si ostina a gettar sale sulle ferite aperte di quella storia. In definitiva, l’imperfezione letteraria di Timira, il suo ibridismo spesso irrisolto hanno la funzione di ricordarci quanto siamo impotenti – specie se mossi da istinti «sinceramente democratici» – davanti alle impasses del postcolonialismo, quanto difficile sia percorrere una diversa storia. Le conseguenze letterarie possono essere curiose. Per esempio, Igiaba Scego, un’altra somala che nella Mia casa è dove sono (Rizzoli, 2010) racconta la propria Bildung italiana, segnala il tifo calcistico come una delle poche occasioni in cui un’identità condivisa le ha permesso di sentirsi a proprio agio nell’Italia dei troppi razzismi. Una ragazzina nera con la sciarpa giallorossa della Roma, le domeniche allo stadio, la «fede» nella propria squadra, le imprese di Rudi Voller: un individuo qualsiasi in una folla qualsiasi…
Analogamente, le individualità finto-vere (racconti finzionali di personaggi storicamente reali: l’ultimo è addirittura Wilhelm von Humboldt) narrate da Davide Orecchio in Città distrutte (Gaffi, 2012) sono manipolate letterariamente entro una strategia espressiva che mima con la massima efficacia la razionalità dell’argomentare storico. Ci sono anche le fonti bibliografiche, le note, i conflitti delle interpretazioni. L’esito è raggelante, le emozioni che proviamo (intense, nondimeno) sono di natura solo disforica. Trame di vite che non possono non fallire, crescite esistenziali che si sgonfiano nel nulla, tempi segnati dalla necessità che infine collassano: l’inquietudine che le biografie di Orecchio comunicano addita una direzione di ricerca che – certo – non è ancora chiara. Sfigurare (finzionalizzare) la realtà con un metodo che si vuole obiettivo forse assomiglia alla sciarpa della Roma vestita da una negretta somala: un metodo tortuoso, assolutamente improbabile, per risolvere un problema fin troppo evidente. Faute de mieux, tuttavia, proviamoci.