Il fuoco dei sentimenti

Nel dittico Il fuoco amico dei ricordi Alessandro Piperno costruisce un romanzo popolare ambientato nel mondo dell’alta borghesia romana. Persecuzione e Inseparabili raccontano la storia di una famiglia in crisi in una narrazione che lascia il lettore in bilico tra due sentimenti contrastanti: l’empatia verso i protagonisti e la voglia di prendere le distanze dal loro sgradevole sistema di valori.
 
Il dittico mondadoriano di Alessandro Piperno Il fuoco amico dei ricordi (Persecuzione, uscito nel 2010, e Inseparabili, del 2012, Premio Strega) è un romanzo psicologico e sociologico, un ritratto di usi, costumi e mentalità della comunità ebraica di Roma disegnato a partire dalle vicende che riguardano la famiglia Pontecorvo, genitori (Leo, Rachel) e figli (Filippo, Samuel). Siamo nell’ambito di una letteratura istituzionale che si legge molto volentieri, giocata com’è su modelli di qualità, alti e bassi. La vicenda – persecuzione e condanna a morte di un innocente – è quella di Josef K, ma anche la definizione di Leo come il «nostro povero scarafaggio» che «aveva sollevato i suoi cari dal peso di un’importuna presenza, come il cauto e pudico Gregor Samsa» richiama Kafka. Invece, il nome del protagonista, la tematica erotica (con relative allusioni incestuose), la Roma borghese e la villa ricalcano Gli indifferenti (ma le donne dai capelli rossi di Piperno ricordano 1934). Come in ogni buon feuilleton il taglio di molti paragrafi sollecita la suspense – perché «un romanzo» deve essere «una storia che tiene» –, e se Il Conte di Montecristo è citato più di una volta, la condizione dell’eroe, relegato nelle segrete della casa, potrebbe piuttosto alludere alla Sepolta viva di Carolina Invernizio.
Come in ogni romanzo popolare che si rispetti la trama è ricca di colpi di scena imprevedibili, ben distribuiti lungo la storia che procede scandita da frequenti flashback, ma la sostanza del racconto consiste nell’analisi approfondita – caratteriale, psicologica e motivazionale – cui sono sottoposti i personaggi, esponenti di un mondo «privilegiato, asfittico, feroce». Il romanzo infatti mette a fuoco e critica «roba di famiglia», perché «certi rapporti morbosi erano concepibili solo tra consanguinei». A dominare sono stati d’animo, sensazioni e sentimenti forti e tutti «negativi» – paura, spavento e terrore; angoscia, vergogna e rancore; vigliaccheria, invidia e diffidenza -, fra i quali dominano l’odio, la sete di vendetta e il senso di colpa, accompagnati da un oltranzistico cinismo.
Per ricondurre il resoconto avventuroso all’analisi dell’interiorità e viceversa, Piperno realizza un narratore particolarmente duttile, interno al mondo della storia («almeno, parlo degli impotenti che conosco io»). Anzitutto, chi racconta si presenta in forma impersonale e onnisciente – «occorre spiegare che» -, salvo ben presto adottare anche la prima persona singolare: «se volessi essere capzioso». Fra questi due estremi ecco l’utilizzo immedesimativo del «noi» (Leo è definito il «nostro uomo», «il nostro recluso»), ma anche del «voi», che tende invece a distanziare voce narrante e lettore («la soluzione del dilemma, come avrete già facilmente evinto»). Un lettore valorizzato in molte incidentali, spesso chiuse fra parentesi in un fuori scena ritagliato nel racconto che lo chiama in causa all’improvviso: «(Vedete? Ogni volta che Leo Pontecorvo si trovava in queste imprese iniziava a pensare al mondo in terza persona plurale. Il mondo intero diventava un generico “loro” desideroso di fargli del male, metterlo in difficoltà, incastrarlo)». Questa varietà di impostazioni può manifestarsi in un’unica frase, come in questo coinvolgente «giro di voce» egli-tu-noi: «lui, in coscienza, sentiva in sé la scandalosa motivazione che ti spinge a generare? […] Che Dio ce ne scampi». Oppure nel passaggio voi-tu, che tende piuttosto a sottolineare le distanze: «vedete? Neanche una parola spesa sulla ragazzina […] quando puoi sdilinquirti sul tuo meraviglioso ragazzo».
Volendo attrarre nell’universo romanzesco il destinatario, chi racconta non solo dialoga con lui assimilando l’esperienza del lettore alla propria e a quella dei personaggi, ma si rivolge anche a loro, ai protagonisti, di cui peraltro adotta spesso il punto di vista e a cui cede la parola grazie a un abbondante uso dell’indiretto libero. «Lo so che non è facile. Non lo fate da troppo tempo. Anzi, a ben pensarci lo avete fatto talmente poche volte che ti sembra di ricordarle tutte» osserva il narratore a proposito dell’impotenza di Samuel, interpellato direttamente con fare paternalistico: «ragazzo mio». Ancora, eccolo ragionare a tu per tu con Filippo, il fratello maggiore di Samuel: «ti crogioli nell’inconcludenza […]. Poi, appena ti dai un po’ da fare […]. E comunque non ti meriti tutto questo meno di quanto se lo meritino persone che se la tirano assai più di te!». Ma chi racconta dialoga anche con Leo, ormai defunto – «perché lasciarti massacrare? Perché permettere che la tua famiglia vada a picco con te?»; e se la prende con i suoi tre famigliari: «perché è con voi che ce l’ho. Toc, toc, mi sentite? Proprio con voi: i tre immacolati e intransigenti abitanti del piano di sopra». E pure in questi discorsi – le parole sono ora rivolte alla madre – viene chiamato in causa il lettore: «insomma, via, Rachel, dicci cosa non ti va a genio di questa Camilla».
Il camaleontismo dell’io narrante trova la sua nota di fondo in una movenza parlata, in un raccontare «ad alta voce» d’intonazione colloquiale – «tanto per capirci» – e persino confidenziale: «e, ragazzi, parliamo di Cannes!». L’uso del «tu» assolve anche a questa funzione, come modalità tipica del discorso orale – «se avevi dodici anni nel 1985, se eri un ragazzo carino, educato» –, e infatti chi racconta usa sempre verba dicendi: «dicevo», «e c’è da dire che […] anzi direi che». Ma parlare ad alta voce permette anche una notevole libertà argomentativa, e infatti la storia e l’analisi psicologica si alternano in proporzioni molto variabili, con una concatenazione ritmata di approfondimenti e digressioni su entrambi i piani: si va dal breve aneddoto narrativo all’episodio strutturato, dall’interpretazione analitica dei comportamenti e delle attitudini alle rapide illazioni scaturite da singoli gesti, alla descrizione degli accessi sentimentali.
Naturalmente, un narratore come questo tende a esporsi. Se quando riprende il filo della storia – «ma torniamo a Rachel e alla paura» – emerge solo un’anonima prima persona, le frequentissime valutazioni metadiscorsive esprimono invece qualcosa di più circa la fisionomia di chi racconta e i suoi gusti: «mi rendo conto che dirlo suoni corrivo». È una personalità che con il procedere del romanzo si rivela sempre di più, con un atteggiamento disponibile e aperto: all’affermazione lapidaria «e quando dico mai è mai», ecco subito seguire una smentita: «anzi, ripensandoci». Questa franchezza nel dichiarare mutamenti d’opinione e intenzioni argomentative – «amerei dirvi […] Vorrei dirvi… Ma detesto dirvi sciocchezze. La verità […]» – ha però soprattutto una funzione retorica, perché nasconde il tratto caratteristico dell’io narrante, rendendolo più accettabile. Il punto è che chi racconta in realtà non ha dubbi, proprio in quanto dispone della verità: «la verità è che»; «la bruta verità (ce n’è sempre una sullo sfondo) è che». Discende da qui l’autorevolezza che gli permette di dispensare massime e di proferire affermazioni lapidarie, ma anche di giudicare impietosamente i personaggi – Leo è un «poveruomo», un «citrullo», «il nostro coglioncello» –, verso i quali non di rado l’atteggiamento di chi racconta è a dir poco astioso e inquisitorio.
Ci si potrebbe ora chiedere su cosa si basi la conoscenza dei fatti – la «verità» – così ostentata, e insomma chi sia colui che racconta. Su questo piano i due volumi sembrano differenziarsi. All’inizio di Persecuzione il narratore dichiara di aver «conosciuto Leo Pontecorvo abbastanza bene», ma il suo assoluto dominio della vicenda e delle dinamiche psicologiche di tutti i personaggi coinvolti nella storia non ne fa un semplice testimone, per quanto tanti indizi lo accreditino come molto vicino alla famiglia: «dopo il film si andava a mangiare sempre nello stesso posto». In realtà, le affermazioni più utili per individuare l’identità dell’io narrante e la fonte del suo sapere sono altre, quelle in cui emerge la sua vicinanza non ai personaggi, ma all’autore. In molti passi chi racconta si presenta infatti propriamente come scrittore, per esempio quando si riferisce al «dialogo che sto per trascrivere», alla «frase da me qui riportata in maiuscolo» o quando propone al lettore un intervento sul testo: «togli una “elle”, sposta una “i” e cambia tutto». E se è «da autore» riferirsi ai documenti esibiti nel romanzo – «la foto che riproduco implacabilmente» o «l’esemplare [di lettera] che ho riportato poche righe più su» -, richiamare una «questione di coerenza narrativa» vuol dire interpretare la parte di chi gestisce l’inventio. Un ruolo esibito anche in Inseparabili – la luce diurna «sembra ancora intrecciata con i fili dorati dell’alba (o, se preferite, del tramonto)» -, dove prevale però la conoscenza diretta dei fatti – «per fortuna ci sono io, che di questa storia conosco ogni particolare». Una competenza che alla fine si spiega: «è ora di togliersi la maschera, di mandare in pensione la parodia di questo narratore onnisciente. E tempo di dirvi ciò che forse alcuni di voi avranno già intuito […]. Sono l’impotente, il fallito, l’impostore. E, vi assicuro, parlare di me, di Samuel Pontecorvo, in terza persona per così tante pagine è stato meno imbarazzante che dover, a questo punto, rivelare la mia identità». Così, se nella prima parte del dittico il narratore ha un atteggiamento verso i Pontecorvo simile a quello dichiarato da Piperno, che si rispecchia in lui – «per me conta molto scrivere in una specie di stato d’animo vicino al risentimento. Devo avere di fronte qualcosa da odiare» -, nella seconda puntata a prendere la parola è uno degli alter ego dell’autore, perché Filippo e Samuel «sono le due parti della mia personalità».
Nel Fuoco amico dei ricordi la rappresentazione a forti tinte dei sentimenti – del «fuoco del sentimento» – è condotta con enfasi e in modo coinvolgente tramite una doppia strategia, analogica e oppositiva, sia sul piano espressivo, sia narrativo, dove il frequente uso del presente storico conferisce evidenza al racconto. La figura di gran lunga più utilizzata per organizzare il discorso rendendolo scandito e dunque facilmente dominabile è l’anafora – fra le più estese, la ripetizione per ben nove volte della congiunzione avversativa «invece» all’interno della stessa frase, e di «forse» a scandirne un’altra con sei occorrenze. Ma anche le domande retoriche ritornano spesso, con analoga funzione di dominio preventivo dei significati. Quanto alla storia e ai personaggi, le corrispondenze sono numerosissime, di varia portata: a richiamarsi sono episodi (l’esperienza giovanile di Leo a Parigi è replicata a Londra da Semi), ruoli (Rachel «svolge nella vita di Leo una funzione non troppo dissimile da quella svolta a suo tempo dalla vecchia signora Pontecorvo») e soprattutto attitudini e tratti caratteriali: come Leo, Filippo è ipocondriaco, irresoluto, ma anche eloquente (entrambi affascinano le platee dell’università) e dotato dello «spirito organizzativo ereditato dal padre». Se Filippo si innamora di Elodie, che girando il mondo per curare i bambini malati svolge una professione simile a quella di Leo, oncologo pediatrico (e pediatra è stato suo padre), la moglie di Semi assomiglia a Rachel, la madre. D’altronde, il dittico si chiude con una palese ripresa del motivo centrale del libro: i nipotini di Semi si dichiarano, proprio come il padre e lo zio, in separabili. E il vezzo di parlare in terza persona di sé il narratore-Samuel l’ha preso dal padre, a suo volta emulo del genitore: «Leo aveva mediato l’abitudine di parlare di se stesso ai figli in terza persona da suo padre».
Molte somiglianze, ma anche evidenti differenze: a scuola Semi eccelle mentre Filippo è un disastro; manifestando atteggiamenti bulimici sposerà Anna – «l’esatto opposto di Elodie» -, un’ex anoressica. Dal gusto nell’abbigliamento (quanto Semi è curato ed elegante tanto Filippo studiatamente trasandato) alle propensioni erotiche – il fratello minore è sessualmente compulsivo, il maggiore impotente – i due interpretano ruoli antitetici, e in effetti «niente descriveva meglio la difformità emotiva dei fratelli Pontecorvo del fatto che il primogenito avesse bisogno di tirarsi su con gli antidepressivi e il minore di calmarsi con gli ansiolitici».
«Eppure tutto quello che li divideva allora è proprio ciò che li unisce oggi»: a moltiplicare le corrispondenze per analogia o per differenza ecco che le relazioni possono essere anche bidirezionali, e così se Leo è pediatra e perciò cura i bambini, Rachel diventerà medico anche lei, ma geriatra.
Nel complesso, la fitta rete di riflessi tessuta allude a un universo chiuso e autoriferito: raccontata dall’interno – il narratore parla di «nostra tradizione» – la comunità «giudaico-romanesca» del Fuoco amico dei ricordi è claustrofobica, e le generazioni che si susseguono sono governate dalla ferrea legge dell’ereditarietà, sin nei dettagli: «calcolo statistico. Probabilità genetica. Darwin e tutte quelle altre cazzate. Ce l’ha mio padre, ce l’aveva mio nonno. Insomma, era probabile che anch’io…» riflette l’avvocato Herrera (avvocato come il padre) a proposito della sua erre moscia. Rachel è dotata di un «dizionario emotivo» ma anche di «un vocabolario genetico» e, deterministicamente, altro «non era che il prodotto di quanto le era stato inculcato». Così, vedendo i figli di Filippo e Rachel – identici ai genitori – Semi «comprese che quelle spettacolari somiglianze erano il solito tributo dei cromosomi a se stessi». E nel presentarsi come in separabili fratello e sorella chiudono il romanzo alludendo a un destino ineluttabile.
Al centro delle tensioni narrative che attraversano il dittico, enfatizzate dalla sceneggiatura drammatica e melodrammatica dei sentimenti, si trova il tema della virilità in crisi. O meglio, della crisi dei ruoli genitoriali, soprattutto di quello maschile. Sotto accusa, insomma, è la famiglia, assolutamente inadeguata soprattutto per responsabilità dei padri, serie di figure accomunate da precise debolezze: infantilismo regressivo, egocentrismo narcisistico, incapacità di emanciparsi dalla madre, «venerata mamma», che si riflette in un rapporto morboso con i figli. In tale quadro asfissiante non sembra esserci nulla da fare, e la disillusione che prova il lettore dipende anzitutto da questa amara constatazione. Ma la sensazione più profonda è un’altra, difficile da definire: Il fuoco amico dei ricordi è tanto appassionante quanto sgradevole. E una sensazione che scaturisce dal contrasto fra l’empatia prodotta dalle strategie di coinvolgimento emotivo e i valori di riferimento di questo mondo, che non possono non generare repulsione. D’altronde, come l’autore si specchia nella storia di Leo e dei suoi figli entrando addirittura a farne parte – «se scrivi con questo spirito incontri scarsa comprensione e poche simpatie», afferma Piperno -, così il lettore si sente chiamato in causa nei suoi sentimenti peggiori, e finisce per riconoscersi – almeno un po’ – in personaggi oggettivamente disprezzabili.