Derive della scrittura

Nonostante in ambito prevalentemente filosofico e sociologico l’immagine rappresenti l’unità semantica dei media di massa a scapito della parola, in verità fra immagine e testo non è in atto una guerra, bensì una tensione costruttiva. Anzi potremmo dire che oggi si assiste a un prepotente ritorno alla ribalta del linguaggio verbale, con nuove modalità di trasmissione: la messaggistica degli sms è stata infatti sostituita da WhatApp, Facebook Messenger, WeChat, forme di scrittura che però configurano una scrittura “orale” che non si salva, ma si sciupa e dissipa.
 
Siamo sicuri che quella fra parola e immagine si configuri come una guerra, destinata a concludersi con la sconfitta ineluttabile di una delle due parti e il trionfo dell’altra? Siamo sicuri, cioè, che la dimensione epistemologica della parola – prima solo parlata; poi, sempre di più, scritta – sia alternativa a quella dell’immagine, per non dire antagonista? Me lo chiedo, ogni volta che sono indotto a interrogarmi sui caratteri delle culture massmediali contemporanee, che qualcuno vorrebbe sottomesse alla dittatura dell’immagine e che viceversa mi sembrano concedere una clamorosa rivincita al linguaggio verbale, inteso in particolare come scrittura: quella scrittura «che crea il senso, consegnandolo, affidandolo a un’incisione, a un solco, a un rilievo, a una superficie che si vuole trasmissibile all’infinito» (secondo le parole di Jacques Derrida nella Scrittura e la differenza).
Di seguito proverò a sviluppare tre argomenti. Il primo è di tipo empirico: a dispetto di talune profezie massmediali più o meno recenti, è agevole constatare che l’immagine non ha scalzato il linguaggio verbale nella prassi comunicativa contemporanea. Se non la letteratura, per lo meno la scrittura gode di ottima salute nella nostra società. Il secondo argomento riguarda l’esistenza di una tensione costruttiva fra immagine e testo, che accompagna la storia della comunicazione e dei media. In questo scenario i linguaggi verbale, visivo e musicale tendono a collaborare più che a configgere; tendono, per meglio dire, a convergere verso un unico progetto di senso. In Pittura, linguaggio e tempo, Cesare Segre parla di «reciprocità» fra linguaggi e segni. Tale tensione si è accentuata a mio parere in seguito alla digitalizzazione dei media, ossia all’avvento di una modalità universale di processazione dei messaggi. Il terzo argomento, infine, si riferisce alla deriva di talune forme della scrittura contemporanea, nelle quali la funzione caratteristica di differimento temporale e disancoramento dal contesto tende a indebolirsi.
Parto dal primo dei tre punti. In ambito sociologico e filosofico è tuttora prevalente l’idea secondo la quale l’immagine – in forza della sua riproducibilità tecnica, affinatasi nel corso del Novecento – abbia finito per costituire l’unità semantica dei mezzi di comunicazione di massa. Ed è ancor più diffusa la convinzione che il processo di digitalizzazione dei contenuti abbia impresso una formidabile accelerazione a questa tendenza, determinando una pervasività dell’immagine nel mondo contemporaneo. Talché ci si è preoccupati molto, in questi anni, di definire i caratteri delle differenti culture visuali, ossia l’insieme dei fattori che condizionano e guidano l’interazione fra visualità, apparati e istituzioni. Penso, fra gli altri, al lavoro fondamentale di Nicholas Mirzoeff, compendiato nel suo Introduzione alla cultura visuale. Subiamo il bombardamento delle immagini e siamo indotti a ritenere che esse siano portatrici di una peculiare forma simbolica. In questo senso, proprio in riferimento alle immagini che affollano i canali di comunicazione digitali, si parla spesso di estetica dei nuovi media. Inoltre ci capita di intrattenere con le immagini elettroniche un rapporto bulimico: le ingeriamo senza sosta, animati da un’ossessione collettiva. Salvo poi verificare che tale diluvio visuale si associa a una perdita della capacità referenziale delle immagini stesse. Ci dobbiamo dunque collocare in un’era postfotografica? L’era dell’immagine ontologicamente infedele? Quella che Jean Baudrillard chiamerebbe immagine-simulacro? Siamo, in definitiva, accerchiati da immagini che non dicono alcunché, a parte se stesse?
Non lo credo. Intanto non mi pare che stiamo assistendo al tramonto del linguaggio verbale. Al contrario: la parola è tornata con prepotenza alla ribalta, segnatamente nella sua forma scritta. C’è stato un tempo in cui Benvenuto Terracini aveva buon gioco ad affermare che «l’uomo della strada parla tutti i giorni, ma scrive soltanto nelle grandi occasioni» (Conflitti di lingue e cultura). Oggi una simile considerazione andrebbe riformulata, poiché l’uomo della strada non fa altro che scrivere. L’espressione più evidente di questo cambiamento è rappresentata dall’esplosione della messaggistica istantanea. Agganciati al mondo per mezzo di dispositivi mobili, produciamo ogni giorno una quantità inaudita di frammenti testuali. Certo, la tecnologia degli sms – in auge per vent’anni, fino al 2012 – cede oggi il passo a nuove modalità trasmissive, abilitate da applicazioni come WhatsApp, Facebook Messenger, Viber e WeChat. Ma la sostanza non cambia: la messaggistica istantanea, privata o di gruppo, sembra essere la cifra fondamentale del nostro rapporto con il cellulare. Al punto da avere trasformato il telefono in una macchina per scrivere, molto più che per parlare. Secondo le stime di Informa, lo scorso anno nel mondo si sono scambiati 8mila miliardi di sms e 18mila miliardi di comunicazioni tramite WhatsApp. Questa frenesia si manifesta anche in Italia, ovviamente. Quest’anno nel nostro Paese saranno scambiati – fra sms e altre modalità – 71 miliardi di brevi messaggi.
Ma la stessa frenesia si estende ad altre forme di scrittura contemporanea, le quali si affermano nella Rete con una forza di propagazione inaudita, salvo poi essere scalzate da modalità ancora più nuove. C’è stata la stagione gloriosa dei blog, di cui a questo punto è difficile stabilire il numero esatto e l’effettiva operatività, ma che potrebbero aggirarsi oggi, a livello mondiale, fra i 100 e i 150 milioni. Ora c’è l’ossessione collettiva per i social network (solo su Facebook vengono pubblicati ogni mese 30 miliardi di contenuti). C’è Twitter (250 milioni di brevi messaggi al giorno). E continua a esserci la posta elettronica (50-100 miliardi di email al giorno, secondo le stime più attendibili).
Certo, si potrebbe obiettare che queste esperienze mediali si edificano sulle macerie di altre, basate sulla scrittura e assurte in passato al rango di generi o forme d’arte: la lettera, innanzi tutto.
Ma il punto più interessante – ed è il secondo dei tre argomenti che intendo qui affrontare – mi sembra un altro: si tratta in tutti i casi di scritture dallo statuto ibrido. Il linguaggio fonetico non viaggia solo, ma accompagnato da altro: simbolismi grafici (per esempio gli emoticon), suoni, immagini istantanee o in movimento. 130 milioni di messaggi pubblicati ogni mese dagli utenti di Facebook non sono solo testi, o non sono testi allo stato puro; sono – anche – collegamenti ipertestuali, fotografie, filmati, contributi sonori, calligrammi. Tutte cose che Facebook chiama “pezzi di contenuto” (pieces of content). Anche la messaggistica istantanea rispecchia questa varietà, soprattutto quando l’esperienza è consumata in mobilità. I giovanissimi utenti di WhatsApp, per esempio, sono soliti performare il proprio atto linguistico in forma orale, pronunciandolo al telefono e lasciando che l’applicazione inoltri il relativo file audio al destinatario. E spesso i dialoghi sono costituiti da un’alternanza di testi, immagini e suoni. Ma la stessa timeline di Twitter è un rumoroso susseguirsi di link, messaggi verbali, fotografie e filmati.
Tutto ciò sembra corrispondere al paradigma di quella che in Software culture Lev Manovich definisce la «cultura del software». Il linguaggio dei nuovi media comporta modularità, variabilità e transcodifica culturale, in quanto tutte le forme mediali condividono il medesimo codice digitale. Il fatto che, dal punto di vista del formato, non vi sia differenza fra un testo e un’immagine, alimenta la cultura della convergenza e della rimediazione. Al centro di tutto il computer, inteso come metamedium.
Tuttavia si rischia di porre fin troppa enfasi su ciò che di nuovo c’è nei nuovi media. Credo che si potrebbe ripercorrere tutta la loro storia e quella delle arti del XX secolo privilegiando una chiave di lettura in apparenza periferica, ma in effetti persistente e caratterizzante: quella della integrazione fra parola e immagine, o – più in generale – fra modalità espressive diverse. Si tratta di una corrente in parte sotterranea, ma sempre presente. In fondo già Ezra Pound, attento alle qualità sonore e plastiche della comunicazione verbale, nel Canto LXXXVI riconosceva che non può risolversi tutto in un solo linguaggio: «it can’t be all in one language». Una conclusione che avrebbe potuto sottoscrivere anche James Joyce. Il quale a propria volta subì la fascinazione del wagneriano Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale in cui convergono musica, drammaturgia, arti figurative, poesia e coreutica.
In questo filone colloco il «moi aussi je suis peintre» di Guillaume Apollinaire e i suoi Calligrammes. Ci leggo l’idea di una poesia che si appella agli occhi, che deve essere vista oltre che recitata; ma anche la consapevolezza di una cultura tipografica che conclude brillantemente la sua carriera e cede il passo al cinema o al fonografo. Penso ugualmente a Stéphane Mallarmé, o agli esperimenti poetico-tipografici dell’americano Edward Estlin Cummings. Per arrivare a tutte le forme di “poesia concreta”, in cui l’esperienza estetica è veicolata più (o anche) dagli attributi tipografici delle parole che dal loro valore semantico e fonetico. E il caso degli esponenti del Gruppo di Vienna: Hans Cari Artmann, Gerhard Ruhm e Konrad Bayer. E tralascio qui di parlare di due media – vorrei dire: due arti – che appartengono per definizione all’esperienza novecentesca, come il cinema e il fumetto.
Ma a ben vedere gli esercizi avanguardistici di poesia concreta sono riconducibili a modelli remoti e potrebbero trovare il loro archetipo nel carmen figuratum latino, per non dire in esempi ancora più antichi della letteratura greca, passando attraverso le strofe di Easter Wings o The Altar di George Herbert (in Thè Tempie, un’opera del 1633).
Il terzo argomento ha a che fare con la funzione della scrittura. Se questa ci è sempre apparsa come un modo di immagazzinare, manipolare e trasmettere la conoscenza, in quale tipologia dovremmo ascrivere alcune delle scritture contemporanee in precedenza menzionate? Maurizio Ferraris ricorre alla categoria della documentalità per definire, sulla scorta di Derrida, uno statuto della scrittura e una ontologia degli oggetti sociali (Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce). Una ontologia fatta di registrazioni e di documenti, i quali hanno accompagnato la storia della cultura umana e oggi ingorgano i nostri computer e i nostri cellulari. Il telefono, in particolare, ripudia apparentemente la propria etimologia e cessa di essere un mezzo fonocentrico, per diventare luogo dell’écriture. Ma le cose non sono così semplici. A parte il fatto, già evidenziato, che quelli scambiati via telefono non sono propriamente testi, ma “pezzi di contenuto” transcodificabili, è proprio nella loro scarsa capacità di documentalizzare che scorgo un nodo concettuale. Non tutta, ma buona parte della produzione testuale che affolla le piattaforme di messaggistica istantanea e i social network si configura come scrittura senza differimento. E una scrittura “orale”, che non sposta i confini della memoria, che non si salva ma al contrario si sciupa e dissipa, e dunque non si documentalizza. Ciò che si documentalizza, semmai, è il metatesto (o metadato), ossia l’informazione relativa a ciascuno dei nostri atti performativi nella Rete: la materia prima su cui società come Google, Facebook e Amazon fondano il loro profitto.
La messaggistica istantanea è una scrittura in presenza. Derrida ha in mente una scrittura diversa, caratterizzata dall’assenza del soggetto che l’ha prodotta. E postula la leggibilità illimitata del testo, la molteplicità delle letture e delle interpretazioni, proprio a partire dal fatto che esso si distacca dal soggetto e si rende disponibile al di là del suo tempo. Ma nella messaggistica istantanea non c’è differimento. Quindi il fenomeno della différance, caro a Derrida, si manifesta qui in forma attenuata. Se da un lato c’è distanza (differenza) fra il segno e ciò di cui esso prende il posto, dall’altro c’è vicinanza (compresenza) dei soggetti che scrivono e leggono. Anche per questo i testi istantanei dei nuovi media tendono alla brevità. Nulla a che vedere con la quickness di Italo Calvino. Essa è rinuncia a una strategia analitico-temporale, a favore di una visione sintetica. E questa, se non è la fine della scrittura, certamente è la fine del romanzo.