Dal rione al mainstream. L’amica geniale di Elena Ferrante

Il successo di L’amica geniale di Elena Ferrante è un fenomeno difficile da sottovalutare. La tetralogia della misteriosa scrittrice napoletana ha ottenuto un vastissimo successo internazionale, specie negli Usa, corroborato da un unanime consenso critico. L’infinito rimando fra le due protagoniste, il gioco dei simboli e l’accanita introspezione innervano una narrazione sempre capace di sviluppare ampie campate d’intreccio, costruendo una realtà sociale concretissima. Siamo di fronte a un’opera che concilia qualità estetica e leggibilità.
 
Dal 2011 al 2014, con cadenza annuale, sono usciti i quattro volumi di L’amica geniale (Roma, e/o) di Elena Ferrante. Si sa, la mole (1.630 pagine) non spaventa affatto il lettore di saghe, tutt’altro; e la stessa sequenza delle «puntate» della saga è un ulteriore elemento di fidelizzazione. Ma certo il successo della Ferrante è davvero straordinario: sia per le dimensioni, sia per l’ampiezza dei consensi critici. Se in Italia la tetralogia ha venduto oltre 150mila copie a volume, nei soli Stati Uniti (dove è tradotta da Ann Goldstein e pubblicata dalla Europa Editions di New York), già nei primi mesi del 2015 aveva venduto in media 13 Ornila copie a volume; ma ci sono anche le traduzioni in francese, tedesco, spagnolo, portoghese, neerlandese, polacco, turco. Se da noi, a parte i pettegolezzi sull’identità dell’autrice, non è mancata qualche penosa manifestazione della consueta italica invidia verso gli scrittori di grande successo, all’estero la Ferrante ha avuto un consenso critico pressoché unanime: come ben mostra il sito www.elenaferrante.com, aperto dall’editore Usa, dove si leggono quasi tutte le recensioni in lingua inglese, e una scelta di quelle in altre lingue. Persino Oprah Winfrey, la «regina della tv» americana, influentissima mediatrice fra la cultura alta e il mainstream, ha dichiarato che le opere della scrittrice napoletana sono «deliciously addictive», cioè creano dipendenza. «Foreign Policy» l’ha addirittura inserita nell’elenco dei 100 «pensatori globali» più influenti del 2014. Il premio «Book of the year 2015» di Waterstones, la più importante catena di librerie del Regno Unito, registra My brilliant friend fra gli otto finalisti. In Italia una équipe di sceneggiatori, capitanata da Francesco Piccolo, sta lavorando a una fiction televisiva tratta da L’amica geniale, prodotta da Rai Fiction e da Fandango. Insomma, manca poco, e la saga della Ferrante diventerà un brand, o meglio firanchise transmediale, come Star Wars e Matrix, o almeno come Il signore degli anelli e Harry Potter.
E vero, il toto-Ferrante non smette di appassionare i lettori, accompagnato da molti commenti maligni, che sottolineano l’efficacia come trucco di marketing del mistero sull’identità dell’autrice: d’altro canto è impossibile non sottolineare l’eccezionaiità, e la quasi incredibile coerenza, con cui la Ferrante ha cancellato la propria presenza fisica. Una situazione quasi unica, che si riverbera peraltro in modo ben percepibile sulla struttura portante della tetralogia, dove la Ferrante concede alla propria narratrice e co-protagonista, Elena Greco, fama e riconoscibilità di scrittrice, e, insomma, tutto quanto ha negato a se stessa. Ma allo stesso tempo attribuisce all’altra co-protagonista, l’amica Raffaella Cerullo, proprio il programma da lei stessa così rigorosamente messo in atto nella vita «vera»: «Cancellarsi era una sorta di progetto estetico. […] Eh, disse una volta, quante storie per un nome; famoso o no, è solo un nastrino intorno a un sacchetto riempito a vanvera con sangue, carne, parole, merda e pensierini» (Storia della bambina perduta, p. 433).
L’infinitamente reversibile rimando di somiglianze e antitesi che segna il rapporto fra le due protagoniste è annunciato, fin dalle prime pagine, già dal conclamato regime della somiglianza dei nomi: visto che Elena si fa Lena (Lenuccia Lenù) e Raffaella (Raffaellina) Lina o Lila. Già, «quante storie per un nome»! E un gioco che la Ferrante aveva già accennato con la figlia e la madre, Delia e Amalia, di L’amore molesto, e proseguito vistosamente in La figlia oscura, contrassegnato da un piccolo labirinto ecolalico di nomi, diminutivi, vezzeggiativi, deformazioni dialettali e soprannomi. Sorretto e quasi generato da una vertiginosa serie di corrispondenze, per analogia e per antitesi, il poderoso edificio di L’amica geniale riesce certo a essere un romanzo-mondo, abitato da una folla di personaggi, alcuni dei quali davvero robusti e profondi, altri comunque funzionali agli snodi di una narrazione che sa attrarre lettori di diversa competenza, in una sequenza inarrestabile, dove la coraggiosa, pervicace profondità dello scandaglio psicologico si mescola a un’ammirevole inventiva d’intreccio. La forza della rappresentazione deve inoltre non poco al conturbato realismo con cui mette in scena una realtà sociale concretissima: la storia delle due amiche è anche la storia di un rione napoletano, anzi del rione, quasi certamente identificabile con il Rione Luzzatti, ma strategicamente mai nominato. E così la storia del rione finisce per valere da correlativo oggettivo della storia di Napoli, e del Sud, e dell’Italia di quegli anni: fino ad alludere alla storia globale di una distorta modernizzazione.
Certo L’amica geniale è anche opera in senso lato «popolare», costruita coi ritmi larghi del romanzo d’appendice, quasi già predisposti per una possibile fiction per immagini: e non solo per la serialità, tutto sommato debole. Assai più potente è invece l’unitaria fluvialità della narrazione. Dove, a ben vedere, si verifica una situazione che ha del singolare: perché da un lato il lettore è travolto, diventa addicted e non riesce a smettere, ma da un altro è messo nelle condizioni, abbastanza singolari per un successo tanto pop, di non potersi mai immedesimare serenamente con le protagoniste: non con la sempre dubitante Lena, ma tanto meno con la sua tormentosa, scostante, indecifrabile amica Lila. La narratrice penetra senza tregua nelle ramificazioni più sottili delle psicologie propria e dell’amica: con una profondità, una determinazione, e quasi una ferocia, che spengono senza scampo alla radice ogni possibile aspirazione all’immedesimazione consolatoria. Anche perché l’amicizia femminile che campeggia già nel titolo è «splendida e tenebrosa» (Storia della bambina perduta, p. 429), e si colloca dunque sotto il segno inequivocabile dell’ambivalenza, e di una visceralità irriducibile, che la consegna al regno insondabile e inospitale del fato. Inoltre, «l’amica geniale», come ha ben notato Elisa Gambaro, è anche (giusta l’epigrafe faustiana che apre il primo volume) «genio» inteso come demone. Senza contare che l’onnipervasiva duplicità delle relazioni fra le due amiche e antagoniste arriva alla fine a farci persino dubitare se «l’amica geniale», e però fallita, sia davvero Lila, o non piuttosto la ben realizzata Lena, però vista dalla prospettiva della sua amica, e antagonista.
L’approfondimento financo ossessivo delle profondità della psiche non insidia tuttavia mai l’ampiezza delle campate narrative, capaci di ospitare senza imbarazzo una vigorosa pluralità di modelli, a cominciare dal romanzo di formazione e dalla saga familiare. A questi si somma il passo apertamente autobiografico, che suggerisce la possibile identificazione tra l’autrice e la narratrice: che comunque si chiama Elena e fa la scrittrice di successo. Ma proprio su questa matrice ad alto rischio di banalità il progetto della Ferrante sa farsi ben più complesso e raffinato. La narratrice infatti scrive per (ri)dare vita all’amica, che ha voluto cancellare ogni traccia di sé: dove è impossibile non vedere una rifrazione della condizione dell’autrice stessa, che ha cancellato ogni traccia del proprio sé biografico, dando vita a se stessa solo attraverso la propria contro-figura letteraria. Siamo così anche di fronte a una doppia pseudo-autobiografia: perché Elena racconta la propria vita e quella dell’amica, intrecciate e inseparabili anche nella separazione, ma, più sottilmente, anche perché alla diretta e non di rado persino un po’ piatta autobiografia della narratrice si affianca la ben più chiaroscurata biografia di Lila, che ha sistematicamente caratteri congetturali, densa com’è di ellissi e di drammi non risolti né conosciuti da chi narra. La narratrice prima si fa così tramite al tempo stesso costante e discontinuo delle narrazioni di Lila, che periodicamente si fa narratore di secondo grado, attraverso innumerevoli inserti di discorso indiretto, un po’ meno spesso con il discorso diretto. Moltissime azioni di Lila, spesso le più importanti, e ancor più i suoi veri sentimenti, restano sconosciuti, e sono in continuazione oggetto di domande e illazioni e tentativi di risposta, normalmente vani, da parte di Elena. Inoltre, ed è un fatto decisivo, la storia delle prodigiose qualità e insieme dei continui fallimenti di Lila si affianca all’estenuante insicurezza di Elena, sempre impegnata a fare strada, a capire, a crescere, e tuttavia perennemente abitata dal sospetto di non avercela fatta: a crescere, a diventare consapevole, a fare un salto di qualità sociale, e persino a diventare una brava scrittrice. Così l’una e l’altra protagonista si amano ma fors’anche si odiano, certo si ammirano e si invidiano l’un l’altra, e non riescono a conoscersi, pur conoscendosi a menadito, né a comunicare davvero, pur parlandosi molto spesso.
L’inesorabile progressione lineare della narrazione è intanto costantemente contrappuntata da una fitta trama di corrispondenze simboliche: che conferiscono al testo una densità irriducibile a quella di una «normale» saga pop, e una qualità estetica difficile da negare. Ciò non toglie che in L’amica geniale, rispetto alle misure più controllate e allo stile più distillato soprattutto di L’amore molesto, la stessa costruzione di un labirinto infinito di rispecchiamenti per similarità e per antitesi sia così insistita da sconfinare sovente sia nella maniera, sia nella forzatura appendicistica: specie da un certo punto del terzo volume, quando anche la reiterazione delle morti violente si infittisce fin quasi ai limiti del grandguignolesco.
L’infinito intreccio di sovrapposizioni e antitesi fra Lena e Lila viene giocato lungo tutto l’arco delle rispettive traiettorie sociali, cui si associa tutta una serie di paradigmi oppositivi a due termini, sul piano sociologico, psicologico, ma anche più largamente simbolico: emarginazione / inclusione; mobilità / immobilità; ricchezza / povertà; conquista di un nuovo status / irriducibile appartenenza allo status di partenza (Storia del nuovo cognome, p. 125); disponibilità verso i propri stessi sentimenti / programmatica repressione dei sentimenti; tentativo di capire / volontà di non affrontare i propri nodi; gentilezza / sgarbataggine e persino aggressività; ascesa / discesa; luce / ombra (Storia di chi fugge e di chi resta, p. 282). Un aspetto fondamentale, e sinora poco indagato, di queste contraddizioni riguarda, strategicamente, il nesso fra vita e scrittura, o più ampiamente fra vita pratica e attività intellettuale. Dove proprio la possibilità dell’ascesa e del successo attraverso la scrittura si rivela ambivalente: e se forse è troppo dire che si tratta di una possibilità più apparente che sostanziale, bisogna però notare che, per quanto Lenù faccia la sua strada, e guadagni i suoi bei soldini, con ogni evidenza le leve vere della ricchezza e del potere restano sempre altrove. Semmai, anche in questo caso sarà la non intellettuale Lina a trovare il modo di avvicinarsi alla ricchezza, mettendo in difficoltà persino i potenti camorristi Marcello e Michele Solara, con la sua intrapresa informatica, che efficacemente rilancia, ai tempi dell’elettronica, la pre-moderna industria calzaturiera del primo volume.
La questione della scrittura resiste come paradigma portante anche nella chiave della formazione: il Bildungsroman di Elena è infatti anche e proprio Kunstlerroman, romanzo dell’artista, è chiaro. Ma l’uno e l’altro restano controversi: sia nella dimensione della Bildung generalmente intesa, sia nella più specifica dimensione della scrittura. Tanto è vero che fino all’ultimo la poco alfabetizzata Lila metterà in dubbio la riuscita e la qualità della scrittura di Lenù, che è diventata una scrittrice famosa, ma forse scrive libri «brutti»: non agli occhi degli altri, visto che è famosa e affermata, ma, quel che più conta, ai propri stessi occhi, resi più acuti dallo sguardo spregiudicatamente a contropelo alter ego Lila. Tanto più che Lila rinnova a più riprese la sua attività di scrittrice «clandestina», capace tuttavia di ispirare la scrittura professionale di Lena: dalla fiaba della Fata blu al Diario, al memoriale sull’industria salumiera di Bruno Soccavo, fino alla possibile scrittura storica, o storico-turistica, dedicata, guarda caso, a Napoli. Così Lila, che ha fatto solo la quinta, e che non si è curata mai di essere un intellettuale, potrà essere sospettata fino all’ultimo di essere, solo lei, una scrittrice vera, addirittura «geniale», che Lena plagia senza scrupoli. Ma delle scritture di Lila si sono perse le tracce: per colpa di Lena, che è qui che scrive. L’antagonismo persistente fra Lena e Lila trova così flagrante espressione simbolica anche e proprio nella distruzione delle scritture di Lila da parte di Lena: trasparente omicidio metaforico, che conferisce ulteriore ambiguità alla sparizione di Lila, da cui ha origine tutta la compagine romanzesca e su cui non cessa di aleggiare il sospetto di evidente autobiografismo.
La più volte ipotizzata superiorità di Lila narratrice sulla narratrice principale prende corpo in una ben più inquietante possibilità: perché Lila pare in grado di muovere «la gente come personaggi di un racconto» (Storia di chi fugge e di chi resta, p. 284), al punto da fare ipotizzare a Lenù (negli anni di piombo) che si preparasse già a sparire, per poi riapparire, pronta ad affermare, nientemeno: «tu volevi scrivere romanzi, io il romanzo l’ho fatto con le persone vere, col sangue vero, nella realtà» (Storia di chi fugge e di chi resta, p. 285). Per quanto questa ipotesi venga presentata solo per essere subito ritirata, come una proiezione angosciosa di Lenù, essa segna un momento di fondamentale importanza: Lila si svela comunque in grado di produrre effetti sulle persone e in genere sulla realtà, mentre Lenù appare condannata a una costante, irredimibile impotenza. A conferma che la scrittura è in perenne condizione di inferiorità, e il successo nella scrittura non solo non garantisce quello nella vita, ma rischia anzi di essere chiaro segno proprio di una non emendabile inefficacia a fronte della realtà. Siamo, in altre parole, di fronte a una complessa e suggestiva ripresa del topos dell’inettitudine. Ma il gioco dei rovesciamenti non smette di essere in agguato, e proprio la più abile Lila si rivelerà drammaticamente inetta, o disadattata, e inesorabilmente sconfitta. Per altri versi invece, a prescindere dalla riuscita nella vita, la subalternità di Elena resterà irriducibile, e conclamata (Storia di chi fugge e di chi resta, p. 255).
E sintomatico che Lena sia sempre ossessionata dal bisogno di essere approvata dagli altri: un’ossessione che fa tutt’uno con il dubbio sul proprio valore, e sulla complementare diffusa convinzione della superiore intelligenza di Lila. Né si possono trascurare le evidenti implicazioni socio-culturali di molti temi e simboli ricorrenti: a cominciare da quella del nome come segno dell’identità personale, lesa se non cancellata dalla necessità per le donne sposate di rinunciare al proprio cognome per acquisire quello del marito. Così come è difficile mettere in sordina l’irriducibile violenza del mondo rappresentato dalla Ferrante: violenza fisica, sociale, economica, psicologica, con una peculiare, intensissima e coraggiosa messa in scena dell’inferno delle relazioni familiari. Si pensi, per esempio, al personaggio della mamma di Elena, che raggiunge, nella sua conclamata sgradevolezza, conturbante profondità. E certo fondamentale è il problema dell’emancipazione femminile: tanto più scoperto, e dolente, quanto più la Ferrante insiste sulla questione del rapporto madre-figli, e soprattutto madre-figlia, già al centro di L’amore molesto. La visceralità del rapporto madre-figlio si drammatizza e complica nel nesso fra accettazione amorosa della maternità e risentita voglia di rifiutare la maternità, donde il replicarsi di un’altra duplice ossessione ferrantiana: quella della madre che fugge e della figlia perduta. La relazione madre-figlia trova inoltre un trasparente correlativo oggettivo nella relazione bambina-bambola, già decisiva in La figlia oscura, e ora diventata addirittura immagine portante dell’intero processo narrativo, attraverso l’invenzione del doppio alter ego giocattolesco, le bambole Tina e Nu, e il loro ricomparire alla fine, a chiusura del cerchio, o forse a sua riapertura e potenziale rilancio. Dove, con calcolata malizia, la bambola di Elena si chiama come la figlia, poi perduta, di Lila. La dinamica, quasi coatta e non poco freudiana, del perdere e del ritrovare s’intreccia infine, in un groviglio inscindibile, con la questione del rapporto con Napoli, che si sovrappone al rapporto con Lila. La problematicità dell’identità si manifesta anche nella contraddizione fra la diffusa, irresistibile voglia di scappare e l’insopprimibile spinta a tornare. Analoga duplicità di sentimenti, tra invincibile fastidio e quasi fatale dipendenza, si ripropone, significativamente, anche nel rapporto verso il dialetto: con innumerevoli commenti meta-dialogici alle situazioni in cui i personaggi usano il dialetto, spesso connotato come volgare e violento. Al registro basso del dialetto e spesso del turpiloquio fa d’altronde riscontro la costante pressione verso l’innalzamento stilistico, incarnata sia nella frequente oltranza nell’uso di metafore, comparazioni, e persino similitudini, sia nelle insistite serie parallelistiche, soprattutto anaforiche. Che però spesso sono sequenze di domande: spia flagrante della costante presenza del dubbio, dell’irriducibile incertezza che aleggia su quasi tutto quello che Elena fa, dice e pensa.
In fin dei conti, nonostante certe disuguaglianze nei risultati, e non pochi punti in cui lo stile dà l’impressione di essere un po’ tirato via, non credo sia possibile sminuire la complessità e la qualità di L’amica geniale, la sua capacità di contribuire vigorosamente alla buona salute della civiltà del romanzo, e di una letteratura capace di conciliare pienamente valori estetici e leggibilità.