Il giallo alla milanese

Esiste dai tempi di Scerbanenco e forse prima, ma ancora non si è trovata una formula per imbrigliare un sottogenere che solo ora inizia ad apparire tra le tassonomie editoriali. Tradizionale e nostalgico il giallo ambrosiano non rinuncia a nuove aperture come nei casi di Gianni Biondillo e Alessandro Robe echi.
 
Giorgio Scerbanenco lo aveva detto chiaro e tondo sul finire degli anni sessanta, col suo stile schietto, quasi brutale: il capoluogo lombardo assomiglia ormai più a una versione nostrana di Chicago che al Milanin di demarchiana memoria. Un cambio di paradigma che avrebbe comportato vantaggi ma soprattutto svantaggi. La nostalgica «macchina per scrivere storie» ne era convinta: presto dal cavallo di Troia della «società di massa» sarebbe fuoriuscita anche una «criminalità di massa» con cui fare i conti. I teddy boys che Pier Paolo Pasolini aveva raccontato nella Nebbiosa (sceneggiatura da cui fu tratto nel 1963 il film culto Milano nera) ne erano le avvisaglie. Altro che ligéra: le organizzazioni contro cui si sarebbe scontrata la pula d’ora in avanti avrebbero avuto tutt’altro peso. Anche il nuovo romanzo poliziesco avrebbe perso le classiche e rassicuranti tinte limoncine per diventare un groviglio opaco, scurissimo, un buco nero prodotto dalla collisione di due civiltà: una tradizionale, per così dire, «localista» e una cosmopolita-futuribile.
Sarà pure passato più di mezzo secolo da allora ma, a prima vista, il legame che intreccia l’ambiente metropolitano meneghino al noir rimane ancora intatto sebbene varie germinazioni abbiano costellato la produzione di genere impedendo una forma univoca e una vera e propria canonizzazione del «giallo alla milanese». Oggi più che mai, quasi si trattasse di una specialità culinaria da ostentare sul menù, tale tassonomia sembra avere preso piede presso alcuni librai della città. È il caso di Feltrinelli che in alcuni dei suoi megastore riserva alla categoria «Giallo a Milano» espositori ad hoc dove si mescolano «in mantecatura» autori e case editrici diversissimi tra loro: da Romano De Marco (Foxcrime-Feltrinelli) a Besola-Ferrari-Gallone (Fratelli Frilli) passando da Francesco Recami (Sellerio) fino ad arrivare a Sandrone Dazieri (Mondadori) e perfino a Giuseppe Genna (Mondadori).
Si tratta, ben inteso, di iniziative messe in atto dai singoli rivenditori che lasciano tuttavia intuire come l’ambientazione cittadina sia, almeno in un orizzonte commerciale, un denominatore comune piuttosto pratico. Lo testimonia anche il sottobosco editoriale, dove, accanto ad alcune collane da edicola (ad esempio Noir Italia del «Sole 24 Ore», in distribuzione dal luglio 2013), è possibile trovare proposte come la Calibro 9 di Novecento editore, serie diretta da quel Paolo Roversi che si era fatto notare già nel 2011 con Milano Criminale (Rizzoli), una sorta di summa storico-romanzesca della malavita ambrosiana. E, in effetti, una delle tendenze che certifica e, allo stesso tempo, dialoga con la tradizione noir di Milano è quella che gioca proprio sul richiamo nostalgico-passatista come elemento cardine delle proprie trame. Basti osservare l’operazione che l’editore Fratelli Frilli ha portato avanti nel 2011 con i volumi di Dario Crapanzano (Il giallo di via Tadino, La bella del Chiaravalle, ecc.), sulle cui copertine campeggiavano in bella mostra le diciture «Milano, 1950», «Milano, 1952» e così via, quasi si trattasse di differenziarsi dai contemporanei con un messaggio preciso: ecco a voi, cari lettori intenditori, un bel giallo d’annata!
Strategia vincente che ha portato, oltre a un buon successo di vendite, a sollecitare l’attenzione di Mondadori, la quale nel 2014 ha inserito l’autore nella sua collana «Strade Blu». Del resto la casa editrice di Segrate non ha mai fatto mistero di puntare, anche in tempi recenti, al recupero di un giallo «di tradizione» che potesse essere associato alla città: ne è dimostrazione la riedizione (avvenuta nel 2013 a pochi mesi dalla scomparsa dell’autore) dei gialli di Renato Olivieri, penna storica della narrativa di genere tra la fine degli anni settanta e l’inizio del nuovo millennio. Oltre a dedicare sul proprio sito una pagina che ripercorre, cartine alla mano, i luoghi visitati dal commissario Ambrosio, Mondadori ha marchiato le nuove ristampe con la perentoria didascalia «I gialli di Milano» a dimostrazione che ormai il marketing aveva recepito il messaggio: il «made in Milan», almeno nel giallo, è un brand che può giovare alle vendite.
Ma, al di fuori del filone storico-nostalgico e delle ristampe d’eccellenza (Scerbanenco in testa), esiste anche un «poliziesco» ambrosiano che stabilisce un rapporto con la città del presente rendendola cronotopo delle sue trame. A distanza di pochi mesi l’uno dall’altro sono usciti, rispettivamente per Sellerio e per Guanda, Dove sei stanotte di Alessandro Robecchi (aprile 2015) e L’incanto delle sirene di Gianni Biondillo (settembre 2015). Se il nome di Biondillo è ormai rispettato nell’ambiente di genere grazie alla saga sull’ispettore Ferraro (Per cosa si uccide, Con la morte del cuore, ecc.), quello di Robecchi rappresenta ancora una novità. Noto alle cronache per la carriera satirica che lo ha visto impegnato prima come ideatore di un apprezzato programma radiofonico (Piovono pietre su Radio Popolare) poi come autore televisivo (tra gli altri di Maurizio Crozza), Robecchi ha debuttato nel noir con Questa non è una canzone d’amore (Sellerio, 2014) a cui è seguito il breve racconto Il tavolo, inserito nella raccolta «estiva» in giallo (Sellerio, 2014).
La Milano raccontata dai due scrittori parte da un presupposto comune alla «vulgata» scerbanenchiana: le tensioni narrative devono generarsi dalla frizione tra lo sviluppo del contesto urbano e un’umanità che procede secondo altre velocità. Alla Milano verticale di piazza Gae Aulenti e dei recenti grattacieli costruiti in zona Garibaldi, coprotagonisti nel romanzo di Biondillo, si contrappone una città orizzontale edificata su un paesaggio antropologico sfaccettato e multietnico, ricco di contraddizioni e problematicità. È quest’ultimo – sembrano sostenere i due scrittori – il vero skyline rappresentativo del capoluogo lombardo: non è un caso se uno dei filoni narrativi de L’incanto delle sirene è dedicato all’emergenza abitativa delle periferie o se il Carlo Monterossi di Robecchi si trova a vivere le sue avventure nella comunità dei «latinos» di Corvetto, ben lontano dai padiglioni di Expo (confinati, sarcasticamente, negli sfoghi e nelle imprecazioni degli esasperati tassisti meneghini). Frammentata, disarticolata, innervata da un’esuberante immigrazione o dalla casta del potere, Milano nei romanzi di Robecchi e Biondillo è la somma di realtà autonome, incapaci di comunicare, a tratti, perfino di interagire tra loro. Ecco allora che il ruolo del funzionario, del dilettante o del privato (questa la trinità suggerita da Oreste del Buono nell’identificare i protagonisti del poliziesco) assume un’inedita funzione assistenziale di stampo solidal-progressista: oltre a ricomporre i pezzi del puzzle criminale di turno, l’eroe diventa l’ago che penetra e ricuce il tessuto sociale della città, si fa promotore (anche in maniera in volontaria) di un principio d’integrazione dai riflessi filantropici. La sete di giustizia che lo anima (sebbene si cerchi di camuffarlo con nonchalance) sembra nascere dall’irrequietezza del proprio senso civico, da un idealismo più prossimo all’etica comunitaria che ai cupi e sordidi istinti di vendetta del giustiziere vecchio stampo.
Se il rischio per Scerbanenco era cedere qua e là alla retorica drammatica e a un patetismo tragico, per Biondillo e Robecchi il pericolo si annida nel gravitare intorno alla commedia dei buoni sentimenti. Una attitudine che, sebbene portata avanti con una certa consapevolezza e stemperata (soprattutto nel caso di Robecchi) da una massiccia dose di ironia, può risultare indigesta a un genere, quello nero, che punta a un’analisi del reale e mal tollera le digressioni «favolistiche» e i lieto fine. Ma, in fondo, perché puntualizzare? Se non saranno neri veri e propri, saranno gialli sporchi, l’è istess. Il poliziesco alla milanese, lo si è accennato al principio, non si formalizza più di tanto; come la città che rappresenta, possiede una generosità inclusiva ma non disinteressata: è disposta ad ammettere le nuove leve solo a condizione che perpetuino il mito di una civiltà urbana. E una tradizione letteraria, sebbene di genere, è pur sempre un fiore all’occhiello.