La calma sfiducia dell’ultimo Eco

Un giornale che non uscirà mai, un libro da non scrivere, la falsa fucilazione di Mussolini e la morte veridica di un malfamato reporter. Con questi ingredienti sensazionali, Eco torna al romanzo in stile neo-appendicista. Siamo a una tappa superimpegnata per l’autore, però soffusa di nostalgie e di tentazioni desistenti. Sembra lo scotto di un postmodernismo denudato di artifici, in cui anche la satira di costume si accomoda a una mediocrità senza prospettive di risarcimento civico. Un dipinto ne compendia il significato: L’isola dei morti di Bocklin.
 
È nota la passione di Umberto Eco, come studioso e come narratore, per il romanzo popolare ottocentesco; la disinvoltura con la quale si muove tra le pagine di Hugo, Sue e Dumas padre. E anche il recente Numero zero, se visto nell’insieme, dichiara anzitutto forme e cadenze feuilletonistiche, secondo una voga che procede senza inciampi dal Nome della rosa e dal Pendolo di Foucault sino al Cimitero di Praga. Non devono ingannare l’aspetto diaristico dei capitoli o il profilo niente affatto straordinario dei due personaggi protagonisti: lui, il dottor Colonna, un «perdente compulsivo» alle prese con un foglio quotidiano che non uscirà mai e con un libro – a cui tocca la medesima sorte – che dovrebbe travisarne gli scopi inconfessabili. Lei, Maia Fresia, una trentenne segnata dai fallimenti, transfuga dal mondo dei periodici più insulsi e caduta dalla padella del chiacchiericcio volgare nella brace delle speculazioni a mezzo stampa.
Non deve ingannare, infine, uno stile funzionalmente slavato, resocontistico, molto discosto dalle coloriture accese e dai tocchi altisonanti che connotano spesso il roman populaire. Uno stile sempre in equilibrio tra dialogato esteso e sommario disadorno: in cui le soluzioni di oralità corrente, appena soffuse di trivialismi e di spunti gergali, si mescolano a rare sofisticatezze antiquarie (callidissimi, surcigliose, integumento) e a timide illuminazioni di indole retorica: similitudini, metonimie, ossimori (cauto brio, sbrindellata maestà).
In realtà ciascuno di questi elementi sottrae poco al progetto di rivisitazione ottocentesca in cui confida l’autore. Anzi lo dota di un’originalità dimessa ma composita, per una parte da ricondursi ai sensi di un militantismo severo, persino allarmato, che insiste sulle più oscure trame italiane e sulla degenerazione del nostro sistema informativo; ma per altra parte deciso a intrattenere il pubblico leggente grazie a svaghi e dialoghetti intrisi di paradossale sarcasmo.
Taluno tra i commentatori – solitamente giornalisti, mentre i critici di mestiere, fatta salva qualche acuminata eccezione, hanno opposto un polemico silenzio – ha ravvisato nel romanzo alcunché di sovrabbondante, di provvisorio. E a onore del vero, anche considerando le caratteristiche aperte e centrifughe dei modelli a cui si ispira, Numero zero ci offre una trama complessa, frutto di sovrapposizioni palesi, qui e là incline agli steroidi e agli anabolizzanti. Una trama però scandita con cura, racchiusa in una grande analessi, secondo un criterio di circolarità efficace; e che se mai si snoda – su questo punto vorremmo essere esatti – alternando un duplice (o triplice) ordine di registri espressivi.
In primo luogo il romanzo prende i toni della parodia, della satira di costume, e s’inoltra nelle vicende redazionali del fantomatico quotidiano con moti di criticismo censorio e ridanciano. Si tratta della componente forse più profusa e più sospetta di ridondanze, dove si congegnano gli editoriali e le rubriche, le strategie diffamatorie, le tecniche di smentita, i necrologi di convenienza. E dove pure si trova traccia del vecchio Eco autore delle bustine di Minerva e del Diario minimo, abile nel disporre episodi esilaranti e nel trarne beneficio in veste di goliarda surreale. Per darne il senso, bastano pochi fraseggi. Dinnanzi a uno stantio e ormai intollerabile regesto di formule giornalistiche (già cadute a suo tempo sotto la scure di Arbasino), eccolo proporre ribaltamenti assurdi: «per me l’arabo è matematica», «intero fungo avvelenato da una famiglia». O anche, in modo da smascherare il penoso contrabbando di articoli in riciclo e appena drappeggiati di vacuo sensazionalismo: «Clamorosa notizia degli storici di Cambridge. Cesare è stato veramente assassinato alle Idi di marzo».
Siamo come è chiaro nell’ambito di un dolentissimo divertissement. Pagina dopo pagina, allo sguardo del lettore si compone una sorta di mappa, di prontuario relativo a ciò che la stampa non dovrebbe essere e che tuttavia è diventata, con il concorso irresponsabile o connivente dell’intero ceto giornalistico. Ma accanto a questo smagato compendio di nequizie – e in seconda posizione – ecco il nocciolo buiamente complottistico del romanzo. A farsene interprete è il laido e tenebroso cronista Romano Braggadocio (un minimo Schedoni dell’informazione), costantemente assediato dal sospetto e da un’urgenza quasi viscerale di predisporre inchieste e scoop ad altissima risonanza. Da lui viene il cospicuo e commisto brogliaccio che ha per argomento la finta morte di Mussolini, i ripetuti tentativi di eversione autoritaria, il sorgere di Gladio, la corona di stragi italiane, la P2 di Licio Gelli. Insomma un’angosciante trafila di misteri mai del tutto chiariti, e in parte travisati, volgarizzati, che Eco insaporisce di ulteriori pimenti e poi interpone nelle maglie del racconto: rendendo Braggadocio un narratore supplente, o di secondo grado. Un narratore poco attendibile senz’altro, però capace di intrigare una mente non sprovveduta come quella di Colonna.
E c’è infine un terzo, più discontinuo elemento di cui conviene darsi conto. Vale a dire il tono malinconioso, rammemorante e intenerito che interviene nelle parti dedicate alla Milano com’era. Quando il protagonista frequenta i Navigli, s’inoltra nei vicoli e nelle storte tra via Torino e corso Magenta, all’incrocio delle Cinque vie; quando considera con qualche lacrimuccia gli edifici a ringhiera o indugia sulle case di tolleranza che ancora alla metà del secolo scorso davano una consistenza trasgressivamente celebrata allo stradario cittadino. Una nostalgia appena percepibile, quasi fugace, che può parere bizzarra in un romanzo deciso a denunciare le malefatte che si annidano in un passato recente. Ma che consuona con il titolo bellamente antitetico del libro a cui sta lavorando Colonna: Domani: ieri. E che in un malsicuro gioco di specchi dà ragione di certe richieste avanzate da Simei, il direttore: lei, comanda a un cronista addetto, «mi fa un bel pezzo di colore, tipo che il bel tempo antico non era poi così brutto».
Non è d’altronde l’Italia di oggi, quella che si affaccia dalle pagine di Numero zero, ma l’Italia di ieri e di ieri l’altro, quando tutto o molto ha avuto inizio: le prime tv commerciali, l’epopea effimera dei tabloid, la comparsa dei computer in redazione, l’aurorale imporsi dei telefoni cellulari. Poco importa stabilire se sotto le vesti dell’editore Vimercati si celi Berlusconi o Urbano Cairo; se a modello dell’insidioso quotidiano «Domani» Eco abbia preso l’«OP» di Mino Pecorelli oppure «L’Occhio» di Maurizio Costanzo. Importa che egli sogguarda a quell’Italia con inconciliata tenerezza, se non con deluso amore.
In effetti, molte cose sono cambiate dal tempo di Apocalittici e integrati} e molte anche dalle stagioni più vivaci del nostro postmoderno, quando il recupero della tradizione appendicista avveniva all’insegna dell’ironia sottile (la Blank Irony individuata da Jameson), del ristoro intellettualistico, delle strategie che potevano favorire una contesa politico-sociale accortamente dissimulata.
Ora l’appendicismo ricolmo di trovate sorprendenti si è fatto narrazione attendibile, secondo il motto «la réalité dépasse la fiction». Dinnanzi a un panorama ingrato, risaputo, descritto da più parti, lo stesso romanesque a tinte forti sembra anacronistico, «e di meglio, ormai, nessuno potrebbe inventare niente». Tuttavia lo spostamento massiccio della scrittura sul lato dell’inchiesta e della cronaca storica ha condotto con sé un più incerto rapporto tra ciò che è veridico e ciò che è frutto di fantasie morbose e scomposte. La trama mussoliniano-gladiesca e stragista, piduista e vaticana propostaci tra le pagine a grandi dosi, certamente fomenta molteplici dubbi: «Non capivo – dice il narratore – se Braggadocio fosse un portentoso narratore d’appendice, che mi dosava il suo romanzo a puntate, con la dovuta suspense a ogni “continua”, o se davvero stesse ancora ricostruendo la sua trama pezzo per pezzo». Però sul finire del romanzo è l’autorevole rete televisiva Bbc ad avallare molte delle ipotesi, lasciando senza utili certezze la coppia dei protagonisti: «Maia e io eravamo frastornati».
Ne viene un alterno impulso a certificare e a revocare in dubbio, a persuadere e a svagare sulle ali del possibile. Tra «illazioni allucinate» e sprazzi d’inchiesta dignitosa, indiziaria ma concreta, Numero zero scopre anche un nocciolo di ambiguità allarmistica e seducente. Il complottismo esoterico o politico è un tema della massima rilevanza per il neo-appendicista Eco: ma indicava ieri un grave tralignamento dai criteri di razionalità essenziale, e a rendersene deprecato promotore era il ceto dei colti, degli uomini in palandrana, dei moderni custodi del sapere. Anche oggi l’ossessione complottistica è appannaggio dell’intellettuale diffuso – e magari di un intellettuale in minore, come il giornalista a catena, secondo un palese abbassamento del tipo –, però è giudicata con più conturbata condiscendenza, quasi fosse un segno imprescindibile dei tempi, davanti al quale cede ogni criterio di opportunità e di prudente saggezza.
La stessa mole di richiami letterari e cinematografici predisposta nel romanzo colpisce per la coazione snervata che vi è implicita. Al tempo del postmoderno felix, citare e contessere la pagina di altri testi significava abbandonarsi con alquanto compiacimento all’estro enciclopedico e alle soluzioni combinatorie, allo scherzo tra intendenti, alla mozione della cultura. In un’Italia appena disertata dai programmi avanguardistici, era l’unico mezzo bene accetto alle élites di gusto per tornare a raccontare in tono cordialmente proficuo. Ora il gioco delle allusioni e dei rimandi a Tizio o a Caio ha un altro senso: sa di crepuscolo, se non di meschina e appena trattenuta desistenza. «La vita è sopportabile – dichiara l’ex redattore in chiusura di romanzo –, basta accontentarsi. Domani (come diceva Scarlett O’Hara – altra citazione, lo so, ma ho rinunciato a parlare in prima persona e lascio parlare solo gli altri) è un altro giorno».
Recluso prudenzialmente sulle rive del lago d’Orta, e poco convinto che il paese possa risalire la china, al buon Colonna non resta che contemplare la realtà circostante in un atteggiamento di «calma sfiducia», di pacatezza pessimista e intimamente raccolta: con una donna a fianco, un film da gustare ogni sera e un piccolo gruzzolo guadagnato con scarso onore. Respinta l’idea di espatriare nei mari del Sud, novello Stevenson-Tusitala, non altro avanza al suo sguardo che l’isoletta di San Giulio, quando la mattina sfolgora nel sole; quell’isola che pagine avanti già gli aveva ricordato l’isola dei morti, di bockliniana memoria.
Da tempo si è reso chiaro che la crisi del postmodernismo letterario ha lasciato sul tappeto, più nitido che mai, il grande retaggio popolare ottocentesco. Tra gli allievi di Eco, senz’altro ne hanno tratto giovamento i Wu Ming: così facili ai racconti à sensation e cosi singolarmente polemici verso il maestro, spesso imputato di prudenze perifrastiche e camuffature difensive. Mentre è vero che il venerando e ripudiato narratore-semiologo già da anni ha rinunciato alle dissimulazioni ipercolte e ha se mai intrapreso la via di una affabulazione diretta e abbuiata, intellettualmente – e forse generazionalmente – poco speranzosa.